Cartesio, come spesso succede, aveva ragione. Il suo celebre e oggigiorno bistrattato ego cogito, ergo sum (Principiorum philosophiæ, I, X) che cosa significa, in fondo, se non che noialtri umani (della soggettività non umana non possiamo dire nulla, ovviamente), siamo quello che siamo perché ce lo raccontiamo? Che cosa significa essere – in quanto soggettività umane – se non appunto raccontare a sé stessi ciò che stiamo pensando?

Ci stiamo riferendo al pensiero che si appoggia alle parole e ai discorsi, cioè al pensiero che è inseparabile dal linguaggio; non è qui in questione il misterioso e incomunicabile pensiero non linguistico, quello dei ramarri e delle nuvole. In questo senso, precisa Cartesio, «con il nome di pensiero intendo tutto ciò che accade in noi – noi coscienti – proprio in quanto in noi ve n’è coscienza» (I, IX). Il pensiero umano non semplicemente pensa, propriamente pensa pensandosi. La posta umana del cogito non è tanto la capacità di pensare (che sembra essere pervasiva nel mondo vivente) quanto appunto quella, molto più ristretta, di pensarsi pensandosi.

Ma non siamo forse prima di tutto dei corpi, obietta l’anticartesiano che è in tutti noi, corpi che sentono e si emozionano? Certo che siamo dei corpi, ma a Cartesio non interessa il corpo, interessa la nostra capacità (del tutto innaturale, in fondo, ché non si capisce quale sia il vantaggio evolutivo di una simile capacità) di pensare a noi stessi, cioè in definitiva di dirci ciò che siamo, ossia di raccontare a noi ciò che noi stessi ci raccontiamo di essere.

A Cartesio, cioè, interessa il racconto che ci raccontiamo in ogni momento, perché noi siamo quello stesso ininterrotto racconto (Cartesio non usa queste parole, ovviamente, ma ai nostri tempi probabilmente avrebbe usato proprio queste parole). Questo significa, fra l’altro, che non siamo mai soli con noi stessi, perché se per sapere chi e che cosa siamo dobbiamo raccontarci, questo vuol dire che non abbiamo alcun rapporto diretto con noi stessi. In realtà questo significa che per scoprire chi siamo dobbiamo smettere di essere soltanto noi stessi, e dobbiamo rivolgerci a qualcun altro. In effetti, nel racconto che siamo, siamo sempre fuori di noi, verso gli altri (ed è un altro lo stesso “sé” a cui raccontiamo il nostro racconto).

Si tratta di un racconto, o per essere più precisi un “meta-racconto” (come un meta-linguaggio è un linguaggio che si riferisce ad un altro linguaggio, così un meta-racconto è un racconto che si riferisce ad un altro racconto) che interessa anche a Paolo Jedlowski (un sociologo che è un filosofo suo malgrado) e a Romano Màdera (psicoanalista e filosofo): di questo si occupa il libro scritto a quattro mani (ma soprattutto a due voci), Racconti di racconti. Una conversazione (Mimesis 2024). La meta narrativa, scrive appunto Jedlowski:

È una narrativa che riflette su sé stessa, espone cioè la natura stessa del narrare. È esplicitamente il caso di Svevo. Dove porta? Alla presa d’atto della natura situata, artificiale, di ogni racconto. La coscienza di Zeno include due racconti, quello dell’analista e quello di Zeno, ma il primo, incastonando il secondo, dà all’insieme un senso particolare: nell’insieme il libro dice “questa è la storia che Zeno si racconta”, e non “questa è la storia di Zeno”. È lo stesso effetto prodotto dal quadro Questa non è una pipa di Magritte, dove al disegno di una pipa è affiancato il disegno di una scritta che dice “questa non è una pipa”: infatti, è un disegno (ivi, p. 13).

La pipa dipinta da Magritte non è, ovviamente, una pipa con cui si possa fumare del tabacco; in questo senso non è una pipa. Tuttavia rappresenta una pipa, e questo permette comunque di immaginarla, vederla e parlarne (e di scriverci sopra dei libri). Che cos’è allora la pipa di Magritte? Un’ininterrotta operazione di scrittura e riscrittura, locutus et pictus sum ergo sum. Ma la pipa ‘vera’? Anche la pipa ‘vera’, come vuole il materialista che è in tutti noi (siamo tutti cartesiani e idealisti, ma non sopportiamo questa condizione, e quindi pretendiamo di non esserlo, e ci diciamo anticartesiani e materialisti), di fatto è inseparabile dai discorsi e dai disegni che partono da quell’oggetto di radica ed ebanite: «Si potrebbe dire» – prosegue Jedlowski – «che la vita trascende il testo (è più grande di lui, e lo comprende), e contemporaneamente il testo trascende la vita (perché la nomina, cioè la inserisce in un mondo di segni che permettono di andare oltre alla vita che ‘si dà’, la portano a coscienza)» (ivi, p. 15).

Appunto, la vita, per sapersi e quindi essere, deve essere detta e dirsi, deve cioè raddoppiarsi (racconto di racconto, appunto) in vita che si sa, che non significa altro che essere una vita che si racconta come una certa vita. È proprio quanto sostiene Màdera: «Se so di raccontare mentre racconto faccio un passo ulteriore: l’autocoscienza si sdoppia di nuovo, o forse si comprende di più: perché il modo con il quale racconto il racconto dice che c’è una curvatura soggettiva di qualsiasi ‘realtà’, cioè che l’oggettività è solo una parte, dinamica e trasformabile, del reale» (ivi, p. 18).

Non c’è la vita, c’è questa vita che mi racconto così e così, e che un altro racconto potrebbe sempre mettere in crisi. È questo, in effetti, il prezzo da pagare se si trasforma la sostanza in un discorso di discorsi; il mondo – e noi nel mondo, noi come soggettività – diventa inseparabile dai discorsi che facciamo del mondo e sul mondo. Questo però non significa, ci ricorda il materialista che è in tutti noi, che il mondo non sia altro che il discorso che ne facciamo. È un punto che, in particolare, sta a cuore di Jedlowski: «Nel discorso, la verità è di norma l’attribuzione di un giudizio, un giudizio di verità appunto, espresso su di una affermazione, che ha senso nella misura in cui si oppone a giudizi diversi emessi o emettibili rispetto ad altre affermazioni. Se è così, la verità ha qualcosa di processuale» (ivi, p. 27). Cioè, la verità stessa è in qualche modo narrativa, anche se è allo stesso tempo una pulsione del racconto stesso ad uscire da sé, a cercare un fuori discorso senza del quale il discorso sarebbe sterile, e in fondo noioso. Perché, insiste Jedlowski, anche i racconti finiscono, e finiscono «quando il racconto fa sì che il personaggio si imbatta nella realtà che sta fuori dal racconto» (ivi, p. 34).

C’è il racconto, allora, ma c’è sempre anche, e soprattutto, quello che è fuori del racconto, cioè dove il racconto si arresta perché si è trasformato nel mondo. O meglio, dove il racconto coincide con la persona stessa che raccontando si racconta e diviene ciò che si è raccontato: «Così» – prosegue  Jedlowski – «mi sembra arrestarsi la regressione infinita: quando una storia ti appare la tua storia. E punto. Ne puoi trarre delle conse­guenze, ma non ha bisogno di commenti, e non può essere “relativizzata” a meno di sfuggire a te stesso. […] Potrei ridire la faccenda così: ci sono racconti che nominano lo stato delle cose: quello che a te sembra sia tale, certo, ma in un “sembrare!” che non permette alternative. E che ti libera: perché solo se riconosci lo stato delle cose poi puoi agire efficacemente» (ivi, p. 35).

È il punto decisivo del dialogo, quello etico (nel senso deleuziano di comportamento effettivo, prassi di vita, non in senso morale), cioè il momento in cui il discorso innesca un cambiamento della persona che si racconta. In effetti che cos’è lo stato delle cose se non una situazione individuata proprio attraverso il racconto che si racconta, e quindi qualcosa che è interno-esterno al racconto stesso?

Su questa natura ibrida di quello che chiamiamo «stato di cose» insiste Màdera, e non poteva essere diversamente, perché è uno psicoanalista, cioè un operatore della talking cure: il «riferimento reale che spezza il circolo della narrazione e della metanarrazione infinita e, quindi, ri-narra la narrazione ri-comprendendola da un diverso punto di vista estraneo alla prima narrazione», ebbene è questo che «quindi forse possiamo chiamare la “funzione di realtà”, pur sempre narrativa, richiamata dallo svelamento di una diversa cornice e senso del primo racconto» (ivi, p. 38), cioè quello immediato, ingenuo.

Cioè il primo racconto che crede di raccontare solo i fatti, quello che pretende di essere solo “oggettivo”, e che proprio per questa ragione non dice nulla di chi lo racconta, al contrario, è un racconto mistificatorio e spesso ipocrita. Deve diventare racconto di racconto, meta-racconto appunto, perché in questo raccontarsi il soggetto scopra e inventi sé stesso, diventi cioè una soggettività in grado – proprio perché ha imparato a scegliersi, e quindi anche a rifiutarsi – di scegliere. Perché, prosegue Màdera, «importante è anche che questa metanarrativa costringa al confronto con sé e con la realtà simultaneamente, dica che non si può sfuggire alla verità della vita reale, che presto o tardi ti arriverà addosso. Che un racconto per essere serio deve in qualche modo non essere una contraffazione o elusione di ciò che implica» (ivi, p. 39).

È questo che sono, i racconti e i meta-racconti che ci e si raccontano Jedlowski e Màdera, occasioni per inventare sé stessi nella relazione – che è insieme incontro e scontro, scelta e rifiuto, vicinanza e allontanamento – con altri racconti, con altre soggettività, cioè con altre meta-narrazioni. Un’apertura, un movimento dal mondo al racconto, e poi di nuovo al mondo. Un movimento che produce libertà, e divertimento. Soprattutto produce il gusto degli altri, il gusto più prezioso che ci sia:

Màdera: Il tratto del narratore ti si addice.
Jedlowski: Anche a te. Anche se tu di solito proponi panorami, direi, più che vere e proprie storie.
Màdera: Panorami di panorami, storie di storie…
Jedlowski: E commenti, sempre. In fondo, mi pare crediamo tutti e due che la vita, presumibilmente, sia fatta di trame, e con le trame che costruiamo attraverso i nostri racconti inseguiamo le loro suggestioni.
Màdera: C’è del piacere, e c’è del bisogno di sapere. E la volontà di condividerli, in un modo o nell’altro, con quelli con cui ci troviamo a con-vivere (ivi, pp. 69-70).

Paolo Jedlowski, Romano Màdera, Racconti di racconti. Una conversazione, Mimesis, Milano 2024.

Share