Nell’approcciarci al significato che la fine del mondo ha per noi dovremmo forse richiamare alla mente l’incipit del Trattato politico di Spinoza, nel quale, scrivendo della maniera in cui i filosofi hanno trattato gli affetti fino ad allora, dichiara: «Hanno invece elaborato una politica che si può considerare una chimera, o che trova applicazione nel regno di Utopia se non nell’età dell’oro cantata dai poeti. Dove, cioè, non ve n’è affatto bisogno» (Spinoza 2007, p. 1107). Potremmo allora procedere ad argomentare a partire da questo solco tracciato dalla politica spinoziana, oggi, di fronte alla sovrapproduzione di narrazioni della fine. L’utopia, in questo caso, dovrebbe essere sostituita dalla distopia, e l’età dell’oro dall’apocalisse, ma per il resto il dato chimerico di queste opere potrebbe essere mantenuto ben saldo. Soprattutto una volta considerata la facoltà-guida insita nei racconti della fine del mondo, l’immaginazione, relegata da Spinoza al primo genere di conoscenza o opinione (ivi, p. 877). Si tratta così di un genere di conoscenza inadeguata della cosa, incapace di restituirne l’essenza o la potenza.
Si potrebbe allora domandare ai narratori della fine: perché immaginare il futuro, dal momento che si è costretti a coglierlo solamente in maniera inadeguata? A questo proposito, il libro di Marco Malvestio, Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene (Nottetempo, 2021), fa un tentativo per reinquadrare il problema, trasformando la domanda iniziale in: come immaginare il futuro, la fine del mondo umano o dell’universo, dal momento che esso si presenta come un iperoggetto (cfr. Morton, 2018), ossia come un’entità dotata di qualità radicalmente differenti rispetto al modo umano di percepire? Una modifica che permette di muoversi dal piano delle ragioni d’un operazione alle modalità mediante le quali essa si concretizza. Il primo sforzo per posizionarsi di fronte a una simile, intricata, questione è accennato nel capitolo introduttivo e lasciato sottotraccia per l’intero volume, dove, indicando quei generi letterari spesso considerati alla stregua di puro intrattenimento come fantascienza, horror e weird, se ne fanno gli eredi della tradizione profetica (cfr. p. 12). Il profetismo, in questo senso, lontano dall’essere semplice visione d’un futuro necessitato, ispirata dal divino, si concretizza in un gesto performativo, atto a trasformare la realtà attraverso una messa in tensione con un futuro possibile, lì dove il focus del discorso rimane il presente, analizzato attraverso gli affetti che lo attraversano.
Una simile operazione prende così le mosse da una tassonomia delle forme della narrazione catastrofica contemporanea, che comprendono, nell’ordine d’esposizione, il nucleare, la pandemia, il cambiamento climatico, il regno vegetale e quello animale. Ognuna di queste forme letterarie sembra avere in sé insito un lato umbratile, un rumore di fondo che ne lavora i margini attraverso uno sfregamento quasi tattile: l’antropocentrismo al quale è destinata l’archittettonica dell’immaginazione umana. In questa maniera la fantascienza, l’horror e il weird, tenderebbero a mettere in questione le strutture identificative di ciò che comunemente si intende quando si utilizza il termine “umano”.
In primo luogo, le narrazioni sul nucleare produrrebbero un simile esaurimento del significante in una duplice maniera, mediante lo svuotamento di significato delle opere dell’uomo e attraverso la produzione di entità mostruose. Nel primo senso, a perdere densità sarebbe la possibilità di un lascito riconoscibile o anche, più pragmaticamente, fruibile, in quanto un eventuale catastrofe nucleare interdirebbe l’accesso al presente — fattosi passato dalla prospettiva del futuro immaginato — lasciando dietro di sé solamente rovine. Nel secondo senso, invece, il nucleare, attraverso la produzione di entità mutanti, metterebbe in crisi la possibilità di riconoscere come familiari degli esseri ormai dotati di potenzialità completamente differenti da quelle che ammettiamo nella natura che mediamente identifichiamo.
Le narrazioni sulla pandemia, in secondo luogo, interromperebbero la produzione del dualismo umano/natura da parte del significante. Se l’umano infatti è colui che può guardar scorrere dalla riva il fiume della natura, attraverso un gesto di distanziamento e quasi di emersione trascendente, il virus, né vivo né morto, invisibile e onnipresente, metterebbe in crisi la possibilità di trovare riparo nell’artificialità di sistemi chiusi appositamente predisposti — come è ormai chiaro a tutti coloro che hanno vissuto sul pianeta Terra nell’ultimo anno e mezzo.
Le narrazioni sul cambiamento climatico, in terzo luogo, metterebbero in crisi la centralità del significante umano all’interno del quadro cosmico degli eventi, sia dal punto di vista della morale personale, sia da quello della rilevanza dell’umano come “custode” del pianeta. Diverrebbe così centrale la possibilità di raccontare un’agentività inaccessibile, quella della «materia stessa, organica e inorganica», la quale manifesterebbe una «capacità di agire in maniera attiva e trasformativa» (ivi, p. 100) su scale fisiche e temporali radicalmente altre rispetto a quelle di Homo Sapiens.
Le narrazioni sulle piante, in quarto luogo, sfruttando un bias proprio della percezione umana — la cosiddetta plant blindness —, porrebbero in questione la stessa definizione della vita. Se lo sguardo umano è infatti principalmente zoocentrico, una veduta sul regno vegetale farebbe emergere una potenza perturbante, non aliena ma immanente al nostro mondo, capace di far percepire «un’intero spazio come vivente» (ivi, p. 144), al di là di ogni possibile individuazione.
Le narrazioni sugli animali-non-umani, per finire, ci permetterebbero di esperire un non-umano prossimo ma, allo stesso tempo, radicalmente differente, facendo collassare l’idea teleologica di un processo evolutivo che avrebbe portato l’umano a occupare il vertice estremo della gerarchia delle specie animali sulla Terra. Questo genere di storie restituirebbero cioè la contingenza della posizione di Homo Sapiens, e dunque la possibilità che gli eventi che ne hanno caratterizzato la cosiddetta ascesa sarebbero potuti accadere diversamente.
Raccontare la fine del mondo di Malvestio si presenta così come una radicale domanda attorno alla potenza dell’immaginazione e dei suoi modi, cosciente tanto del paradigma antropocentrico nel quale le storie sulla fine contemporanee sono immerse, quanto dei limiti imposti alla facoltà immaginativa. Portando avanti di un tratto il discorso di Malvestio, tentare di sfidare questi limiti, considerando l’antropocentrismo nel quale l’umano è necessariamente catturato innanzitutto e per lo più, significa sperimentare la possibilità di una via di fuga. Se infatti Homo Sapiens non ha altro che segni per rapportarsi a un mondo da lui già da sempre diviso, dato l’iniziale dualismo della cattura linguistica (cfr. Cimatti, Salzani, 2020), e se questi segni sono la cifra della sua capacità immaginativa, allora non vi è altra via che una semiosi radicale, spinta all’estremo del dicibile e dell’immaginabile, per provare quanto meno a pensare una nuova forma di beatitudo o terzo genere di conoscenza. Ma se per Spinoza l’accesso a questa dimensione del pensiero avveniva per via intellettuale, oggi, a causa di quella che sembra essere l’esigenza di veder venire la catastrofe futura, essa non può che costituirsi per via immaginativa.
Riferimenti bibliografici
F. Cimatti, C. Salzani, a cura di, Animality in Contemporary Italian Philosophy, Palgrave Macmillan, Cham 2020.
T. Morton, Iperoggetti, Nero, Roma 2018.
B. Spinoza, Opere, Mondadori, Milano 2007.
Marco Malvestio, Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene, Nottetempo, Milano 2021.