Quando quindici anni fa Goodbye Dragon Inn (Bu San, 2003) di Tsai Ming-liang fu presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia molti commentatori lo interpretarono come un film sulla morte del cinema. Difficile avanzare letture alternative. Esso racconta, infatti, l’ultima giornata di programmazione di una sala di Taipei prima della sua definitiva chiusura. Si proietta un vecchio wuxiapian, Dragon Inn (Long Men Ke Zhan, 1967) di King Hu, per uno sparuto gruppo di spettatori solinghi tra cui spiccano due ex attori ormai anziani, una ragazza annoiata e uno straniero che si aggira tra le poltrone, i corridoi e i bagni dell’esercizio, mentre una cassiera zoppa e un proiezionista muto replicano gesti ripetuti all’infinito. Gli spettatori si sfiorano, ma non si parlano, i locali sono decadenti e abbandonati, la pioggia incessante sferza la città. Un estenuante long take sulla sala ormai deserta fissa la forza significante del film: registra infatti, con chirurgica precisione, la fine di un rito sociale, lo scioglimento di una rete di relazioni, lo sfollamento di uno spazio architettonico, ma anche la definitiva perdita di redditività di un’impresa culturale ed economica. Come ha scritto Corrado Neri, in una delle rare monografie sul regista, «la sensazione che prima viene veicolata e che resta a lungo dopo la proiezione è quella di aver assistito al funerale del cinema. Gli attori lamentano la dimenticanza del mondo nei loro confronti, i fantasmi di altre schegge d’immaginario si aggirano per la sala semideserta, e infine la sala stessa esprime il lutto e l’assenza» (Neri 2004, p. 132).
Certo, a inizio secolo, l’epitaffio di Tsai non si presentò con i caratteri della novità. Da quando Antoine Lumière sentenziò nel 1895 che «il cinema è una invenzione senza futuro», le previsioni di una sua prematura scomparsa hanno accompagnato, con ferrea regolarità, la storia di questa strana arte industriale. E pur tuttavia, nel 2003, la rivoluzione digitale era già percepita come un’incombente minaccia alla salute e all’integrità del cinema e, sotto questa prospettiva, Goodbye Dragon Inn si incaricava di anticipare alcune delle possibili conseguenze che si stagliavano all’orizzonte: la chiusura delle sale cittadine, lo spostamento del consumo di immagini in altri luoghi e su altri dispositivi, la solitudine della visione individuale, la sparizione della materialità della pellicola, la scomparsa di alcune professioni (come il proiezionista) e così via. Non sorprende che qualche anno dopo Francesco Casetti arrivi a considerare Bu San come «un film di fantascienza» che «si interroga su cosa capita non quando una nuova invenzione domina le nostre vite, ma quando un vecchio media non abita più tra noi», quando «non ci sarà più un luogo dove le immagini possono affacciarsi e sostare – né dove spettatori in perenne movimento potranno sedersi e tentare di afferrarle» (Casetti 2015, p. 275).
Non è però questa la sede per tornare sulla letteratura dedicata alla presunta morte del cinema e al suo nuovo ruolo all’interno del sistema dei media. Semmai la recente proiezione dell’opera di Tsai Ming-liang, in una versione restaurata e digitalizzata, svoltasi al Teatro Le Tese della Biennale d’Arte, seguita da una live-performance del regista intitolata Improvisations on the Memory of Cinema, può essere utile per riflettere su una delle evenienze che la rivoluzione digitale avrebbe dovuto trasformare e/o eliminare e che invece, come vedremo, continua ad avere un’importanza capitale: la vita della sala, la sua carica «filmofanica». Introdotto nella letteratura di settore dagli studi della Société du Filmologie attiva nel secondo dopoguerra (Souriau 1953 e altri) e più recentemente recuperato da progetti di ricerca volti a ricostruire le memorie spettatoriali e la loro funzione sociale (si vedano, ad esempio, i progetti European Cinema Audiences, Italian Cinema Audiences e Romarcord), il termine «filmofania» indica quell’insieme di attività che si verificano durante le proiezioni cinematografiche e che pertengono l’esperienza site-specific dello spettatore. A ben vedere, Goodbye Dragon Inn si concentra precipuamente su questi aspetti: spettatori che rivivono ricordi personali in sala (come l’ex attore che piange di fronte alla sua interpretazione sul grande schermo), altri che consumano fugaci incontri nei bagni o nei corridoi, una cassiera che gusta un frugale pasto, un proiezionista che svuota i secchi di acqua piovana. A quindici anni dalla prima proiezione, quelli che apparivano come fantasmi perduti si rivelano personaggi vivi, specie se messi a confronto con quelli convocati dalla successiva performance del regista, su cui torniamo tra poco.
Non prima di chiederci se la proiezione all’interno delle Tese dell’Arsenale – non dunque nelle sale lidensi della Biennale Cinema, bensì negli spazi espositivi della Biennale Arte – confermi o no l’uscita del film (d’artista) dai cinema e il suo ingresso nei circuiti dell’arte contemporanea. È una tendenza che si verifica, da diversi decenni a questa parte: da Tsai Ming-liang a Abbas Kiarostami, da Apichatpong Weerasethakul a Lav Diaz, senza contare i più noti Chantal Akerman, Amos Gitai, Harun Farocki, Peter Greenaway, Agnès Varda, sono sempre più frequenti i casi di cineasti che, iniziata la carriera nel cinema d’essai, l’hanno continuata e talvolta terminata firmando installazioni nelle gallerie e nei musei, dando vita così a una migrazione – ampiamente commentata in letteratura (Uroskie 2014 e altri) – dell’immagine sperimentale dal Black Box al White Cube. Eppure, nel nostro caso, qualcosa non è girato nel verso giusto. Lo si è visto all’inizio della proiezione alle Tese, quando alcuni visitatori seduti in platea probabilmente per caso, hanno abbandonato il teatro appena si sono accorti che veniva proiettato un film di 80 minuti (e non una video-installazione). Come ha fatto notare ironicamente lo stesso Tsai durante la sua performance, è parso evidente che i «fuggitivi» non pensassero di avere tempo sufficiente per guardare un film «intero». Di più, la loro fuga nasceva da una condizione scopica che non è di chi sceglie cosa vedere all’interno di un programma festivaliero (ovvero gli accreditati della Mostra presenti per l’occasione), ma di chi intende imbattersi nelle immagini eteroclite di un’esposizione, senza alcuna scelta, alcuna preparazione, alcuna pretesa di capire. Parafrasando altrimenti, la proiezione del film dentro gli spazi dell’Arsenale ha statuito – almeno in quella occasione – una diversità quasi ontologica tra gli spettatori che hanno abitato uno spazio per un tempo disteso, forzando un’interpretazione, e i visitatori che lo hanno attraversato per pochi istanti, imbattendosi nell’opera, senza necessità di comprenderla.
Si potrebbe affermare allora che è stata la performance di Tsai Ming-liang a motivare il cambio di location e un diverso modo di installarsi del pubblico in uno spazio di fruizione? Senza dubbio. Nondimeno, chi ha assistito alle sue improvisations avrà avuto la percezione di trovarsi non all’interno di uno spettacolo, bensì nel mezzo di una sorta di terapia di gruppo, estromesso tuttavia dalla possibilità di intervenire. Il regista camminava, infatti, sopra un telo bianco, dove qua e là vi erano dei disegni fatti di suo pugno, e raccontava con una certa frenesia episodi della sua infanzia e della sua quotidianità di artista: i wuxiapian visti e le canzoni pop ascoltate da bambino insieme ai nonni, i riti sociali legati alla frequentazione delle vecchie sale, ma anche la sempre più stringente difficoltà a mostrare, oggi, i propri lavori al suo pubblico. Il regista ha infatti confessato candidamente di essere costretto a cercarsi gli spettatori quasi uno a uno, vendendo la prelazione dei biglietti dei suoi film per le strade o le aule universitarie, in un numero sufficiente da convincere gli esercenti di Taipei ad affittargli le sale per le sue proiezioni. Ecco, forse senza rendersene conto, mettendosi in scena come fosse il protagonista di The Sandwitch Man (Erzi de da wan’ou, 1983), il cortometraggio di Hou Hsiao-hsien che ha dato origine alla new wave taiwanese e che mostrava l’alienazione di un uomo che vaga per la capitale come corpo-pubblicitario al soldo del sistema capitalistico, Tsai ha rimarcato un’altra grande differenza tra la vita in un White Cube e quella in un Black Box: nel primo l’opera e il suo autore si espongono per mettersi in vendita, magari concorrendo con altre opere e altri autori nello stesso luogo di esibizione, senza una precisa gerarchia relazionale e spaziale con il visitatore; nel secondo l’opera e il suo autore sono già stati acquistati (al botteghino) e si collocano pertanto ai margini della sala (sulle due pareti, quella dello schermo e quella della cabina di proiezione), lasciando al centro di essa gli spettatori e le loro vite.
Spettatori e sale che, lo diciamo a parziale conclusione del ragionamento, non hanno certo vissuto le medesime difficoltà di Tsai negli ultimi tre lustri. Dati alla mano (Unesco 2019), sappiamo infatti che il numero di film prodotti, di schermi e cinema in attività, di biglietti venduti e incassi raccolti è in costante crescita nel mondo, con l’area del Far East a fare da straordinario traino. E non è venuta meno nemmeno la richiesta di visioni più impegnative, se è vero che anche il numero di festival cinematografici aumenta di anno in anno (più di 8000 mila nel 2019 registra il sito FilmFreeway). Se ne deduce, insomma, che i fantasmi rimasti chiusi nella sala ormai dismessa di Goodbye Dragon Inn e che sono stati liberati pochi giorni fa all’Arsenale non sono ex-attori di wuxia o spettatori stranieri raminghi, ma sono proprio quegli «autori» che si muovono, forse un po’ disorientati, tra il White Cube e il Black Box, ovvero tra una fruizione effimera e una ponderata dell’immagine, tra un abbandono ai sensi e una promessa di ermeneutica, tra un mettersi in vendita o un mettersi in Mostra. Internazionale d’Arte Cinematografica, naturalmente.
Riferimenti bibliografici
F. Casetti, La galassia Lumiere. Sette parole chiave per il cinema che viene, Milano, Bompiani 2015.
C. Neri, Tsai Ming-liang, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina 2004.
É. Souriau, L’univers filmique [1953] tr. it. parz. Linee fondamentali per un’estetica filmologica. Filmologia ed estetica comparata, in M. Bertolini (a cura di), La rappresentazione e gli affetti. Studi sulla ricezione dello spettacolo cinematografico, Mimesis Milano 2009.
A. V. Uroskie, Between the Black Box and the White Cube: Expanded Cinema and Postwar Art, University of Chicago Press, Chicago 2014.