Qui non è Hollywood è il titolo scelto, dopo non poche controversie, per raccontare una delle vicende di cronaca nera italiana più note e mediaticamente discusse, l’omicidio di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana nel 2010. L’opera si confronta con l’intreccio tra cronaca nera e spettacolo, alla base di tanti format televisivi. Qui non è Hollywood è in tal senso una dichiarazione di intenti: la miniserie si propone infatti di smontare le logiche della narrazione televisiva, restituendo una visione più ampia e più complessa della realtà. Se i generi televisivi della cronaca nera tendono alla detection, alla messa in racconto di un fatto di sangue, il lavoro di Pippo Mezzapesa scardina questa logica temporale preferendo immergere lo spettatore in un contesto. Qui non è Hollywood diventa allora uno strumento per analizzare il fenomeno mediatico, riflettendo sui meccanismi che hanno portato la tragedia a trasformarsi in spettacolo, in un processo che ha visto coinvolti non solo i protagonisti della vicenda, ma anche il pubblico a casa, le televisioni e l’intera opinione pubblica.
Pur partendo da una ricerca accurata condotta sugli atti processuali, la miniserie esplora le personalità coinvolte nel delitto senza ricercare una ricostruzione cronologicamente dettagliata degli eventi e, di conseguenza, senza soffermarsi sugli elementi investigativi o su una risoluzione del caso. Alla serialità televisiva incentrata sugli eventi, Mezzapesa oppone una serialità fondata sulla messa in scena, come evidenzia perfettamente un piano-sequenza di due minuti, nel secondo episodio, in cui la macchina da presa collega la piazza del paese e lo spazio pubblico dei media: la grande quantità di movimenti di scena coordinati, sincronizzati, coreografati come nella scena corale di un musical esprime un’idea molto precisa di estetica cinematic ma allo stesso tempo al servizio di un progetto strutturalmente televisivo in quanto episodico (Nannicelli 2016).
Nel quadro del delitto dell’adolescente Sarah Scazzi, attorno al cui omicidio emergono sinistre figure appartenenti alla rete familiare, dalla cugina Sabrina Misseri agli zii Cosima Serrano e Michele Misseri. Accentrando i personaggi e decentrando gli eventi, Mezzapesa articola la miniserie in quattro puntate ciascuna agganciata a un differente punto di vista sulla vicenda. Ogni episodio è un’opera autonoma che si distingue per la propria unicità, non solo per la focalizzazione interna ma anche per le scelte stilistiche. Nel primo episodio, incentrato sulla figura di Sarah, la macchina da presa, frenetica e a mano, esprime con intensità la vitalità di una ragazza alle prese con la scoperta della vita e con le prime insoddisfazioni per la condizione di appaesamento. Nel secondo episodio, che ha come protagonista la cugina Sabrina, i movimenti di macchina diventano più elaborati, a disegnare una trama di sinistri carrelli che attraversano lo spazio chiuso di Avetrana tracciando percorsi senza meta, perché nel paese si resta bloccati, come a Twin Peaks o a Wayward Pines. La puntata su Michele si distingue invece per uno stile trascendentale-mediterraneo, con insistite plongée e suggestive reinquadrature, il tutto in una luce più sporca e meno abbagliante; il protagonista dell’episodio, figura calata in una dimensione pre-culturale, si ritira letteralmente nel grembo della terra per trovare un senso all’inemendabilità dei fatti. Infine, l’episodio dedicato a Cosima è segnato dal drastico ridursi dello spazio d’azione, con il personaggio perennemente avvolto dalla penombra e confinato all’interno delle mura della casa-tomba, il luogo del delitto, centro dell’enigma.
Ogni episodio, quindi, rappresenta un oggetto a sé stante, con stili e punti di vista distinti, e al contempo con un legame forte, non solo narrativo ma atmosferico, con gli altri segmenti. Proprio la dominante atmosferica è sintomatica della scelta di mettersi di fronte all’enigma e osservarlo come un monolito nero, senza scioglierlo o interpretarlo. In questo senso, Qui non è Hollywood si contrappone a tutti i livelli all’attuale tendenza del true crime, un genere che mima le tecniche e la retorica del giornalismo investigativo e pertanto cerca il colpevole (Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi) o l’innocente (Il caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio). Mentre la narrativa true crime è «affascinante e scorrevole, ma allo stesso tempo rigida, formulaica e prevedibile» (Murley 2008, p. 13), la miniserie di Mezzapesa è fluida, fuori dai cardini, imprevedibile. Si configura come la restituzione di un processo di invasione, in cui si fronteggiano indigeni e non indigeni.
Da un lato c’è la rappresentazione della famiglia di Sarah, che sembra perdere il contatto con la realtà, intrappolata in una dimensione distorta e onirica, in cui anche i carnefici sembrano incapaci di metabolizzare i fatti e restano intrappolati in una finzione autocostruita; Sabrina recita il ruolo della showgirl, Michele sviluppa un contorto rapporto spirituale con il divino fino a fondersi con la natura, mentre Cosima si fa oggetto inerte, inglobata dalla sua abitazione, divenendo quasi parte dell’architettura della casa infestata dalla presenza di Sarah. Dall’altro lato, c’è la frenesia mediatica che coinvolge non solo gli abitanti del paese, ma tutta l’Italia, portando il pubblico a percepire i fatti come una fiction. Questo fenomeno amplifica il divario tra ciò che accade davvero e ciò che viene percepito dal pubblico, pubblico sempre sul punto di voler entrare a far parte della storia, di impersonare un carattere e mettersi davanti alle telecamere.
E poi c’è Sarah, la ragazza che voleva andarsene, sparire, non essere dov’era. La miniserie le assegna un episodio proprio per restituirle lo statuto di soggetto. L’intenzione, nelle parole di Mezzapesa, è quella di «raccontare un contesto a partire dagli occhi di chi da quel contesto è stato strappato». A questo personaggio non più ridotto a solo oggetto di un delitto, il regista offre coerentemente una presenza costante nei restanti tre episodi, una presenza fantasmatica e allucinatoria. La sua figura non è più solo il volto di un’unica foto da mostrare o il nome da associare al crimine, ma una persona che reclama la propria dignità e la propria storia.
Riferimenti bibliografici
J. Murley, The Rise of True Crime: 20th-century Murder and American Popular Culture, Praeger Pub Text, Westport (Connecticut) 2008.
T. Nanicelli, Appreciating the Art of Television: A Philosophical Perspective, Routledge, New York-London 2016.