Leonardo Sciascia è scrittore soggetto alle nemesi cinematografiche. Un suo saggio famoso del 1963 indicava in tre scrittori i padri del cinema sulla Sicilia: Brancati (la commedia dell’eros), Quasimodo (il mito), Vittorini (il «mondo offeso», cioè l’impegno). Di lì a qualche anno, sarebbe toccato a lui diventare il padre del filone più cospicuo, quello della Sicilia come metafora dei mali d’Italia, a partire dagli adattamenti di A ciascuno il suo (1967) e de Il giorno della civetta (1968).

Lo scrittore non intervenne mai nella scrittura dei film tratti dalle sue opere, e un solo titolo di rilievo, Bronte di Vancini, risulta portare la sua firma come sceneggiatore. Oggi dai suoi archivi, in un volume prezioso che contiene scritti dispersi sul cinemaQuesto non è un racconto», a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi), emergono tre soggetti inediti, o meglio due soggetti e un meta-soggetto.

I primi due sono storie di mafia, commissionate nel momento di massima fioritura del genere. Non si direbbe però che i destini del cinema tratto da Sciascia ne sarebbero stati rivoluzionati, e non solo per via dei registi cui erano destinati. Il primo soggetto, scritto per Carlo Lizzani, comincia in flashback con l’attesa della morte da parte di un piccolo mafioso a Palermo (un po’ sulla linea, si direbbe, degli Assassini di Hemingway). Dopo il suo ineluttabile omicidio, la moglie va a parlare con i mafiosi per chiedere che almeno il figlio venga tenuto fuori; ma nonostante le rassicurazioni anche lui viene ucciso, e lei infine si rivolge alla giustizia. L’altro soggetto, destinato a Lina Wertmuller, ha anch’esso una protagonista femminile in un meccanismo simile: una ragazza assiste casualmente a un omicidio di mafia e, contro il parere di tutti, decide di testimoniare in tribunale. Il testo più interessante è però il terzo, per Sergio Leone: un dialogo con un interlocutore immaginario a cui lo scrittore racconta idee per un film di gangster che è evidentemente il futuro C’era una volta in America (1984). Il testo, che fin dall’attacco (la frase che dà il titolo a tutto il libro) ammicca ai dialoghi di Diderot, è una costruzione e una decostruzione della vicenda, ma anche una riflessione sullo scrivere per immagini (e per stereotipi). Curiosamente, la cosa che dichiaratamente interessa meno a Sciascia è proprio ciò che costituirà il cuore del film finito, ossia il gioco sui tempi storici:

– Se debbo dire la verità, questo giuoco tra attualità e memoria non mi interessa molto. E del resto è facile da rendere […].
– E cosa vi interessa, dunque, dell’idea, del soggetto di Sergio Leone?
– Mi interessa la trama in cui viene attirato il nostro eroe e alla quale finirà col reagire al punto di sconvolgerla. E vi dico subito che è una trama di potere.
– Già: come dubitarne, da voi? Il potere, naturalmente…

Il testo è datato marzo 1972, nel pieno della strategia della tensione. Sciascia ha da poco pubblicato Il contesto; il romanzo successivo sarà Todo Modo. Nel ’75 sarà consigliere comunale a Palermo come indipendente nel PCI, traendone uno sconcerto per la vacuità dell’azione politica che si tramuterà, dopo il caso Moro, in sgomento e nella disillusione più completa. Probabilmente, dieci anni dopo gli sarebbe interessato altro, del soggetto di Leone: e forse proprio il teatro del tempo e della memoria.

Quando Sciascia tornerà a riflettere scarnamente sul cinema, negli ultimi anni di vita, sembrerà infatti scrivere da un altro luogo. Sfiduciato dalla storia, ossessionato dagli arcana imperii, convinto che ormai solo nella letteratura il caos e l’orrore del presente possano trovare (ma solo per allusione, per negazione quasi) una parvenza di senso, guarda al cinema non più con l’occhio dell’appassionato o del cittadino, ma di chi riflette sul tempo e sulla morte, anche la propria. I suoi due scritti fondamentali, Il volto sulla maschera (1980) e C’era una volta il cinema (1988) sono raccolti rispettivamente in Cruciverba (1983) e Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989). Il secondo è una rievocazione autobiografica del proprio rapporto col cinema, scritta sull’onda della visione di Nuovo Cinema Paradiso, pochi mesi prima di morire.

Sciascia, che a causa del tardo arrivo del sonoro a Racalmuto è uno degli ultimi “figli del muto”, vede il cinema come apparizione, come piacere stendhaliano di cristallizzazione nella memoria. Le immagini cinematografiche che gli affiorano alla mente (“affiorare” è il suo verbo prediletto in queste circostanze) sono per lo più volti di attori: l’Ur-immagine è «un primo piano intermittente di Jack Holt». L’articolo si conclude con un ripasso di memoria cinefila: un lunghissimo elenco di registi hollywoodiani tratto dall’autobiografia di Frank Capra, a cui lo scrittore ne aggiunge altri. E dopo ognuno di essi («Cecil B. De Mille, John Ford, Henry King, Leo McCarey…», e così via via per righe e righe), immaginando lo scrittore che esercita insieme l’arte della memoria e l’ars moriendi, viene da aggiungere: Ora pro nobis.

Il volto sulla maschera prende invece spunto da una visita agli archivi del cinema di Bercy, a verificare le tracce depositate nella sua memoria (incerte e fallaci, scoprirà) di Il fu Mattia Pascal di L’Herbier con Mosjoukine (così, alla francese, Sciascia lo traslittera), visto quasi mezzo secolo prima. Il racconto diventa rapidamente cronaca di paradossi, aporie, contraddizioni: il film muto visto da lui nel ’33 o ’34, quando ormai il muto è scomparso ovunque; Mosjoukine che nelle sue memorie rimuove (in maniera sospetta, secondo lo scrittore) Il fu Mattia Pascal, che pure è uno dei suoi ruoli più memorabili; le immagini che Sciascia si ricorda di aver visto da bambino e che nella pellicola della cineteca non ritrova. Alla fine tutto è una divagazione sul tema dell’identità, su un volto che si nasconde dietro una maschera, o (come suggerisce il titolo) viceversa.

Fino alla confutazione dell’effetto Kulesov, quell’esperimento per cui il volto di un attore sembra cambiare espressione a seconda delle immagini che sono montate come controcampo: ché, secondo Sciascia, «sarebbe stato impossibile concepire un simile esperimento e ottenerne degli effetti senza il volto di un grande commediante, senza il volto di Mosjoukine». Per Sciascia, nel cinema il senso è il volto. Il volto sulla maschera va letto insieme ai saggi sulla fotografia, soprattutto Il ritratto fotografico come entelechia (1987), sotto l’ombra sempre più ingombrante di Pirandello. Del resto, lo scritto era uscito come volumetto accompagnato dalle foto di Ferdinando Scianna, presente anche lui alla séance, che non solo ritraevano la sagoma dello scrittore seduto in sala, ma paradossalmente cercavano di afferrare in immagini fisse quelle in movimento del film che inesorabilmente scorreva sulle loro teste. Il cinema, la fotografia pongono questioni, più che estetiche, metafisiche, diventano figura dello scrivere e dell’identità davanti allo scorrere del tempo:

E l’idea che tanti films stiano come sigillati in queste gigantesche scatole metalliche mi dà un senso di smarrimento, di vertigine; quasi mi trovassi improvvisamente di fronte alle materializzazione – solidificata, mineralizzata, inaccessibilmente squadrata e pure segretamente e rischiosamente accessibile – dei più ardui problemi che il pensiero umano da secoli declina. Il divenire e l’essere, il tempo, la libertà, la predestinazione, l’identità, il potere. Eraclito, Parmenide, Platone, Agostino, Shakespeare, Einstein, Borges. E Pirandello.

Nel romanzo-testamento Il cavaliere e la morte (1988), l’ultima immagine che affiora alla mente del commissario morente è la stevensoniana isola del tesoro, come un aldilà, un altrove sognato al cinema, che lo attende. Ma quest’isola, nel pensiero, appare attraverso il volto indimenticabile di un attore, Wallace Beery, che interpretava Long John Silver nel film tratto dal romanzo.

Un’altra piccola nemesi o un inveramento può fare da epilogo a queste riflessioni. Nel saggio su Mosjoukine è il volto a spiegare e legare Mattia Pascal e Casanova e Pirandello e la memoria; il volto dell’attore dà senso al cinema e ai personaggi storici. Un senso, ovviamente, enigmatico; un finale da classica ghost story: «“Di cosa ineffabile – dice Tommaseo – “non si può far parola: convien tacerne”. Ma dopo Pirandello, dopo Borges, possiamo azzardarci a far parola anche dell’ineffabile. Ed ecco: guardate il ritratto che di Casanova giovane disegnò il fratello Francesco, quello che a sessant’anni disegnò il pittore boemo Berka. È il volto di Ivan Mosjoukine».

Sciascia era ossessionato dalle fisionomie, dalle somiglianze, fin dal saggio che aveva scritto per introdurre il volume dei “Classici dell’arte Rizzoli” dedicato ad Antonello da Messina. Morente, finirà per “hanter” i gesti e la fisionomia di un attore, anche lui prossimo alla fine. Gian Maria Volonté, per interpretare Porte aperte, lo prende a modello, ne imita il tono sommesso di voce e le pause (pur se aggiungendo certi giri di mani e certi sguardi da sotto in su tutti suoi), e in maniera ancora più evidente lo rifarà in Una storia semplice. Sciascia era morto da pochi mesi quando uscì il film di Amelio; Volonté vivrà altri cinque anni, sempre più malato di un cancro come lo scrittore. Molte persone che lo hanno incontrato in quegli ultimi anni erano colpite da come, anche nella vita, Volonté sembrasse sempre più Sciascia, ne avesse assorbito movenze e ritmi. Perfino il volto, con gli occhi sornioni e accesi e le guance scavate, aveva cominciato a diventare quello dello scrittore appena defunto. Sciascia ne avrebbe tratto, si immagina, divertimento e inquietudine ulteriori.

Riferimenti bibliografici
L. Sciascia, L’ordine delle somiglianze, in L’opera completa di Antonello da Messina, Rizzoli, Milano 1967.
Id.,
La Sicilia e il cinema, in La corda pazza, Einaudi, Torino 1970.
Id., Il volto sulla maschera, Mondadori, Milano 1980.
Id., L’ordine delle somiglianze e La maschera sul voltoin Cruciverba, Einaudi, Torino 1983.
Id., Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano 1988.
Id., C’era una volta il cinema e Il ritratto fotografico come entelechia, in Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo 1989.

Paolo Squillacioti, a cura di, «Questo non è un racconto», Adelphi, Milano 2021

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