Una lunga sequenza in soggettiva, circolarmente, apre e chiude Quello che non so di lei di Polanski: Delphine (Emmanuelle Seigner), scrittrice di successo, sta firmando autografi sulle copie del suo ultimo libro intitolato D’après une histoire vraie. La macchina da presa filma uno a uno i volti delle persone che, in fila e con il libro in mano, le chiedono un autografo. A un certo punto arriva una giovane donna (Eva Green). La sua espressione e il suo volto sono innaturali, come fossero già parte di una costruzione irreale e immaginaria. La soggettiva prosegue e quella che sembrerebbe inizialmente rappresentare la semplice presa in carico del punto di vista del personaggio, diviene invece il modo in cui il film inizia a costruire il proprio universo finzionale. Perché è sempre un atto di intercessione che segna l’inizio del processo di creazione. La costruzione dello sguardo speculativo della soggettiva di Delphine, che riflette l’intersoggettività del mondo che si apre a partire dalla singolarità del suo personaggio, è il modo in cui Polanski destituisce il proprio sguardo a favore di quello assoluto e incondizionato del personaggio stesso, che modifica e ridefinisce i contorni del proprio universo finzionale.

Ma anche Delphine, come Polanski, ha bisogno di un intercessore: alle prese con la scrittura di un nuovo romanzo, è letteralmente bloccata dopo aver ricevuto alcune lettere minatorie che l’accusano di aver sfruttato il nome della propria famiglia per ragioni commerciali. Il blocco sembra poter essere superato grazie al rapporto con la giovane donna interpretata da Eva Green (che si chiama semplicemente Elle), che lavora come ghostwriter per alcune personalità del mondo dello spettacolo. Elle si impadronisce della vita di Delphine e la invita a scrivere il proprio libro nascosto a partire dai suoi diari personali. Ma quando l’atto di creazione dovrebbe finalmente iniziare, ecco che interviene un nuovo blocco. Per Delphine prendere in carico la propria histoire vraie non è possibile se non attraverso una forma di mediazione, quella di Elle. Senza un personaggio che funga da intercessore, la creazione per Delphine è impossibile. La creazione prevede la costruzione di un punto di vista, come lei dice a un certo punto del film, che è necessariamente «una forma di finzione». La creazione, in altre parole, prevede la presa in carico di un’istanza che fuoriesca dal soggetto e allo stesso tempo non gli appartenga. Un’istanza che dall’esterno gli permetta una visione: questo è il ruolo dell’intercessore. La «necessità» della creazione (Deleuze, 2003) è possibile solo nel momento in cui Delphine decide di ascoltare i racconti della vita personale di Elle e di iniziare a scrivere la propria histoire vraie attraverso quella dell’altro.

Ma in cosa consiste esattamente questa forma di intercessione che è alla base del processo di creazione tanto per Polanski quanto per il suo personaggio Delphine? È una riflessione su cui l’ultimo cinema di Polanski ha lavorato già con L’uomo nell’ombra (2010), passando per Venere in pelliccia (2013) e che in Quello che non so di lei, tratto dal romanzo di Delphine de Vigan, si avvale del cruciale contributo di Olivier Assayas in fase di sceneggiatura. L’atto di creazione è una forma di mediazione attraverso cui la realtà è colta a partire da un processo dialettico di estroflessione e trasfigurazione. L’intercessore non è cioè un doppio dell’autore (a un certo punto Elle si maschera da Delphine per partecipare a un incontro pubblico in sua vece, ma l’inganno non funziona), quanto una sua mediazione che gli permette, trasfigurandola, di universalizzare una posizione personale. «Io è un altro», come diceva Rimbaud, solo nel senso in cui io è un altro che sono io (Rimbaud, 1973): è cioè un altro che universalizza me stesso. L’io reale diviene un io finzionale solo nella maniera in cui accoglie un non-io capace di renderlo cosciente per se stesso, ovvero in relazione alla Storia e al mondo.

Non è un caso che la grandezza del cinema di Polanski sia sempre risieduta in questa straordinaria capacità di mettere «sotto assedio il presente» (Jameson, 2007) attraverso una messa in relazione del proprio inconscio con quello di un’intera epoca storica colta nel raccordo soggettivo del personaggio: da Repulsion a Rosemary’s Baby, all’intimo e personale attraversamento dell’Olocausto ne Il pianista, passando per Chinatown, che probabilmente rimane il vertice assoluto di questa mediazione tra intersoggettività e coscienza storica. La condizione del personaggio che abita il mondo (Carol che si aggira nella Swinging London in Repulsion, la giovane Rosemary incinta nella New York alto-borghese degli anni ’60 o J.J. Gittes nella Los Angeles vintage di Chinatown) nel cinema di Polanski è sempre stata quella di intercedere tra la posizione dell’autore e una totalità storica circostante capace di universalizzare le sue ossessioni (e anche le spaventose tragedie) personali.

Ma questo processo di universalizzazione e di trasfigurazione dell’io, che Polanski esemplifica nel personaggio di Delphine, non può essere esente da rischi. Sono i momenti di Quello che non so di lei in cui risulta maggiormente palese la mano di Assayas. Perché a un certo punto l’intercessore non media più nulla, ma anzi isola Delphine all’interno di un ambiente mediale su cui non ha più alcun controllo. Seduta su una panchina del parco, Delphine saluta un’amica che non vuole disturbarla dalla sua solitudine creativa dopo che ha ricevuto un suo messaggio che lei non ricorda di aver mai scritto. Email, Social Network, cellulari, sono dispositivi che invece di conciliare allontanano il soggetto dal mondo, costruiscono barriere in quanto schermi che non schermano più niente, come ha scritto Roberto De Gaetano a proposito di Personal Shopper (Assayas, 2016). Se l’atto di creazione prevede un regime di solitudine che lo renda fisicamente possibile (il vuoto di un appartamento a Parigi o di una casa in campagna), tale condizione materiale non deve superare quel punto limite che la trasformerebbe in una posizione interna di chiusura al mondo.

Per creare bisogna essere soli ma nel mondo, ovvero al cospetto di esso, per evitare che la creazione diventi un doppio precario della realtà stessa. È il momento in cui Elle prende il sopravvento su Delphine, immobilizzata da una gamba rotta dopo una caduta dalle scale. È il momento, cioè, in cui quest’ultima cede al personaggio il dominio assoluto sulla sua vita. La finzione diventa talmente egemonica da essere asfittica, non più una mediazione con l’esterno ma una sua negazione. Ne è consapevole la stessa Delphine quando, all’inizio del film, dice al suo compagno di non voler cominciare a scrivere per paura di rimanere inghiottita dal suo mondo interno: “non è facile cominciare a scrivere, dovrò vivere i prossimi anni sola con i miei personaggi”. L’atto di creazione raggiunge dunque un terzo stallo quando l’oppressione iniziale della realtà si rovescia in quella della finzione: il suo flebilissimo equilibrio è nuovamente precario perché la finzione chiude ogni porta al mondo, il personaggio cessa di essere un intercessore, e il lavoro creativo una tensione che dall’interno finzionale si muove verso l’esterno reale.

È proprio qui che la mise-en-scène di Polanski, recuperando alcuni dei suoi tratti caratteristici, interviene in modo più evidente, lavorando straordinariamente prima nel riconsegnare la claustrofobia del mondo di Delphine (si veda la sequenza “horror” in cantina che “raddoppia” l’universo chiuso della casa di campagna) e poi nel suo tentativo di forzatura nella meravigliosa sequenza della fuga sotto la pioggia. Tutto l’immaginario pittorico “vermeeriano” (oltre che cinematografico) di Polanski emerge, con riflessi da L’inquilino del terzo piano (1976) a Frantic (1988) (compendiati nella figura-chiave polanskiana della finestra come medium di accesso alla visione), quando sembra voler contenere dietro una quarta parete lo sguardo del regista, dello spettatore, ed insieme la realtà che è oggetto di quello sguardo: personaggi in primo piano, a cominciare dal corpo-feticcio della moglie Seigner, sfondi che si diradano nel fuori fuoco per poi emergere nitidi in profondità di campo wyleriane (la casa in campagna quasi una sorta di Cime tempestose postmoderna), un sostegno assoluto dell’azione senza alcun movimento di macchina. Fino appunto alla sequenza finale che ripete e rovescia quella iniziale, a una “risoluzione” e “spiegazione” fatta di volti sovrapposti, di sospensioni del pensiero in cui piani di realtà e finzione continuano inesorabilmente a confondersi. Perché il romanzo è uscito, l’atto di creazione è compiuto, ogni intercessione, che ha finalmente cessato di esistere, rimane presente nello scambio di uno sguardo, nella confusione della mente che, voltata l’ultima pagina del libro, prende coscienza del reale attorno a sé.

Ma è proprio questa confusione a rendere Quello che non so di lei un tassello significativo seppur minore dell’opera (e della vita) di un regista che, praticamente da sempre, suo malgrado, sembra destinata a intrecciarsi inesorabilmente con la finzione del proprio immaginario. Non quello delle cronache giudiziarie, degli scandali, delle tragedie, ma ancora quello del cinema. E non stupisce che dopo questo film è come se Polanski, svestiti i panni di Delphine, fosse pronto egli stesso a diventare un personaggio-intercessore per la creazione di qualcun altro. Proprio ciò che si appresta a fare Tarantino.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?, Cronopio, Napoli 2003.
F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007.
A. Rimbaud, Poesie, Einaudi, Torino 1973.

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