“È aprile. Non possiamo avvicinarci gli uni agli altri, a causa di un virus”. Nella voce di Alice Rohrwacher si avverte il sorriso, e così sarà fino alla fine del corto, Quattro strade, che decide di girare all’inizio della pandemia, in un giorno di aprile di ormai più di un anno fa.
La regista, chiusa in casa, trova per caso una vecchia cinepresa e un piccolo rullo di pellicola scaduta. Ha soli dieci minuti di bobina, non sa se le immagini riusciranno a rimanere impresse su una celluloide ormai vecchia e consumata, ma si diverte a rischiare. Decide di provare ad imprimere quella superficie, sarà quel che sarà. Lo saprà solo dopo molti mesi, quando svilupperà il rullino insieme alla pellicola di un film in preparazione.
Nella prima scena Alice Rohrwacher dichiara la sua intenzione. Mentre sperimenta la cinepresa davanti ad uno specchio pensa che lo strumento può zoomare avvicinando corpi che al contrario, nella realtà non mediata, il virus condanna alla lontananza. Giocherella con lo zoom sul suo stesso riflesso. Ecco cosa farà: una passeggiata circolare intorno a casa che le permetterà di tornare a guardare il mondo alla distanza che desidera. Libererà di nuovo il suo sguardo attraverso una protesi tecnica che, e qui sta il divertente e poetico paradosso che non toglie il sorriso dalle labbra della regista, riesce a ri-umanizzare ciò che all’umano è stato tolto: il contatto con l’altro. Il filmare diventa a tutti gli effetti un gioco, quasi un tranello per ingannare la condizione storica del momento.
Sono mesi che, obbligati dall’emergenza sanitaria alla lontananza dall’altro, lo strumento tecnico è diventato simbolo di un distanziamento forzato, dalla famiglia (le videochiamate), dal lavoro (le call online), dagli spazi pubblici (le dirette streaming). Se il medium è diventato l’unico veicolo di vita in un ambiente di cui non è stato più possibile vivere l’immediatezza, è tutt’ora difficile non proiettare sul medium stesso (seppur constatandone il tratto indispensabile e salvifico) la frustrazione di un’esistenza sottratta alla relazione carnale con i luoghi e con le persone.
Rohrwacher, in una breve passeggiata con una camera a braccio, muove un obiettivo che, senza che il desiderio dell’altro diventi una trasgressione, può incontrare gli sguardi dei vicini, le loro azioni, i piccoli dettagli delle loro stanze. La macchina, quella famosa protesi tecnica che oggi abbiamo finito col sentire nemica, unico oggetto concreto a cui imputare l’atto fisico di una separazione innaturale dalla vita reale, nelle mani della regista si trasforma nel solo utensile in grado di riconfigurare il distanziamento imposto dalla pandemia nella distanza che ogni occhio sceglie di frapporre tra sé e il mondo. Il dispositivo, in questo caso, rompe anarchicamente la barriera del disumano restituendo all’occhio (e dunque al corpo, se è in primo luogo l’occhio a proiettarci sul mondo) il suo libero arbitrio.
L’operazione funziona tanto più dal momento che quello rappresentato – e, in seguito, montato come fosse una piccola fiaba – dalla regista è a tutti gli effetti un “micro”-mondo, un incrocio di quattro strade di campagna attraverso cui, tra erbacce e sentieri che si fanno spazio nei campi umbri, l’autrice gira in circolo, da est a ovest e poi di nuovo sui suoi passi. Nel microcosmo del suo vicinato l’occhio della cinepresa si spinge oltre quel famoso metro di separazione verso gli occhi di Enza che rassetta i capelli e lavora al fianco del cane Tigre, il bouquet di fiori selvatici che Claudio ha raccolto in un “luogo segreto” come ogni giorno, le bambine della fattoria di Emanuele e Alessandra che, in una sequenza di straordinaria bellezza, giocano nel sole basso del tardo pomeriggio a disperdere i petali dei soffioni.
Più il mondo è micro, più è evidente il tracciamento di un perimetro allo stesso tempo dischiuso e limitato dalla macchina, che definisce l’“ambiente mediale” – ad essa «associato», direbbe Simondon – come reticolo del suo movimento. Non a caso Rohrwacher sceglie come musica, costante e fusa con la sua voce fuori campo, un Carillon (Crucitti) e poi un Walzer (Schnittke), a sottolineare la ripetitiva giravolta di uno sguardo umano che, camuffato da obiettivo cinematografico, riesce a “farla franca” e a salire per un giro di giostra sul cavallo della tecnica. Che, questa volta, si rivela quello vincente.
Quattro strade. Regia: Alice Rohrwacher; sceneggiatura: Alice Rohrwacher; montaggio: Carlotta Cristiani; fotografia: Francesco La Barbera, Anita Crucitti, Alice Rohrwacher; musiche: Piero Crucitti, Alfred Schnittke; produzione: Avventurosa, Laboratorio L’immagine Ritrovata; origine: Italia; durata: 7′.