Doveva essere l’inverno del 2007 o giù di lì. Un passaparola tra compagni di corso e in molti finirono per comprare Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, allora da poco uscito in italiano per Bollati Boringhieri: un libro che parlava della pittura di Beato Angelico e della ritualità funeraria presso i Romani, ma lo faceva mettendo a lavoro figure accademicamente eccentriche come Aby Warburg, Walter Benjamin, Georges Bataille e Carl Einstein. Sebbene non trattasse di cinema o delle forme artistiche e mediatiche più recenti, c’era qualcosa in quel libro capace di attrarre un po’ tutti. Parlo di un nutrito gruppo di studenti e del desiderio di incontrare saggi ambiziosi, capaci di restituire la vitalità del pensiero e della scrittura. Da quel momento in poi, non avremmo più smesso di seguire e discutere insieme l’intensa – spesso febbrile – produzione di Didi-Huberman, del resto sempre più interessato alla fotografia e al cinema: dalla serie in sei volumi L’Œil de l’histoire (2009-2016) alla più recente dedicata alle forme di Soulèvement, iniziata con la mostra al Jeu de Paume del 2016 e tuttora al centro dei seminari tenuti all’EHESS.
Nel commentare la recente uscita per Mimesis della traduzione italiana di Quando le immagini prendono posizione. L’occhio della storia 1 non sono ammessi ripiegamenti autobiografici. L’incipit di questo articolo è dovuto alla necessità di prendere atto dell’ampia circolazione avuta da questo e da molti altri libri di Didi-Huberman ben prima della loro versione italiana. Hanno circolato nelle edizioni pubblicate da Minuit, acquisite da molte biblioteche universitarie e ampiamente citate in libri, riviste e tesi di dottorato. Hanno contribuito alla costruzione di un discorso.
Come ha giustamente notato il curatore dell’edizione italiana Francesco Angelini, questo libro è spesso considerato come l’approdo alla fase più espressamente legata al contemporaneo e più marcatamente “politica” del lavoro di Didi-Huberman ma, a ben vedere, «tracce evidenti di questa svolta sono […] già presenti nell’opera seminale Immagini malgrado tutto (2003)». A tale osservazione è necessario aggiungere che – come Angelini fa in una nota a piè di pagina della sua introduzione – l’intero corpus dello studioso francese si caratterizza per la volontà di mettere a contatto le competenze e gli oggetti della storia dell’arte con il tempo presente, le sue urgenze, le sue cogenze. Basti pensare che la sua tesi di dottorato, discussa nel 1981 – dalla quale il quasi-omonimo libro pubblicato da Macula – portava su l’Invention de l’hystérie: l’iconographie photographique de la Salpétrière.
Tra gli aspetti più interessanti del primo volume di L’occhio della storia, si rinviene dunque il tentativo di condividere con il lettore il processo che fa del montaggio di immagini uno strumento conoscitivo e politico. La “storia” della quale parla il titolo della serie non è da intendersi come un tentativo di “storicizzare l’occhio”, identificando le forme della visione correlate a determinate epoche. Didi-Huberman è piuttosto interessato a indagare la capacità delle immagini di porre domande, interrogare, riaprire la storia così da scoprire le ragioni politiche che si animano in essa. Come si legge in questo libro, ma anche in Davanti all’immagine (Mimesis 2016), si tratta di riconoscere i sintomi “dell’inconscio ottico” e dunque indagare ciò che l’immagine può fare tanto alla storia (res gestae) quanto alla storiografia (Historia rerum gestarum).
Chi si aspetta una teoria generale o l’esplicitazione di un metodo universalmente valido può rimanere sorpreso e deluso. Il lavoro di Didi-Huberman è da concepirsi come una “scienza del singolare”: un approccio storico e teorico che si sviluppa attraverso un serrato e approfondito corpo a corpo con gli oggetti, specifiche opere d’arte o immagini di volta in volta elette in quanto terreno d’indagine e banco di prova del discorso storico e dell’argomentazione filosofica. È così che al centro di Quando le immagini prendono posizione si trova il lavoro di Bertold Brecht tra il 1933 e il 1948. In modo particolare, l’analisi si sofferma sull’Abicì della guerra e sul Diario di lavoro: due opere nelle quali il drammaturgo tedesco intreccia la pratica della scrittura con il montaggio di documenti, fotografie, ritagli di giornale e immagini tratte dalla cronaca politica e bellica. È dunque dal confronto con le pagine brechtiane che il primo volume della serie L’occhio della storia offre almeno due contributi preziosi al dibattito contemporaneo sul rapporto tra estetica e politica.In primo luogo, a partire dal lavoro del drammaturgo tedesco e mediante un confronto con alcuni degli autori che maggiormente hanno ispirato l’intera serie, Didi-Huberman ci invita a ripensare il concetto e la pratica della “dialettica” andando oltre i termini della tradizione filosofica. La dialettica deve essere riconcepita come un processo aperto, dove l’accostamento di due o più immagini può facilitare la comprensione reciproca delle stesse e degli eventi storici ai quali rimandano: «Laddove la filosofia neo-hegeliana costruisce degli argomenti per porre la verità, l’artista del montaggio, dal canto suo, fabbrica eterogeneità per dis-porre la verità in un ordine che per l’appunto non è più l’ordine della ragione, ma quello delle “corrispondenze” (per dirla con Baudelaire), delle “affinità elettive” (per dirla con Goethe e Benjamin) o delle “attrazioni” (per dirla con Ejzenstejn)» (Didi-Huberman 2018, p. 115).
In secondo luogo, questo libro mette in chiaro quella differenza tra “presa di partito” e “presa di posizione” che costituisce un punto di riferimento in tutta la produzione successiva di Didi-Huberman. Per esprimere tale snodo teorico, lo studioso riprende le critiche mosse da Theodor Adorno e Hannah Arendt nei confronti dell’adesione di Brecht al Partito Comunista e alla sua trasformazione in “poeta ufficiale della RDT”. Mette in evidenza il rischio per il lavoro artistico di rinunciare a esercitare una funzione politica all’interno della società laddove si sposi una dottrina o ci si sottoponga alle linee di condotta di un organismo maggioritario.
Ma, al di là dell’iscrizione di Brecht al Partito e delle critiche suscitate, Didi-Huberman sottolinea come la forma più profonda di impegno politico del drammaturgo tedesco si esprima proprio nel carattere creativo e sperimentale dei montaggi di immagini che si ritrovano nell’Abicì della guerra e nel Diario di lavoro: «Brecht porta i documenti scelti nella Kriegsfibel a “prendere posizione” per mettere in opera la sua immaginazione. […] Il montaggio instaura infatti una presa di posizione – di ogni immagine rispetto alle altre, di tutte le immagini rispetto alla storia –, e questa, a sua volta, pone la raccolta iconografica stessa nella prospettiva di un lavoro inedito dell’immaginazione» (ivi, p. 141)
Si tratta di due snodi teorici e critici di non poco conto per comprendere le forme assunte dall’arte politica del corso del Novecento come negli anni Duemila e nei nuovi Dieci. Soprattutto se si considera che, ancora all’inizio del nuovo millennio e dunque all’uscita dell’edizione francese del volume, era diffusa una tendenza a etichettare come genericamente “postmoderna” – e dunque disimpegnata – ogni pratica artistica caratterizzata da un forte tasso di sperimentazione formale, con citazioni da altre opere e rielaborazioni di immagini preesistenti. L’efficacia del lavoro di Didi-Huberman e di altri studiosi italiani e stranieri nel rovesciare tale concezione proponendo un cambio di paradigma è sotto gli occhi di tutti.
Sono molte le idee, gli spunti analitici e le invenzioni presenti in un libro come questo delle quali è impossibile rendere conto in una rapida lettura d’insieme. Non resta allora che leggerlo o ri-leggerlo. Aspettando la traduzione italiana delle successive cinque puntate di L’occhio della storia e, con loro, la serie di registi e di artisti che, volume dopo volume, sono chiamati in causa per aiutarci a pensare, ad occhi aperti: Harun Farocki, Christian Boltanski, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini, Sergej Ėjzenštejn…
Riferimenti bibliografici
G. Didi-Huberman, Invention de l’hystérie. Charcot et l’Iconographie photographique de la Salpêtrière, Macula, Paris 1982.
Id., Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
Id., Davanti all’immagine, Mimesis, Milano 2016.
Id., Quando le immagini prendono posizione. L’occhio della storia 1, Mimesis, Milano 2018.
*Le immagini che accompagnano questo articolo sono tratte da L’abbicì della guerra di Bertolt Brecht (Einaudi, 2002).