Quando la casa brucia è un libricino di Giorgio Agamben che apre sulla catastrofe in cui viviamo, sulle macerie della modernità. Non si concentra tanto sulle cause, ma sugli effetti di questa condizione. Ma sin da subito il lettore si può accorgere che questa catastrofe non viene così intensamente descritta per amore delle macerie, ma per le vie di fuga che le attraversano. Agamben si interroga sul campo di possibilità che questa catastrofe fisica e metafisica può offrire. Vengono così raccolti in quattro saggi alcune delle tematiche più care all’autore. Il tema della soglia, concetto apparso già ai tempi de Sui limiti della violenza (1970); il tema del linguaggio e dei suoi stati limite, delle figure che ne fanno uso e che lo portano, insieme alla parola, ad esporsi nella sua totale mancanza di fondamento: il testimone, il profeta, il poeta.

Nelle prime pagine troviamo un’immagine sui cui vale la pena soffermarsi e che può funzionare da chiave di lettura dell’intero testo: «Se solo nella casa in fiamme diventa visibile il problema architettonico fondamentale, allora puoi ora vedere la posta in gioco nella vicenda dell’Occidente, che cosa essa ha cercato a ogni costo di cogliere e perché non poteva che fallire» (Agamben 2020, p. 13).

Possiamo leggere questo passaggio come un crocevia temporale, tematico, un vettore che richiama a sé diversi mondi, presenti, passati e forse futuri: l’autore non mostra solamente una modalità con cui la contemporaneità può essere compresa, ma getta possibili ponti con altri autori e con il proprio passato. La stessa immagine appare infatti in apertura e in chiusura del suo primo volume pubblicato: L’uomo senza contenuto (1970), un saggio sull’arte in cui Agamben criticava radicalmente il campo dell’estetica (kantiana) intesa come approccio “disinteressato” al mondo dell’arte: «Secondo il principio per cui è solo nella casa in fiamme che diventa visibile per la prima volta il problema architettonico fondamentale, così l’arte, giunta al punto estremo del suo destino, fa diventare visibile il proprio progetto originale» (Agamben 1971, p. 172).

Potremmo chiederci perché il filosofo va a riprendere oggi un’espressione usata una volta, 50 anni fa in un libro sull’arte?  E che relazione c’è tra l’arte e la crisi della modernità descritta così lucidamente all’inizio di questo libricino?

Piuttosto che pensare la bellezza alla stregua di Kant, in termini puramente negativi: «Piacere senza interesse, universalità senza concetto, finalità senza fine, e normalità senza norma» (ivi, pp. 63-64), in questo primo volume emerge la bellezza come “promessa di felicità” (Stendhal). L’arte nell’ottica di Agamben (ma anche nella nostra prospettiva) non è una sfera separata dalla vita, un campo in cui l’uomo produce opere di vario genere destinate alla fruizione da parte di “spettatori”, ma è in intima relazione con ogni campo dell’esistenza. Se «l’uomo», come scrive Agamben, «ha sulla terra uno statuto poetico» (ivi, p. 153) in quanto «qualsiasi causa capace di addurre una cosa dal non-essere all’essere è poiesis» (Platone, Simposio 205b), la critica dell’arte che qui ci propone è in realtà una critica alla metafisica occidentale, una critica che investe ontologicamente l’essere umano.

Come ha scritto più recentemente in L’uso dei corpi (2014), se le pratiche artistiche soprattutto dal ‘900 in poi, altro non sono che un «uso di sé» e se l’ethos non è altro che «il modo in cui ciascuno entra in contratto con sé”, allora l’arte «appartiene innanzitutto all’etica, non all’estetica» (Agamben 2014, p. 314). Per Agamben l’estetica, come ha affermato qualche anno fa in una conferenza tenuta all’università di Mendrisio (Academy of Architecture in Mendrisio, lecture: L’uso dei corpi, 7/03/2013), non è una categoria immanente all’arte stessa, ma una categoria storica che “ha reso l’opera d’arte inintelligibile” e quindi, strappare l’arte dal campo dell’estetica vuol dire chiamare in causa non solo il destino dell’arte ma anche, e forse soprattutto, l’abitare dell’uomo.

Forse ora risulta più evidente perché viene usata la stessa espressione in due volumi apparentemente distanti tra loro e perché il destino dell’arte (Agamben 1971, p. 172), non è separabile dalla «vicenda dell’Occidente» (Agamben 2020, p. 13). Ne L’uomo senza contenuto (1970), questo nesso tra verità e distruzione, tra la “casa in fiamme” e il “problema architettonico fondamentale” viene esposto come un “principio”. È probabilmente da Kafka che questo principio proviene; infatti in un frammento dei suoi quaderni possiamo trovare l’immagine evocata da Agamben nella forma più letterale: «Il pensiero giudicante saliva tormentoso attraverso i dolori, aumentando lo strazio e non portando alcun sollievo. Come se in una casa che sta per essere distrutta dalle fiamme ci si ponesse per la prima volta il problema della sua architettura» (Kafka 1960, p. 247). Ma è in Benjamin, quando riflette sul ruolo della critica nel saggio Le affinità elettive di Goethe, che l’immagine del rogo, il nesso tra verità e distruzione, emerge con maggiore forza. Benjamin non ci parla del «problema architettonico» ma del «problema critico fondamentale» (Benjamin 2008, p. 523).

Se si vuol concepire con una metafora, l’opera in sviluppo nella storia come un rogo – scrive Benjamin – il commentatore gli sta davanti come il chimico, il critico come l’alchimista. Se per il primo legno e cenere sono i soli oggetti della sua analisi, per l’altro solo la fiamma custodisce un segreto: quello della vita. Così il critico cerca la verità la cui fiamma vivente continua ad ardere sui ceppi pesanti del passato e sulla cenere lieve del vissuto (ivi, p. 524).

L’idea del disvelamento diventa qui «quella della sua indisvelabilità» (ivi, p. 584). Come scrive in Stanze (1977), la «quéte della critica non consiste nel ritrovare il proprio oggetto, ma nell’assicurare le condizioni della sua inaccessibilità» (Agamben 1977, p. XIII). Dare fuoco all’opera d’arte non significa quindi bruciare l’involucro per far emergere il contenuto (che non si sa come dovrebbe rimanere intatto) ma far brillare la loro indiscernibilità, l’indiscernibilità tra l’oggetto e il suo velo, ed esporre il segreto, e quindi la bellezza, nella sua massima intensità luminosa.

Di fronte a un tale evento ci si può accontentare dei resti di questo rogo misurandoli e analizzandoli quantitativamente come un chimico, oppure riconoscere, come scrive Agamben, che «il crollo ci riguarda e ci apostrofa, siamo anche noi soltanto una di quelle macerie. E dovremo imparare cautamente a usarle nel modo più giusto, senza farci notare» (Agamben 2020 p. 13). Fare uso delle macerie, abitare le rovine. Forse è questa una delle sfide dei nostri tempi. Guardando in faccia le fiamme del contemporaneo, è possibile scorgere il segreto che custodiscono, “quello della vita”. Come l’alchimista, il critico, che secondo i romantici era in tutto e per tutto un artista (Carchia 2000, p.30), ricerca la verità nella fiamma che arde “sui ceppi pesanti del passato e sulla cenere lieve del vissuto”.

­­­­­­­­­­­­­­­­­­­Se si volesse riportare la riflessione su un piano architettonico, un’immagine analoga viene tracciata da Superstudio, un gruppo di architetti fiorentini che, più o meno negli anni in cui Agamben scriveva i suoi primi testi, riflettevano sulla “distruzione dell’architettura e della città”. Curiosamente per portare alla luce questa riflessione hanno usato la stessa immagine biblica che si trova sulla copertina di Quando la casa brucia: la distruzione di Sodoma e Gomorra. Per Superstudio, in questione non sono gli edifici distrutti dalle fiamme, né la fuga di Lot accompagnato dagli angeli, ma la figura della moglie, personaggio biblico senza nome, che possiamo intravedere alle spalle di Lot, rivolta verso le fiamme, divenuta, per aver disobbedito agli angeli, una statua di sale.

La moglie di Lot – questo è il nome dell’installazione alla Biennale di Venezia del 1978 ad opera di Superstudio – rappresenta un’occasione per riflettere, attraverso il concetto di rovina, sul complesso rapporto tra uso e architettura, tra l’abitare e l’opera dell’uomo. È una installazione composta dalla riproduzione in sale di cinque famose architetture: una piramide, un an­fiteatro, una cattedrale, il palazzo di Versailles, il Padiglione dell’Esprit Nouveau di Le Corbusier. Queste sono poste su un piano di acciaio, su cui un dispositivo lascia gocciolare lentamente dell’acqua. Una targhetta precisa: «L’architettura sta al tempo come il sale sta all’acqua». Le piccole architetture di sale a contatto con l’acqua si sciolgono e si trovano progressivamente in uno stato di rovina. Una volta distrutte, emerge il loro più profondo segreto, ciò che potremmo chiamare il loro principio epocale. Dalla piramide emerge una “piramide in fil di ferro”; dall’anfiteatro un “insediamento abitativo”; dalla cattedrale “un guscio d’uovo, perfetto e vuoto”; dal palazzo di Versailles “la brioche di Maria Antonietta”; dal padiglione di Le Corbusier, una targhetta con scritto «l’unica architettura sarà la nostra vita» (Mastrigli 2016, p. 556). Come afferma Benjamin in Il dramma barocco tedesco (1926): «Dalle rovine dei grandi edifici l’idea del loro disegno complesso parla in modo più eloquente che da quei pochi ben conservati.» (Benjamin 2001, p. 268).

L’architettura, una volta resa rovina, si mostra per quello che è: le sue forme non evocano più timore e non comandano più nulla, il suo aspetto disposizionale è interrotto e, nonostante continui a suggerire forme, funzioni e significati, l’architettura appare in quanto tale, come costruzione, come opera dell’uomo, come materia. In una parola: è restituita all’uso. Quello di Superstudio è una sorta di contro-dispositivo che fa collassare la monumentalità su se stessa. Nella rovina la funzione simbolica viene meno per far posto all’abitare. Solo distruggendo la forma, «l’architettura può ritrovare un uso, in tempi e condizioni imprevisti dal progettista» (Mastrigli 2016, p. 558).

Se in fondo la posta in gioco nell’opera di Superstudio è quella dimostrare il nesso vitale tra le rovine e l’abitare, il problema che oggi possiamo porci non è come spegnere l’incendio, né semplicemente come appiccarlo ma, come Tarkovskij suggerisce nel film Stalker, come abitare le rovine del presente.

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio (Calvino 2016, p. 160).

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata 1994 (Ia ed. 1971).
Id., Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino 1977.
Id., L’uso dei corpi. Homo Sacer IV/2, Neri Pozza, Vicenza 2014.
W. Benjamin, Opere complete I. Scritti 1906-1922, Einaudi, Torino 2008.
Id., Opere complete II. Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001.
I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2016.
G. Carchia, Nome e immagine. Saggio su Walter Benjamin, Bulzoni Editore, Roma 2000.
F. Kafka, Confessioni ed immagini, Mondadori, Segrate (MI) 1960.
G. Mastrigli, a cura di, Superstudio. Opere. 1966-1978, Quodlibet, Macerata 2016.
L. Mortari, a cura di, Vita e detti dei padri del deserto, Città Nuova, Roma 2016.
A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano 1988.

Giorgio Agamben, Quando la casa brucia, Giometti & Antonello, Macerata 2020.

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