Una camera a mano si ferma sulla soglia di laboratori tessili, avanza nei corridoi, si fa ombra mentre accorcia la distanza tra chi filma o e chi è filmato, oppure sosta nella forma di un campo lungo, prima di accostare il primo piano di volti, o la scena dei gesti di una ripetizione, quella frequenza di atti che chiamiamo lavoro, quanto accade e prende forma nel ritmo dettato dalle macchine, dagli ordini, dagli ordinativi, nel tempo della manifattura. Siamo in Cina. La scena del lavoro tessile è quella del lavoro precario, fragile, la vita è a cottimo, l’impegno è stagionale: chi lavora viene dalle immense e povere campagne, dal profondo del rurale, dal composto di tradizioni, valori, anziani che invecchiano, case fatiscenti, fredde, strade sterrate. Nel 1995, ormai trent’anni fa, Haroun Farocki interrogava l’immagine di operai e operaie in uscita dalla fabbrica Lumière: la prima immagine movimento consegnataci non dal cinema ma dai due geniali imprenditori chimici di Lione era l’affrettarsi concitato verso un esterno, la fuoriuscita da una cornice di porte, dall’inquadratura dello stabilimento verso un altrove di probabile prossimità, verso il domestico, le case, le famiglie, la vita. In un fuori campo, comunque.
Arbeiter verlassen die Fabrik (1995), il film di Farocki, interrogava, attraverso quell’immagine sequenza, il tempo vissuto da quegli uomini e quelle donne, l’istante dell’uscita dal lavoro come cifra di una cadenza, la segnatura di un passo affrettato capace di scivolare nella luce e allontanarsi dall’ombra delle mura perimetrali della fabbrica, riflesso dal radar della vista meccanica dei proprietari di quella fabbrica, appunto i geniali fratelli Lumière, destinato ad essere inciso dalla luce in una pellicola ancora riproducibile, segno di quell’esperimento chimico ancora visibile capace di fissare il movimento come tale nel film. Dove vanno, dove andavano, tra il 2014 e il 2019, cento venti anni dopo Lione, le operaie e gli operai cinesi di Wang Bing, le donne e gli uomini di Youth? 2600 ore di girato sono la vita e il rumore di fondo del mondo di Zhili, nell’entroterra di Shanghai: Wang Bing firma la sua trilogia nel corso di sei anni. Youth: Homecoming – ne è la terza parte, preceduta da Spring e da Hard Times. Una Heimat mobile di corpi-lavoro racconta la storia contemporanea cinese via la lente del lavoro tessile nei laboratori dove si producono gli abiti per bambini destinati all’immenso mercato interno cinese.
Wang Bing si fa ombra, agisce come un osservatore partecipante i cui occhi si fanno camera di ripresa, cifra e memoria delle vite che trascorrono. Un sistema di tensioni spaziali prende forma in Homecoming: l’angustia e la miseria degli spazi dei laboratori tessili e dei dormitori, la vastità anonima dei blocchi di isolati fabbrica dei terzisti e delle vie di Zhili, dove le vite di chi lavora trascorrono, sono il campo dove la presa del mondo si fa immagine-presente, cronaca. Sullo sfondo, come punto di frizione e twist, punto di svolta, la volontà di molti operai di rientrare a casa per il Capodanno cinese implica la forma del viaggio come controcampo temporale e spaziale della vita a cottimo: il paesaggio spazia diversamente la camera e gli sguardi, le montagne e le strade che si inerpicano sono il terreno della memoria rurale, dell’imprinting del luogo, delle origini di ciascuno. Wang Bing osserva e si fa corpo-vita e corpo-lavoro coi suoi soggetti filmati: ne traccia i percorsi, si muove con loro nel loro stanziare, viaggia con loro nel movimento di rientro nei luoghi familiari. Li pedina, ma lo fa con un movimento di shadowing inevitabilmente attratto dall’informe, capace di mettere in tensione la forma dell’inquadratura sottraendo a questa la potenza estetica e assumendo piuttosto la pazienza, il pathos, come tensione nell’informe, come tempo lungo del lavoro e del montaggio, per puntare alla possibilità di sottrarre la scena all’esemplare, preferendo cogliere il trascorrere come singolare-generale. Cinema di sottrazione, di azione generica e per questo comune, tuttavia per questo necessaria di diventare film.
Come vivremo, si domandano i corpi-azione, i corpi-attori-lavoratori della trilogia? Come vivremo nel radicale mutamento delle condizioni di vita di migliaia di esseri viventi accelerati e precipitati in nuove e diverse forme del tempo di vita, dei luoghi stessi del vivere, dalle forme del capitalismo di stato cinese. Come vivono è la domanda che fa spazio tra le storie degli individui e le storie delle masse al lavoro nella Cina contemporanea, la domanda di Wang Bing. Coma ha osservato Trin Min-ha, la cineasta e antropologa vietnamita, non si tratta di parlare di, piuttosto di essere nella circostanza, di muoversi in certi luoghi e contesti come qualcuno che si muove nel nearby, di filmare nel campo di tensione tra presenza e discrezione, di co-esistere con chi si filma, mentre si filma chi si presenta dinanzi alla camera offrendo semplicemente la sua vita come azione, come fatto, come estratto – excerpt – sedimento di esperienza.
Nel cinema di Wang Bing la distanza è un processo: nello spazio dei poveri luoghi di Homecoming la prima istanza è osservare, vivere con per poter osservare e filmare. La prima fabbrica filmata dal cinema era appunto una fabbrica di pellicole: la condizione materiale per poter dare allora alla vita la forma chimica di una memoria possibile, la messa in atto del lavoro dell’occhio alla ricerca del mondo vis(su)to. Alla ricerca qui delle ombre migranti nel capitale cinese.
Youth: Homecoming. Regia, sceneggiatura: Bing Wang; fotografia: Liu Xianhui, Song Yang, Ding Bihan, Shan Xiaohui, Maeda Yoshitaka, Wang Bing; montaggio: Dominique Auvray, Xu Bingyuan; produzione: Les Films Fauves, House on Fire, CS Production, Gladys Glover, Volya Films; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi; durata: 152’; anno: 2024.