1) Nell’episodio “White Bear”, uno dei più riusciti della fortunata serie anglosassone Black Mirror, scopriamo, con profondo turbamento, di aver assistito per quasi un’ora alla plateale messa in scena dello spettacolo della Giustizia, che nel frattempo, in questa realtà distopica, ha assunto le sembianze di un reality show ad uso e consumo di spettatori affamati di vendetta, punizione e di castigo. 2) Il 14 gennaio 2019, attraverso una sapiente costruzione mediatica, abbiamo assistito allo show del “trionfo” della Legge: la cattura di Cesare Battisti. Sembrava di riconoscere White Bear recitato da Salvini. 3) Nel luglio 1987, nel suo ultimo discorso pubblico all’Organizzazione dell’Unione Africana, quello che gli avrebbe causato la morte, Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, afferma, nell’economia di un ragionamento volto a esplicitare l’inganno del Debito come nuova forma di colonizzazione, l’esistenza di due morali e di conseguenza di due Giustizie. «Tra ricco e povero non c’è la stessa morale. La Bibbia o il Corano non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. Bisognerebbe che ci fossero due edizioni della Bibbia e del Corano».

Cosa hanno in comune questi tre esempi apparentemente scollegati tra loro e per quale ragione possono rappresentare tre momenti dello stesso problema? La risposta mi sembra la si possa trovare nell’ultimo saggio del sociologo e antropologo francese Didier Fassin, Punire. Una passione contemporanea (Feltrinelli, Milano 2018)tradotto in italiano da Lorenzo Alunni. La tesi di Fassin, enunciata fin dalla prima pagina-manifesto con assoluta trasparenza, è infatti che «il mondo è entrato in un’era del castigo» (Fassin 2018, p. 9). Si tratta, dunque, d’interrogarsi sulla natura del castigo in un preciso momento storico, quello nel quale viviamo, in cui si registra una maggiore sensibilità e intolleranza verso gli atti illegali e di conseguenza una maggiore severità nelle sanzioni delle infrazioni alla legge.

Quest’ultimo aspetto, Fassin lo ribadisce spesso, non ha nessuna correlazione con un reale incremento della criminalità e della delinquenza ma rappresenta un problema di ordine culturale di percezione della realtà mediaticamente confezionata e di ordine politico legato a «una focalizzazione del discorso e dell’azione pubblica sulle questioni di sicurezza» (ivi, p. 13). Va detto inoltre che la definizione stessa di pena si allarga in continuazione con la conseguente criminalizzazione di fatti che in precedenza non venivano sanzionati come tali. Questo «populismo penale», che risulta convenire alla tessitura del discorso securitario contemporaneo, oltre a creare una gerarchia dei disordini secondo un criterio di differenziazione delle classi sociali da colpire e da punire, porta a un inasprimento dei rapporti sociali fino a un ampliamento della disuguaglianza e una produzione e riproduzione delle disparità sociali.

Secondo un procedimento che impone una rottura radicale dell’evidenza, in cui emerge «a posteriori una teoria critica a partire dai materiali empirici» (ivi, p. 37) senza dare per scontato una concezione ideale della categoria di castigo (come fanno filosofia o diritto) ma attraverso un dialogo critico tra le discipline, Fassin vuole, partendo dai dati, sia scoprire «da dove viene la nostra idea di punizione» (ivi, p. 57), sia indagare «la nostra comprensione di cosa significhi punire» (ivi, p. 28) nella convinzione che il momento punitivo «come istituzione sociale, si rivela infatti un efficace strumento di analisi delle società, dei sentimenti che le attraversano e dei valori di cui si fanno portatrici» (ivi, p. 36). Per questo motivo si invoca «una teoria realista dell’uguaglianza» (ivi, p. 145) sgravata da qualsiasi argomentazione astratta sulla giustizia e che ripensi e rifondi l’istituzione punitiva.

Fassin articola la sua «antropologia del castigo» (ivi, p. 20), basata su studi etnografici relativi al contesto francese – sebbene i risultati possano essere legittimamente estesi a tutta Europa e per lo meno agli Stati Uniti – lungo tre assi fondamentali: la definizione, la giustificazione e la distribuzione del castigo.

Con un’impeccabile chiarezza, accentuata dal fatto che il libro rispecchia fedelmente la natura orale del ciclo di conferenze da cui ha origine, Fassin ricostruisce i passaggi chiave della metamorfosi della punizione, nella quale da una logica della riparazione in cui punizione equivale a ricomposizione della frattura sociale con ricompensa del torto subito – la redistribuzione – si passa alla fase utilitarista in cui l’ambizione rieducativa e la redenzione del colpevole si accompagnano con l’afflizione di un dolore. Mentre il principio redistributivo segue il criterio dell’utilità sociale per cui il castigo coincide con un debito in cui si mette al centro la vittima piuttosto che il carnefice, nel principio utilitarista, che introduce un’«economia morale del castigo» (ivi, p. 67), emergerebbe una cruciale confusione fra spirito di giustizia e vendetta come istituzione collettiva e la linea di confine tra punizione e ritorsione risulterebbe molto labile. Il principio utilitarista con camuffato «paternalismo, inflessibilità e crudeltà» (ivi, p. 143) costituirebbe un sistema di distribuzione degli affetti, dei valori, dei sentimenti della società cioè a dire una gestione il più efficiente possibile della risposta affettiva della società verso il crimine.

Gli studi antropologici, infatti, permettono a Fassin di confutare perfino l’assioma, reputato naturale in qualsiasi società, che all’infrazione delle regole della società debbano seguire delle conseguenze più o meno gravi. Al contrario la natura della necessità del castigo e la forma dello stesso risulta essere storicamente determinato. Non si tratta di un universale antropologico ma schiude al contrario un piano di ordine morale di designazione e descrizione della pena.

Allo stesso modo, la pretesa morale che lega delitto e castigo, per cui la punizione debba avere un carattere duro, spietato, esemplare e chi ha commesso il reato deve pagare soffrendo, apre delle problematiche che vanno ben al di là dell’atto in sè e che si incrociano con le ragioni profonde del Punire. Vi sarebbe, secondo Fassin, che qui riprende esplicitamente Nietzsche, un’intima soddisfazione nel far soffrire l’altro, un ineliminabile desiderio di punire: il piacere del fare male per il gusto di farlo. Questa componente emotiva del castigo – lo spettacolo della crudeltà – checché se ne dica, non è mai scomparsa.

Sebbene la modernità, come insegna Foucault, abbia attribuito al diritto penale una funzione educativa, ciò non ci esimerebbe tuttavia dal restare imprigionati all’interno del paradigma medievale di godimento di fronte allo spettacolo del dolore. Vi è stato sicuramente un raffinamento delle tecniche – non si mette in piazza il corpo ma la dignità, non un’agonia fisica ma una morte sociale – eppure la passione “irrazionale” del castigo, questa «forma contemporanea di pornografia che suscita un’eccitazione ambigua di fronte alla vista della sofferenza di persone considerate colpevoli» resta (ivi, p. 106). Il potere di punire, quindi, coincide con il diritto a far soffrire.

Anche le statistiche che l’autore fornisce sono quantomeno inquietanti: i più di dieci milioni di individui incarcerati fanno suscitare ragionevolmente il dubbio che la gestione economica della punizione sia un’operazione del tutto anti-economica, costosa e inefficace. A questo si aggiunga che l’«illusione punitiva contemporanea» (ivi, p. 141) viene puntualmente delusa dagli studi sul rapporto tra severità delle pene e dissuasione dal commettere reati che dimostrano che la riabilitazione, l’effetto deterrente della pena è sempre inferiore al tasso delle recidive.

Fassin nota una forte contraddizione tra la dimensione collettiva della “dimostrazione esemplare”, che deve servire da monito, da anestetico sociale e da distributore di pillole di sicurezza pubblica; e la dimensione privata della condanna, di un singolo che, iper-responsabilizzato, viene colpito individualmente per la sua colpa, lasciato solo e allontanato pubblicamente e moralmente. Il crinale starebbe quindi tra l’idea di una punizione che serve ad alimentare il dispositivo securitario e una responsabilità penale che non tiene conto della dimensione sociale ma che porta all’individualizzazione delle pene: «Mettendo così il singolo solo davanti al proprio atto, la società esonera se stessa dalla propria responsabilità nella produzione e costruzione sociale degli illegalismi» (ivi, p. 138).

In questo completo appiattimento tra governo della polizia e governo della legge a cui stiamo assistendo, in cui «fare giustizia è secondario rispetto al mantenimento dell’ordine» (ivi, p. 98), la capillare diffusione e «normalizzazione delle pratiche punitive extragiudiziarie da parte delle forze dell’ordine» (ivi, p. 51) rappresenta un preciso dispositivo di potere politico. I diversi episodi di abuso da parte della Polizia ci lasciano vedere che al di là della violenza estemporanea, emerge il consolidamento di un meccanismo punitivo reiterato, legittimato dalle istituzioni che ha di gran lunga sorpassato la giurisdizione della legge stessa come strumento idealmente neutrale che si applica laddove è intervenuta una interruzione della norma.

Questa non imparzialità delle istituzioni punitive emerge ancora più forte nel momento in cui Fassin si chiede, “Chi viene punito?”. Non si tratta qui solo di pregiudizi, di razzismo, o di facili equazioni tra povertà e criminalità; Fassin mostra attraverso le sue ricerche sul campo l’esistenza concreta e reale di una differente distribuzione della presenza, del comportamento e dell’intervento poliziesco che muta, anche a parità di reato, in severità e selezione a seconda delle circostanze e delle persone. In una realtà in cui conta più il contesto che l’azione in sè si puniscono «essenzialmente coloro che sono stati definiti punibili a priori» (ivi, p. 126). In pratica «non si viene condannati perché colpevoli ma si è colpevoli perché condannati» (ivi, p. 116).

È proprio la cattiva distribuzione delle pene, allora, ad aggravare la disuguaglianza. Disuguaglianza che non solo inficia sull’azione in sé, ma sull’intervento punito e sul giudizio finale delle istituzioni e della morale pubblica. Disuguaglianza che viene completamente omessa e ignorata dentro l’ordine del discorso dominante. Disuguaglianza che influenza la percezione collettiva di ciò che è violenza, e di ciò che merita punizione. Disuguaglianza che crea, come direbbe Sankara, due morali e due norme: una dei ricchi e una dei poveri. Disuguaglianza che crea crimini moralmente più tollerabili, crimini meno criminali di altri, “crimini giusti per non passare da criminali” e che, usando le parole di De André, una lunga “ginnastica di obbedienza” ha contribuito a farci pacificamente accettare.

Riferimenti bibliografici
D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, Feltrinelli, Milano 2018.

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