Esile per mole ed erto per voce, intimamente teso a rarefarsi in volumetrie dove s’incrociano la malattia, il caso, la sorpresa e la soggezione, il Prometeo male incatenato di André Gide torna ai lettori nella nuova traduzione di Ariase Barretta (Vallecchi, 2021). Le parole, in quest’opera del Premio Nobel francese morto settant’anni fa (colui che ha lasciato in eredità un’assai intagliata Lezione, a richiamare quel saggio devotissimo di Bo, del ’51), “sono” soprattutto quel che hanno intorno, quel che tacciono e implicano, quel che complicano e negano, quel che rifuggono e contestano, secondo un andamento non troppo diverso da quello che, nelle oblique e arcane scansioni della vita di ogni giorno, si riscontra con i nomi e con i silenzi di tutti.
Il Prométhée mal enchaîné, del 1899, irradia coloriture parigine di fine Ottocento ed esibisce un carico di amplificazioni stroboscopiche ed eccentriche. Gide prende il mito, lo manipola, lo sfila e lo rimonta sino a ottenerne un «piccolo libro» cui non rimane estranea l’ambizione di mutuare dai miti quella che dei miti è la connotazione precipua: fornire un punto di vista sull’umano («La fede nel progresso, signori, era l’aquila di ogni uomo»). Il racconto fuoriesce da un procedimento irridente e scardinatorio: la sofisticazione e la “denobilitazione” dei materiali (inclusi i precedenti eschiliani) si realizza attraverso una divertita e complicata piroetta “jokeriana” (e qui si segnala L’occhio di Joker di Alberto Abruzzese), che rimanda alla spinta di «eversione» e al capovolgimento «del mito in grottesco» segnalati da Stefano Agosti nel saggio introduttivo alle opere gidiane (Agosti, nello specifico, parlava del Thésée, sottolineandone l’«affinità di fondo» con il Prometeo).
Se nel presente di ciascuno si perpetua (segretamente, ovvero scopertamente), sotto forma di un dramma variamente annesso agli atti delle rendicontazioni, la riflessione su come si è agito e reagito entro i limiti (ridicoli, patetici, buffissimi, tragici) della “prossemica” propria delle faccende storicamente inquadrabili (e per prassi storiograficamente ordinabili) nelle categorie delle “cose terrestri” (con i relativi “nutrimenti”), il dirsi agli altri, come Prometeo fa, significa pure annettere al proprio corpo, al proprio “esserci” fisico, il trascinamento di una memoria intrisa di parola e di affanno («Sulla terra, ho invano…Ho invano domandato»). Quello che nel “congegno narrativo” gidiano si svela nascostamente come fondamentale, è il tema del dialogo, dello scambio verbale, con le sue insidie, con le sue inedie, con la sua risibile vacuità (proprio Bo, nell’esporre La lezione di Gide, ricorda che lo scrittore «non può fare a meno dell’altro»). Non mancano ammiccamenti, pertanto, a quella che sembra essere un’ipotesi di consenso a un pur scanzonato sabotaggio della fiducia per le effettuali possibilità d’interlocuzione tra i viventi, oltre che verso la tenuta stessa di ogni palinsesto affabulatorio («Non dovrebbe cercare un vero significato in tutta questa storia»: è, di fatto, una chiamata in causa della letteratura).
Uno dei fulcri del Prometeo è la reazione a catena generata dall’uso delle parole («Damocle è morto a causa delle mie parole»), ma le parole sembrano essere, al tempo stesso, il solo mezzo per provare a raddrizzare le situazioni e per tentare di correggere, in parte, le conseguenze che hanno prodotto («Ho deciso che terrò un discorso» – dice Prometeo – perché «devo porre riparo ad alcune cose»). Resta fermo che il rischio dell’incomunicabilità è paradossale e parodistico ed è quel che più di ogni altra cosa “incatena” chiunque alla propria solitudine («Com’è bello quel che dice! Ma cosa significa?»). Succede sin dalle prime pagine, già nello strano e cabarettistico ristorante frequentato da avventori desiderosi di condividere la tavola con degli estranei.
Nella dimensione “teatrale” che Gide assegna alla sua rilettura del mito, e verosimilmente complice la contestazione di ogni idea dogmatica del rapporto con la realtà («Se ci fosse un senso, non avrebbe riso così tanto»), coesistono, come fossero due emisferi parenti e però non fratelli, il piano del “raccoglimento” e quello dello “sfondamento”. Nel primo si ha il raccogliersi delle figure gidiane attorno al loro stesso “agire” e al loro stesso “dire” (sono, le sue, entità in forma di personaggio, combinazioni di gesti e parole dotate di nomi e corporeità). Nel secondo, invece, e in sintonia con ogni discorso mitologico, si ha l’esondare della vicenda dallo specifico testuale a un orizzonte più estesamente generale (ubiquamente reversibile e riversabile).
Il Prometeo male incatenato è un libro cupo e vagamente ilare, e tuttavia ilare nella misura in cui se ne riconosca quella componente “circense” che non di rado accelera e sovreccita il concatenarsi delle situazioni, come addizionandole di un’effervescenza diafana. Lo snodarsi del racconto riesce a essere uguale e diverso da se stesso come potrebbe esserlo una giostra alla quale qualcuno si diverta, di nascosto, a dare e togliere di continuo la corrente. Un qualcuno in certo modo incline ai dispetti un po’ sadici, o a quelle ispide provocazioni che si celano sotto le ipocrisie schermate da una simulata innocenza, come pure è usuale riscontrare nelle casistiche che la letteratura sa offrire nella sua inesausta costruzione d’immagini e d’immaginario.
Si ha un’alternanza spiazzante di buio e colore, nel Prometeo. Quel che regge tutto è l’uniformità del flusso di disorientamento, il continuo scartare del racconto verso uno sbilanciamento che pare affrettarsi ad assumere i connotati di una traccia di significato. Ad esempio, il possesso di qualcosa, di qualunque cosa, inclusa la vita, diventa angoscia e sgomento, se le possibili ragioni di quel possesso, resistendo a ogni tentativo di comprensione, si mostrano nella forma di una frontiera inesplicata. Qualcosa, per l’appunto, di prossimo e incomprendibile come Zeus, che qui Gide incorpora allo status e al capriccio di un pingue e curioso banchiere, un Milionario che prostra tutti, lesto e tremendo come l’occhio di un’aquila che stia per divorare un fegato. È lui a fare suo l’interrogativo su «come si compie un’azione gratuita», domanda restituita da Gide in una delle parti più comiche e sorprendenti del racconto (dirà poi il Milionario: «Solo io, solo colui la cui fortuna è infinita può agire con assoluto disinteresse: l’uomo non può. Da qui nasce il mio amore per il gioco: non per il guadagno, intendiamoci! Per il gioco! Del resto cosa potrei guadagnare che non possegga già? Possiedo persino il tempo»).
Ma il Prometeo male incatenato vorrebbe forse essere un continuo invito al fraintendimento, all’equivoco, all’abbaglio. Come se Gide, all’atto di scrivere questa sua opera, avesse sperato di indurvi le più svariate incursioni interpretative. L’impressione che infatti si ha, mentre si affronta il racconto (non senza avvertire la necessità di dover spesso rinnovare la provvista di concentrazione), è che tutto, di quel che offre e propone, e per il modo stesso in cui lo consegna, sia senz’altro come effettivamente sembra essere, ma “fino a un certo punto”. Superato difatti un certo stadio di prospezione, interrogato il testo oltre una certa soglia, tutto o quasi tutto tende a riguadagnare una specie di distanza di sicurezza, diciamo pure una misura di evanescenza, sino a situarsi in un distretto scorciato e renitente. Quasi Gide avesse voluto criptare un’avvertenza preventiva dell’anelito più riposto del suo testo, in una delle pagine iniziali s’incontra una possibile enunciazione del bioritmo che più propriamente pare governare il Prometeo male incatenato: «Pensi a come oggi tutto si intrecci, e come tutto si complichi anziché chiarirsi».
Riferimenti bibliografici
A. Abruzzese, L’occhio di Joker. Cinema e modernità, Carocci, Roma 2006.
C. Bo, La lezione di Gide, in Id., Letteratura come vita. Antologia critica, a cura di S. Pautasso, Rizzoli, Milano 1994.
S. Agosti, Problemi del romanzo: Gide e le esautorazioni del senso, in Opere di André Gide, Bompiani, Milano 1974.
André Gide, Prometeo male incatenato, Vallecchi, Firenze 2021.