Fu il solito Roland Barthes, nel classico La camera chiara (1980), a porre l’equazione tra fotografia e poesia, più precisamente tra istantanea e haiku giapponese (componimento in tre versi: un quinario, un settenario, un quinario): stessa velocità d’esecuzione, stessa mistica adesione all’oggettività del mondo, stesso carattere “insviluppabile” (cioè chiuso al racconto, al desiderio di un prima e di un dopo). Data questa affinità, ci si aspetterebbe una maggiore permeabilità reciproca, invece i casi risultano abbastanza rari: certo, ci sono i poeti che riflettono sulle conseguenze delle immagini tecniche sulla modernità (si legga il saggio di Yves Bonnefoy Poesia e fotografia) e quelli che scattano immagini da circondare con la scrittura autografa (Allen Ginsberg).
Ci sono poesie imperniate su foto, da quella famosa di Wisława Szymborska La prima fotografia di Hitler (saggio sull’impossibilità di leggere il destino negli album di famiglia – e forse neanche le predestinazioni nei ritratti del gruppo The people I like, firmato Gastel) a quella che compare sulla copertina di Exfanzia di Valerio Magrelli («Che sorrisone faccio, nella foto! / Sta per iniziare la gita / e scherzo con gli amici. / Tra mezz’ora, cadendo, / mi romperò una spalla / e poi sarò operato per due volte. / Ma che sorriso faccio, nella foto!»); ci sono addirittura collaborazioni professionali, come quella di Mariangela Gualtieri con Guido Guidi per l’opera A Seneghe; ma sembra che gli artigiani della parola non siano ancora giunti all’alfabetizzazione riprovisiva, alla vernacolarità del linguaggio fotografico.
Dall’altro lato, i fotografi hanno spesso una cultura che li spinge al confronto con il testo poetico anche classico (si pensi a Mario Giacomelli, che ha illustrato addirittura due capolavori di Leopardi, L’infinito e A Silvia) ma non un’ispirazione che si trasformi anche in versificazione: un’eccezione da studiare è Wim Wenders, giunto in vecchiaia alla formula Scrivo dunque penso e quindi capace di elaborare poesie su fotografi come Peter Lindbergh o James Nachtwey.
La mia strana forma in versi, che qui vedete, / mi aiuta molto in questo. / Crea motivi o blocchi di pensieri visibili, / comunque una struttura / in cui una sorta di grammatica dell’immagine mi aiuta / a tenere d’occhio la grammatica del pensiero. // Ha poco a che fare con i versi in sé, piuttosto con il desiderio / che i pensieri possano trovare un ritmo / che li metta in movimento.
Un’altra eccezione è costituita dal fotografo di moda Giovanni Gastel (1955-2021), che ha iniziato a scuola (ecco un haiku scritto a 15 anni: «E del mio pianto / sulle colline greche / sorride Venere»), ha proseguito quando ha conosciuto la diciannovenne Anna Radice Fossati (che nella postfazione lo ricorda scrivere con matita o penna «in aereo, in treno, in albergo, a letto svegliandosi in piena notte e naturalmente alla sua scrivania nello studio in campagna a Castellaro, posto che amava moltissimo. Poi la versione definitiva veniva trascritta con la sua adorata Olivetti, in seguito con la prima macchina da scrivere elettronica e infine con il computer e l’iPad. Come con la fotografia, ha sempre amato adeguarsi alle nuove tecnologie»), ha pubblicato libri di versi e romanzi (Io sono una pianta rampicante, Duetto profano, Spade), ha aumentato la produzione sui social e ha proseguito fino alla fine, avvenuta il 13 marzo dello scorso anno per complicanze Covid: «Più tardi quella sera / la voce si fa dolce / con tenerezza / le sue mani aggiustano la coperta / giro la testa e chiudo gli occhi / ma la sua mano è nella mia / e il sonno scende dolce / mentre sento il suo sorriso vicino» (Gastel 2022, p. 483).
Non ho letto di Gastel l’autobiografia Un eterno istante (Mondadori 2015), titolo forse preso da L’infinito istante di Geoff Dyer (Einaudi 2007), ma so del turbinio delle sue attività fotografiche: a vent’anni (1975) per Christie’s, negli anni ottanta per Annabella e Vogue Italia, negli anni novanta campagne pubblicitarie anche in Francia e nel Regno Unito, nel 1997 alla Triennale di Milano con una mostra personale curata da Germano Celant, e così via fino alla mostra di ritratti al museo Maxxi di Roma (2020); senza dimenticare la presidenza dell’Associazione fotografi italiani professionisti e la partecipazione al consiglio di amministrazione dell’Istituto europeo di oncologia. Nel frattempo, le poesie. Nel 1988: «Questa vuota paura che mi prende / nel buio della notte, d’improvviso / passerà domattina. / Quando la sveglia suonerà / e il rumore ricomincerà sulla strada. / E noi sapremo di nuovo di essere vivi, / d’essere immortali, / fino a sera» (ivi, p. 67). Nel 2012 (a Filicudi, peraltro patria di Tano D’Amico, un fotografo agli antipodi): «Sono un uomo / che ascolta l’autunno / e fa mute fotografie / per riuscire a vivere / in un mondo chiassoso» (ivi, p. 171).
Georges Didi-Huberman (Quando le immagini prendono posizione, Mimesis) dice che il montaggio fotografia/poesia operato da Bertolt Brecht in L’Abicì della guerra (1955, anno di nascita di Gastel, nonché anno della mostra di Steichen The Family of Man) è il corrispettivo del metodo teatrale dello “straniamento” o “distanziamento”: la pretesa oggettività delle immagini fotogiornalistiche tipo Life (e delle relative didascalie in prosa) viene messa tra parentesi dalle quartine in rima ABAB, il metalinguaggio verbale (il cui carattere artificiale è esibito proprio dalla struttura formale del componimento poetico) decostruisce il preteso naturalismo del linguaggio fotografico. Oggi che l’ideologia neocapitalista passa attraverso le pubblicità di moda e più in generale la cultura della doppia bellezza (del soggetto fotografato ma anche della stessa immagine tecnica), quale tipo di poesia potrebbe decostruire l’universo panottico del glamour e del fashion? Gastel sembra essere il Brecht di se stesso, il cantore della morte e depressione contro il rutilante mondo delle merci: «Senza antidepressivi da sei giorni / la morte mi appare / dopo anni di assenza / su un tranquillo volo della Pacific» (ivi, p. 184); «Io sono un disperso / controllato da psicofarmaci / che osserva il muovere delle cose / dalla sua chimica finestra» (ivi, p. 157); «Ancora un momento / a colloquio con me stesso. / Poi le pastiglie faranno effetto / e non mi sveglierò fino a mattina. / Senza di loro dicono / farei subito ritorno alla caverna buia / dove ho vissuto a lungo / prima di raggiungere questo chimico / armistizio col mondo» (ivi, p. 194, con chimico/armistizio a fare da rarissimo enjambement); «Impenetrabile certezza il dolore. / Il rimedio sarebbe essere morti» (ivi, p. 121).
Ben si vede allora la differenza con Luchino Visconti, fratello della madre, che nel 1955 è ormai acclamato come uno dei padri del Neorealismo (e uno degli innovatori del teatro italiano, con opere liriche come La sonnambula di Bellini e La traviata di Verdi e la prosa di Miller e Čechov): quando lo zio muore, nel 1976, Giovanni Gastel inizia la sua attività di fotografo, che lo porterà da «la Milano giovanissima / e immensa dei padroni» al jet-set internazionale. Ma la fotografia, lontana dalla storia e vicina alle merci, finirà col deluderlo: «Questo ti dico oggi / che per guadagnarmi il pane / non ho salvato il mondo / né avrò altre occasioni per farlo» (ivi, p. 140). Londra 2013: «Nella trascendenza / non nella casualità / avrei voluto vivere / la mia esistenza» (ivi, p. 198). Il cinema, e quella cosa oscura che è il Neorealismo, restano al di fuori della fotografia (o almeno di quella fotografia) e forse anche della poesia (o almeno di quella poesia); il nome di Luchino finisce ad uno dei figli di Giovanni Gastel, non più regista ma freelance video content producer.
Giovanni Gastel, Presenza e Assenza. Tutte le poesie, La nave di Teseo, Milano 2022.