Come ogni sottile “peste del linguaggio”, l’(ab)uso generalizzato del termine iconico si è affermato nell’indifferenza dei più e, in forza del suo pedigree di lessema dotto, ha destato ancora meno sospetti di parole tutto sommato più triviali quali pazzesco, evento e ape (non l’insetto), per tacere degli anglicismi ormai tanto più banali quanto dilaganti.

Il nostro iconico, invece, evoca tutta una allure di erudizione rinascimentale un po’ esoterica, tutta un’eredità di studi storico-artistici alti e geniali (Warburg, Panofsky ed epigoni), tutto il potere di fascinazione di un aggettivo prezioso, addirittura greco antico: eikonikòs, derivato di eikòn, “immagine”. L’icona – prima di essere degradata a volgare etichettina sul desktop dei computer Windows alla fine degli anni novanta – è stata la principale forma espressiva dell’arte bizantina: una rappresentazione di Dio, della Madonna e/o di altre figure, in un’atmosfera di rarefatta sacralità, di occhi spalancati e bidimensionalità assoluta sul fondo oro, senza alcuna (evidente) pretesa di naturalismo, e in omaggio ad una concezione simbolica e intuitiva del fenomeno religioso. Spesso tacciata di ottuso conservatorismo per l’ostinata tendenza a schiacciare la realtà su due dimensioni – mentre l’arte occidentale, da Giotto in poi, ha cercato di restituire illusionisticamente la tridimensionalità delle forme – il mondo delle icone bizantine, già in sé pieno di fascino, ha contribuito in modo decisivo alla grammatica figurativa della pittura medievale.

Siamo dunque, con l’attributo iconico, nel campo artistico o, più in generale, del visuale: un ambito frequentato da alcuni specialisti e poco dal grande pubblico, per quanto oggi il settore dei visual culture studies goda di un’attenzione sempre crescente. In spregio a queste premesse, tuttavia, l’elegante e ineffabile iconico è a sorpresa la parola del momento: basta accendere un qualunque cellulare o televisore, o accettare frettolosamente un invito ad una cena sbagliata, per essere inondati da sintagmi indisponenti come “una vista iconica”, “un albergo iconico”, “uno sguardo iconico”, “un sorriso iconico”, “uno skyline iconico”, “una pettinatura iconica”. La faccenda diventa grave (ma, come sempre in questi casi, non seria) quando le stesse espressioni ricorrono in contesti che in tempi più borghesi si solevano chiamare ufficiali o istituzionali: nei telegiornali della rete ammiraglia, sui quotidiani storicamente blasonati, nelle comunicazioni dei funzionari e dei rappresentanti politici della macchina amministrativa del Paese a tutti i livelli.

Sgomberato il campo, per vari motivi, dall’ipotesi dell’uso aulico del termine, che peraltro conosce una fortuna assai limitata nella nostra letteratura nazionale, per cogliere il senso della evidente risemantizzazione contemporanea di iconico – o, meglio, del suo svuotamento di senso – bisogna rivolgere lo sguardo (ovviamente) oltreoceano, nella cultura pop anglo-americana, dove qualcosa di iconic è “ammirato e visto dalla gente come un simbolo di un’idea o di un particolare modo di vita” (Dizionario Oxford). Il contesto di pertinenza sembra essere quello glamour del mondo dello spettacolo e della moda in senso ampio, magistralmente propagandati, a beneficio dei meno glitterati cittadini europei e dunque italiani, da serie tv o film divenuti cult come ad esempio Il diavolo veste Prada (2006, in tempi non sospetti). Questa disamina superficiale, e in parte impressionistica, può spiegare il senso con cui viene attualmente impiegata dai più la parola iconico, ma non perché un cocktail, un paio di occhiali o un’automobile siano oggigiorno ostinatamente percepiti come iconici.

Di primo acchito, e per amor di etimologia, si sarebbe tentati di collegare il tema al concetto, fin troppo consumato, che siamo immersi in una “società delle immagini”, in cui la produzione e il consumo delle stesse, grazie all’apporto delle nuove tecnologie, ha raggiunto volumi impensabili qualche decennio fa. Il che è una verità inoppugnabile, anche se in parte da relativizzare, poiché l’umanità è succube delle immagini almeno dai tempi di Lascaux e, restringendo il discorso ai sommi capi e al solo occidente, i greci antichi (quelli dell’iconico originale) erano circondati dalle immagini; le chiese cristiane del medioevo, erano (sono) tappezzate di storie sacre dipinte, di pale, di sculture; le stampe e le litografie in età moderna e contemporanea ebbero una circolazione importante, per non parlare poi delle pubblicità e della televisione.

Se non è (solo) un problema di quantità, l’inflazione dell’aggettivo iconico – fatte salve le contaminazioni culturali americane e la moda del momento – parla molto della società “dell’angoscia” (così un recente titolo italiano del filosofo Byung-Chul Han) in cui si cerca nevroticamente di trovare speciali e indimenticabili luoghi, cose e persone che non lo sono, di fermare per un istante nella mente e nel cuore frammenti di realtà visiva che saranno travolti in breve tempo da altre immagini non necessariamente più importanti, ma più recenti, e condannati pertanto ad un sicuro oblio (e in questo certamente la potenza del mezzo tecnologico gioca un ruolo chiave). Due tendenze non sono estranee a questo modo di pensare.

Da una parte c’è una sensazione di “nostalgia” diffusa, un’impressione di decadenza del tempo presente rispetto al passato: un’idea vecchia e per certi versi ricorrente, ma che oggi, sorprendentemente, interessa anche i trentenni smarriti dal repentino cambiamento della vita rispetto alla loro infanzia (sul tema da ultimo Gazzelle, La Repubblica, 24.01.2025) e persino i giovanissimi – quelli che con odiosa mania linneana e non senza qualche influsso inatteso del mondo dei videogiochi si usa chiamare Gen Z –, che provano nostalgia di epoche non vissute ma sentite come più stimolanti e felici. In questo senso, la nostalgia per il paradiso perduto, identificato nel mondo occidentale della seconda metà del Novecento (si veda in merito l’emblematico L’età della nostalgia di Alessandro Gandini) porta a rimpiangere dei momenti in cui gli attori erano davvero belli e l’eleganza delle dive (che allora esistevano) era davvero irraggiungibile e, appunto, iconica. Come si capisce, si tratta di una lettura come minimo ingenua, fondata su una forte dose di idealizzazione, il cui prodotto sono delle figurine prive di profondità venerate in reazione alla realtà deludente che si crede di vivere.

La seconda tendenza è uno dei portati nefasti della società dei consumi e del neo-liberismo imperante: l’ossessione per il marketing, per la vendibilità di qualunque cosa, persino di azioni o di sentimenti. Le persone, i luoghi e gli oggetti iconici, privati del loro spessore, si convertono a illustrazioni da brochure e diventano ipso facto commercialmente sfruttabili (risuona immancabilmente l’accento settentrionale dell’influencer in vacanza in un resort senz’anima). Nel perdere la loro consistenza tridimensionale, i luoghi si riducono alla bidimensionalità dell’icona bizantina: ma senza possedere un equivalente universo simbolico, diventano semplici fondali, location (non più luoghi, come è stato ampiamente osservato) all’apparenza indimenticabili, setting privilegiati per catturare emozioni (vere?) e produrre una cascata di nuove immagini cui si affiderà il ricordo, sempre più evanescente, di quella certa esperienza (altro termine-chiave-degenerato della contemporaneità).

Secondo questa prospettiva, quasi come un postulato, si può intendere anche l’esplosione del turismo massificato che, soprattutto dopo la fine della pandemia, sta interessando le città di tutto il mondo: flussi di visitatori mai visti prima prendono d’assalto le città d’arte, le località di mare e le stazioni sciistiche, generando, come è ovvio, grandi profitti economici, ma sempre più spesso ponendo problemi di gestione e conservazione (il recente, grottesco caso di Roccaraso si candida a diventare un caso di scuola). Il turismo, individuato già da Roberto Calasso come una delle categorie fondanti del mondo secolarizzato, è ormai una moda di massa – anche in questo caso venduta dai social media, dove spopolano consigli, tips, recensioni – e si indirizza, manco a dirlo, verso luoghi iconici, almeno secondo la percezione di chi, nell’etere, ne ha caldeggiato la scelta: dalla Fontana di Trevi al Louvre, dal Golden Gate Bridge a Bali, senza che l’anonimo follower sia in grado di percepire differenze essenziali tra questi luoghi invece così distanti e diversi.

Il luogo iconico, cioè conosciuto attraverso un’immagine-cartolina digitale, una volta raggiunto – e superata a fatica la delusione inevitabilmente generata dalle alte aspettative indotte – viene immediatamente ri-reso icona, cioè fotografato, condiviso e, in ultima analisi, ricondotto (e ridotto) alla bidimensionalità di un’immagine, spesso peraltro ingannevole in quanto artatamente modificata per aderire all’idea astratta, e dunque falsa, di quel luogo iconico. Al turista delle viste iconiche, talora palesemente sprovveduto, non interessano i monumenti, la storia e le meraviglie d’arte, e dunque non ha nulla a che vedere con il ricco viaggiatore che nel Settecento si dedicava con entusiasmo al Grand Tour o con il turista europeo colto del secolo successivo, che aveva in tasca il Cicerone di Burckhardt.

All’escursionista dei luoghi iconici sfugge quasi completamente la profondità storica, l’idea cioè che, come ha scritto Tomaso Montanari, «il patrimonio culturale è uno spazio che è anche un tempo: un altro tempo, incuneato in quello che chiamiamo presente» (Montanari 2023, p. 3). Ma se non sempre appassiona l’aspetto latamente culturale del viaggio, che potrebbe facilmente essere bollato come fissazione da parrucconi, non sembra rilevante nemmeno la ricerca del cosiddetto genius loci, lo spirito del luogo, l’essenza profonda e particolare che distingue(va), quasi dovunque, un Paese, una regione, una città, e persino un piccolo paese. La ricerca delle radici profonde di un luogo, o di un suo centro ideale-concettuale (come ha cercato di fare Flavio Cuniberto per Berlino nel recente Misteri berlinesi), è per definizione estranea al consumo dei luoghi cosiddetti iconici, impalpabilmente fruiti in una forma stereotipata e massificata, e quindi in una disposizione d’animo non incline ad «attraversare la pelle invisibile delle cose» (Saramago 2017, pp. 57-58).

Insomma, la straripante diffusione del termine iconico nel linguaggio quotidiano, nei social media e persino nel dibattito pubblico è in qualche modo indicativa di un modo di pensare e di uno spirito del tempo. È in ultima analisi un’ulteriore manifestazione di quella tendenza alla semplificazione, alla negazione frivola della complessità, non estranea a moti di nostalgia e alle prerogative dell’homo oeconomicus, ma è anche il sintomo di un cortocircuito del processo di conoscenza attraverso l’esperienza (quella che i filosofi antichi chiamavano empeirìa): la realtà (e soprattutto l’alterità) si esperisce e si categorizza attraverso una sua immagine bidimensionale, iconica, e la fugace percezione diretta, in tre dimensioni, diventa semplicemente il passaggio obbligato verso una sua ri-iconizzazione bidimensionale, funzionale ad una fruizione semplificata e ad una comunicabilità più immediata: la reductio ad imaginem, lo schiacciamento della realtà nella bidimensionalità dell’icona, è in fondo una forma di simbolizzazione della stessa, ma con una forza semantica piuttosto limitata.

Questo imponente fenomeno di scarnificazione di senso e di spessore delle immagini, che va di pari passo alla loro moltiplicazione, è la premessa per le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale, oggi già in grado di creare su richiesta figure deliberatamente false, assurde o inventate, ma indistinguibili dalle quelle vere da parte della grande maggioranza degli utenti online. Le immagini diventano così leggere da divenire fragili parvenze, un’evenienza prevista già ab origine, nell’uso del termine eikòn presso i Greci da cui ha preso le mosse questo discorso: così, nell’Eracle di Euripide la dea Atena che pone fine alla follia dell’eroe giunge come un simulacro (eikòn), e con la stessa parola Platone nella Repubblica (588b) intende l’immagine dell’anima, da poter plasmare, come uno spettro, a somiglianza degli esseri ibridi del mito e “in grado di cambiare forma e di generare da sé tutte le forme”. La storia semantica del termine e la vertiginosa intuizione platonica dell’intelligenza artificiale generativa di immagini (poco dopo il filosofo aggiunge che “questa sarebbe l’opera di uno scultore straordinario”), consentono di prevedere allora un possibile futuro scenario, di cui l’abuso del termine iconico, con tutta la sua sciocca innocenza, sembra testimoniare le premesse: un mondo popolato di fantasmi.

Riferimenti bibliografici
R. Calasso, L’innominabile attuale, Adelphi, Milano 2017.
T. Montanari, Se amore guarda. Un’educazione sentimentale al patrimonio culturale, Einaudi, Torino 2023.
J. Saramago, Cecità, Feltrinelli, Milano 2017.

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