Così lontano, così vicino. La modernità preistorica

di MARIE REBECCHI

Préhistoire. Une énigme moderne, la mostra del Centre Pompidou curata da Cécile Debray, Rémi Labrusse e Maria Stavrinaki.

Empreinte des mains de l’artiste (Kandinsky, 1926).

Quando aprii gli occhi vidi l’Aleph.
«L’Aleph?» ripetei.
Sì, il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli […]. Come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia?
JorgeLuis Borges

Come trasmettere “agli altri” l’immagine lontanissima dell’Aleph della storia, dell’origine del tempo della terra e dell’uomo, delle caverne e degli abissi del nostro mondo, dove si trovano già da sempre, in potenza, senza confondersi, tutti gli spazi e tutti i tempi? Nessuna memoria, neanche la più audace, può spingersi laddove è impossibile ricordare, in quel momento che precede la storia, in quel luogo dove nulla è stato scritto.

La preistoria è tra le più enigmatiche e potenti invenzioni della modernità per dare forma e durata al terrificante “silenzio eterno di questi spazi infiniti”. Così Odilon Redon, citando Pascal, nel 1870 traccia i contorni muti e pietrosi del tempo geologico impresso nelle montagne, disegnandovi attorno le sagome nembose di tutto ciò che precede la fossilizzazione di questo stesso tempo: l’incalcolabile sproporzione della natura e del cosmo.

«La preistoria è un’invenzione del XIX secolo». Con questa sentenza si apre il libro, stratificato, spesso e profondo – come il tempo che precede l’invenzione della scrittura –, della storica dell’arte Maria Stavrinaki. Saisis par la préhistoire. Enquête sur l’art e le temps des modernes (Catturati dalla preistoria. Un’indagine sull’arte e il tempo dei moderni), pubblicato quest’anno per Les presses du réel, è un labirintica investigazione sul tempo lunghissimo dell’uomo, della terra e dell’arte condotta all’epoca dei moderni, che non solo non sono mai stati moderni, ma guardano alla preistoria come chimerica origine della cultura moderna e contemporanea.

Una ricerca sugli usi concettuali e artistici della «modernità preistorica» che smarcandosi da un’idea estetizzante di «primitivismo», nutrita tanto da una logica oppositiva fondata sul particolarismo dell’alterità, quanto da un orientamento anti-classico, anti-moderno e anti-europeo (Stavrinaki 2019, p. 24), focalizza al contrario la sua riflessione sulla temporalità universale, illimitata, opaca, non lineare, e potenzialmente sempre presente, della preistoria. Un saggio sulla «storia della modernità che, reinventando continuamente la preistoria, inventa costantemente se stessa» (ivi, p. 12). Una modernità che riposa sul letto dell’abisso e si rigenera ad ogni choc e sorpresa innescata dal risorgere de familiarizzante di un tempo perduto, mai ritrovato, sempre reinventato.

Il tempo della preistoria è un tempo elastico, e l’età della Terra un lasso impenetrabile. All’epoca dei moderni, cosmologi e naturalisti come Buffon avevano già intuito che la Storia naturale nel XVIII secolo doveva avviare un processo di metaforizzazione del tempo flottante e incalcolabile della Terra per costruire un racconto dell’origine in grado di prendere il posto vacante lasciato dalle Sacre Scritture. Un tempo flessibile, esteso a dismisura per approssimarsi il più possibile alla realtà del tempo scolpito nella natura, e, simultaneamente, accorciato a misura d’uomo per conformarsi alle possibilità limitate dell’intelletto umano. Il termine preistoria, ricorda Stavrinaki, è un’invenzione retorica, una metafora dell’incommensurabile, che nomina una serie di scoperte materiali: strati geologici, artefatti simbolici, fossili di piante, animali e uomini.

Forgiata attorno agli anni trenta dell’Ottocento da alcuni archeologi scandinavi per indicare l’età dell’uomo prima della storia, e la disciplina che la studia, solo a partire dal 1860 la nozione di preistoria si è fissata definitivamente nel lessico scientifico. Sono gli anni in cui Charles Darwin pubblica On the Origin of Species (1859), Charles Lyell, tra i fondatori della geologia moderna insieme a James Hutton, pronuncia davanti alla British Society for the Advancement of Science il suo discorso On the Occurrence of Works of Human Art in Post-Pliocène Deposits sull’antichità dell’uomo attestata dalla geologia, l’antropologo John Lubbock inventa la suddivisione della preistoria in “paleolitico” e “neolitico”, pubblicando nel 1865 a Londra Pre-historic Times, as Illustrated by Ancient Remains and Manners and Customs of Modern Savages.

Tre momenti indissociabili hanno marcato l’emergenza e la migrazione dell’idea di preistoria nei differenti territori delle scienze umane: la presa di coscienza del tempo profondo, eccessivamente lento, della vita terrestre; la consapevolezza dell’esistenza di un’antichità dell’uomo, di una “preistoria umana”, tanto dal punto di vista della specie, che da quello della tecnica e degli artefatti; la scoperta, a cavallo tra il XIX e XX secolo, delle più antiche gallerie d’arte del mondo, quei complessi di caverne che hanno dissigillato il dinamismo magico delle pitture e delle incisioni parietali risalenti al Paleolitico superiore, che ornano i cunicoli calcarei dei siti di Altamira in Cantabria, le grotte di Lascaux in Dordogna e quelle di Chauvet-Pont d’Arc nelle gole dell’Ardèche.

Stavrinaki cerca nella preistoria l’enigma della modernità, leggendo le opere d’arte parietali come fossero dei freudiani “notes magici”, macchine capaci di trattenere per millenni le tracce delle immagini incise, prodigiosi taccuini minerali custoditi nelle profondità della Terra e custodi a loro volta dell’inconscio visivo dell’umanità.

Con una rappresentazione orografica del tempo geologico, da quello ripiegato nelle vette della montagna di Sainte-Victoire di Cézanne a quello cristallizzato nella roccia di Redon, si è aperta la mostra Préhistoire. Une énigme moderne, a cura di Cécile Debray, Rémi Labrusse (autore del recentissimo Préhistoire. L’envers du temps,Hazan 2019) e Maria Stavrinaki, appena conclusa al Centre Pompidou di Parigi. Realizzata in collaborazione con il Muséum national d’histoire naturelle, il Musée d’archeologie nationale e il Musée national de la préhistoire, la mostra parigina è uno scavo archeologico in una Terra incognita, una stratificata esplorazione di tempi e visioni, così lontani e così vicini, in cui la freccia del tempo s’inverte in ogni sala.

La preistoria si trasforma così, di sezione in sezione, in un viaggio nel tempo, una lezione di filosofia della storia, una mostra d’arte moderna e contemporanea, una spedizione geologica, un discorso di archeologia dei media, un manuale immersivo di “cartografie potenziali” (per evocare il sottotitolo di Terra Forma, il prezioso atlante sperimentale recentemente pubblicato in Francia da Frédérique Aït-Touati, Alexandra Arènes, Axelle Grégoire per le edizioni B42). La coincidenza anacronica tra un mondo scomparso e un futuro apocalittico, tra una “prima natura” immaginata come un giardino degli inferi attraversato da dinosauri e una “seconda natura” popolata da macchine emancipate dai loro creatori, è stata segnalata sin dalle prime opere scelte in mostra per abitare l’incubo senza tempo di una “terra senza uomini”.

La collisione tra l’arte moderna e il suo passato preistorico (geologico e paleontologico) è così al centro della preistoria come arcano della modernità. Due tra i più autorevoli e dibattuti tentativi di mostrare gli effetti di un’iconografia “preistorica” nell’arte moderna e contemporanea sono stati realizzati nel corso del Novecento dal MoMA di New York. Il primo nel 1937, con la mostra Prehistoric Rock Pictures in Europe and Africa, from Material in the Archives of the Research Institute for the Morphology of Civilization, e il secondo nel 1984 con “Primitivism” in 20th Century Art: Affinity of the Tribal and the Modern. La mostra Préhistore.

Une énigme moderne ha adottato invece tutt’altra strategia. Rivoluzionando il moto della volta celeste occupata dalle esposizioni precedentemente realizzate sul tema, ha collocato il tempo-elastico della preistoria al centro di un sistema espositivo attorno a cui orbitano le opere d’arte, non più selezionate per la loro alterità geografica e culturale, ma per la loro capacità di migrare in un tempo fluido. Tra i “cattivi profeti” novecenteschi di questo spostamento, dalla messa in opera del negativo da parte del primitivismo, alla regressione infinita verso il tempo lungo della preistoria, figura giocoforza Georges Bataille e il suo Lascaux et la naissance de l’art (1955).

Lo scontro tra i fossili, i manufatti e le sculture paleolitiche (come l’antichissima Venere di Lespugue, scolpita in avorio e danneggiata al suo ritrovamento nell’Alta  Garonna  pirenaica  francese all’inizio degli anni venti) con le opere di Joseph Beuys, Louise Bourgeois, Brassaï, Jean Dubuffet, Marguerite Duras, Lucio Fontana, Alberto Giacometti, Yves Klein, Fernand Léger, Joan Mirò, Henry Moore, Pablo Picasso, da un lato, e l’incontro tra le statue Menhir erette durante il Neolitico (intorno alla seconda metà del III millennio a. C.) con le sculture di Land Art e Earth Art degli anni sessanta e settanta (su tutti Robert Morris, Carl Andre, Richard Long e Robert Smithson), dall’altro, rendono il tempo della storia dell’arte sempre più denso e sempre meno duttile: un solido blocco di durata impossibile da stendere su una linea cronologica.

Colpito dall’immobile estensione del passato geologico, Smithson è tra i primi a immaginare una “speleologia” del cinema. Al di là di ogni possibile archeologia del medium cinematografico, all’inizio degli anni settanta Smithson ipotizza attraverso alcuni suoi disegni il luogo d’origine del cinema underground: le pareti della caverna come primo schermo preistorico di proiezione.

Il “presente preistorico” è stato così consegnato a una coreografia di lavori contemporanei: dai dinosauri dei fratelli Jake e Dinos Chapman, che si muovono liberi in un inferno di carta e bronzo che resiste da Sessantacinque milioni di anni a.C (2004-2005), all’Invasione di Mario Merz (1997-2000); dalla geologia fantastica creata nella serie di fotoincisioni di Tacita Dean (Quatemary, 2014), all’insieme di “Physautotypes”, BeforePresent II (2018), realizzati da Dove Allouche a partire da uno strato di suolo stalagmitico de la Grotta di Chauvet, per chiudere con il video (umano sempre meno umano), Human Mask (2014), di Pierre Huyghe dove una scimmia dalle sembianze umane sopravvive all’apocalisse in un Giappone post-atomico. Nel suo Saisis par la préhistoire, Stavrinaki ripercorre alcuni passi del trattato sulla Creazione di Edgar Quinet. «Noi sfuggiamo a noi stessi», scriveva nel 1870 l’autore di La Création. Ma l’infinito proiettato negli astri, e il tempo profondo inghiottito dalla Terra, non si trovano poi così lontani.

Riferimenti bibliografici
C. Debray, R. Labrusse, M. Stavrinaki, a cura di, Préhistoire. Une énigme moderne, catalogo della mostra, Éditions du Centre Pompidou, Paris 2019.
R. Labrusse, Préhistoire. L’envers du temps, Hazan, Paris 2019.

M. Stavrinaki, Saisis par la préhistoire. Enquête sur l’art e le temps des modernes, Les presses du réel, Dijon 2019.

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