
A disegnare il destino di una cultura ci pensa a volte la mancata fortuna di alcuni libri. Prendiamo il caso di Louis Marin. Se in questi anni la sua riflessione non fosse passata per lo più inosservata all’interno del dibattito sull’immagine, si sarebbe forse potuta evitare quella contrapposizione a volte manichea tra l’approccio visuale e il paradigma linguistico, che rappresenta uno degli assunti con cui in maniera semplicistica si sono voluti talora riassumere gli effetti della cosiddetta svolta iconica e dell’attenzione all’immagine che questa ha rianimato.
La forza di questo libro che ora l’editrice Casa di Marrani ha il merito di far uscire da un incomprensibile oblio del mondo editoriale italiano, risiede innanzitutto nel tentativo di superare ogni contrapposizione tra parola e immagine, colte invece nel loro intreccio costitutivo. Per Marin senza immagine non si dà letteratura, ma senza letteratura neppure l’immagine giunge a costituirsi come tale: narrazione e visione condividono un irrinunciabile tratto comune. Così la visibilità dell’immagine non è una caratteristica naturale, né attiene a un’evidenza di per sé manifesta, ma è dipendente dai segni linguistici. Al di qua o al di là della lingua un’immagine “non può che restare invisibile”. Ma a sua volta l’immagine attraversa i testi letterari, e in un certo senso non c’è letteratura che non sia percorsa dalle immagini. D’altra parte i testi trasformano in profondità le immagini che accolgono. Questo rapporto possiede una forza metamorfica. Dopo il loro incontro, né immagine né parola restano ciò che sono state. Ma una metamorfosi non può essere pensata semplicemente come deformazione, ossia come quella deviazione che si inscrive in una parola o in un’immagine già esistenti. Pensare la metamorfosi significa coglierla come quel processo che sta all’origine tanto dell’immagine quanto della parola. Assunta in questi termini la metamorfosi implica il modo con cui le singolarità accadono, ogni volta, in un intreccio unico e irripetibile tra parola e immagine.
Che Marin scriva delle Favole di La Fontaine o di Ovidio, del Narciso di Rousseau o di Michelangelo e di Pigmalione, oppure dei ritratti di re e di sovrani, le sue analisi si dedicano sempre a quelle tracce particolari che, al di là di qualsiasi modello di indagine o di schema prefissato, sono in grado di cogliere nella letteralità di un’immagine o di un testo lo spunto imprevisto per cogliere l’unicità di un caso. Parola e immagine rappresentano qui non termini interscambiabili e quindi sostanzialmente indistinti, ma due modi in cui le cose accadono. Di conseguenza sono anche due modi – entrambi irrinunciabili – dell’approccio filosofico.
Se l’immagine non è semplicemente “vista” in funzione di una capacità naturale, ma accade attraverso la costruzione che ne fa il racconto, è perché il linguaggio di un racconto (il riferimento è a La morte di Pompeo di Corneille) è capace di farsi “visione linguistica”. È proprio tale visione a strutturare un linguaggio e a spingerlo a costituirsi come ricerca costante e infinita di “un’immagine onnipotente”. Lo stesso narratore costituisce se stesso attraverso il ricorso all’immagine: quando assume la letteratura a testimone di un’epoca – poco importa se la storia che racconta è minore o maggiore – la sua autorità dipende dall’immagine o dalle immagini di cui è in grado di garantire la veridicità. “Ecco ciò che ho visto”: questa è la sua dichiarazione che si autorizza sì attraverso il linguaggio, ma unicamente in forza delle immagini che riporta da quel viaggio che è stata la sua vita, vera o fittizia che sia stata. Si autorizza come narratore solo in quanto si presenta come vedente.
Se vedere significa accettare l’immagine di qualcosa, è perché dall’immagine emana un “imperativo” che s’impone a chi guarda. Anche se il linguaggio non ha presa su ciò che guardiamo, l’immagine indicata sin dall’inizio come “ineffabile” scava nel linguaggio. Non è nient’altro che questo tratto ineffabile a costituire il vero contenuto di ogni visione. Ma è pur sempre questo stesso tratto ineffabile a voler essere detto, a esigere il dire. Fare esperienza del visibile consiste in questa tensione in cui qualcosa esige di essere vista e insieme detta, anche se ce ne mancano le parole.
Vedere l’immagine significa allora fondamentalmente fare esperienza di una potenza iconica. In quanto tale, essa non fa riferimento a un “oggetto originario”. O, meglio, questo oggetto può essere postulato, ma la cosa fondamentale è che esso manca poi sempre: è il referente assente di un processo o di un’esperienza in cui la cosa fondamentale è che le “potenze iconiche” divengono “forze discorsive”. Come dice Pascal nei suoi Pensieri, “una città, una campagna, da lontano sono una città e una campagna”. Quando poi ci si avvicini, la città e la campagna scompaiono per non lasciare spazio che a “case, alberi, tegole, foglie, erbe, formiche, zampe di formiche”, in un movimento infinito, di cui città e campagna non sono che i nomi. Non si trova nessun oggetto originario a cui fare ritorno. Eppure questo non vuol dire che l’immagine sia a sua volta originaria. Città e campagna si scompongono nell’infinità degli oggetti che la loro visione all’inizio negava al nostro sguardo. Alla fine dell’immagine non si trovano che dei nomi.
Questo significa che nella visione la mimesis non corrisponde alla realtà, ma unicamente al fantasma di se stessa. Se sta sullo stesso piano del fantasma, è perché la mimesis non può essere la facoltà riproduttiva con cui assicurarsi l’apparenza di una cosa, mediante una riproduzione che ne imiti i tratti. Non solo essa è sin da sempre abitata dalle fantasie che vivono nello spettatore che guarda, ma anche nell’artista che ha eseguito il quadro. Per fedele che sia, nessun ritratto sarà mai in grado di svolgere una funzione di esorcismo nei confronti di fantasie, fantasmi, allucinazioni, e anche nei confronti degli stessi desideri che abitano gli sguardi dei presenti come degli assenti, dei contemporanei come dei posteri.
Aver ridotto l’immagine a “un decalco, una copia, una cosa seconda in condizione di minor realtà” e allo stesso tempo a uno “schermo davanti alle cose” ha voluto dire negarsi la constatazione per cui ogni visione è l’habitat naturale del fantasma, del desiderio, della memoria. Lo dimostrano i numerosi episodi di scambio di persona, anche quando riguardano personaggi famosi e re. Così è il desiderio del re perduto che nel racconto che ne fa Pascal “produce la sua rassomiglianza” su un tale, un naufrago, un uomo qualsiasi. Anche qui l’oggetto non esiste se non come “supporto” del desiderio, evocato esso stesso dal desiderio, fatto esistere e comparire non perché abbia vita propria, ma unicamente come pretesto. È dunque l’immagine a produrre i suoi fantasmi, ad attirarli il più vicino possibile a sé. Il sembiante non dimostra niente, nemmeno se stesso. Semplicemente (si) espone allo sguardo altrui e alle altrui fantasticherie. Questo malinteso che appartiene alla vista, appartiene anche alla lingua. È uno stesso fantasma che precorre tutte le nostre immagini e tutte le nostre parole. Se rimarca la potenza assoluta dell’immagine, è perché assume appunto il malinteso che la abita, lo iato tra ciò che il naufrago pensa (“io [non] sono [che] il ritratto del re”) e ciò che gli altri dicono (“tu sei davvero il nostro re che si era perduto”). L’immagine realizza una composizione logicamente impossibile, che non manca tuttavia di avere effetti reali.
Cosa ne è di noi vedenti al cospetto di questa potenza dell’immagine? Da un lato vediamo un oggetto ma unicamente grazie alla luce che lo rende ai nostri sguardi (e questa luce abbiamo visto poter essere per Marin quella del racconto). Eppure è anche vero che non c’è pura luce, una vuota condizione del vedere che precederebbe l’apparizione dell’oggetto e ne costituirebbe la condizione di visibilità. Un’immagine è piuttosto il luogo di congiunzione di luce e oggetto. Là questi non solo appaiono, ma soprattutto accadono insieme, finendo per coincidere l’uno con l’altro. È “a partire da questa genesi della luce nell’immanenza delle cose che non solo si manifestano le forme e le figure”, ma che è anche possibile quella “conoscenza visuale” che permette di accedere al reale nella sua differenza e ricchezza. Questa conoscenza, annota Marin acutamente, pur “essendo muta per definizione, non può [però] essere senza discorso, senza inscrizione e senza descrizione”. Non può quindi non diventare “conoscenza condivisa”, quell’intelligenza in comune del reale che ci viene da tutte le nostre immagini.
Riferimenti bibliografici
L. Marin, Dei poteri dell’immagine, a cura di F. Agnellini, Casa di Marrani, Gussago 2017.