Ancora una volta si parla di Pinocchio, perché c’è sempre qualcosa che la storia di quel burattino sa dire meglio di tutte le altre. Come gli antichi miti greci, il racconto di Collodi ha un rapporto del tutto peculiare con il tempo: è —potremmo dire — fuori dalla storia (perché la sopravanza e le sopravvive) eppure è in grado di parlare agli uomini di tutte le epoche, per il tramite di chi, pur non essendo uomo, di un umano ha almeno le sembianze, e forse molto di più.

Pinocchio è, prima di ogni altra cosa, un romanzo sul senso della morte. Chiunque ne ricordi lo sviluppo lo sa. Per questa ragione, è così tanto affascinante per il cinema e per il modo specifico in cui il cinema non può, per certi versi, che mettere in scena la morte: una morte che non è mai definitiva, ma si ripete, ogni volta diversa, in tutti i film che vediamo. Allo stesso modo si moltiplicano, si dispongono una dietro l’altra, le cento, mille avventure di Pinocchio, ciascuna delle quali è la prefigurazione, l’anticipazione cioè, di una morte possibile.

In una prima versione, uscita a puntate su un giornale per ragazzi, il racconto — intitolato, in quel caso, La storia di un burattino — terminava al capitolo XV con la morte per impiccagione di Pinocchio: «Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito». Il grande successo ottenuto da Collodi spinge l’editore a chiedere che la storia continui. E la storia continua, anzi meglio smette di essere semplicemente una storia (con un inizio e una fine) e diventa Le avventure di Pinocchio. La revoca del primo finale consente al burattino di tornare in vita e originare un secondo romanzo che non è semplicemente la prosecuzione del precedente, bensì il suo inveramento, la sua «transvalutazione» (Garroni 2010).

Le avventure di Pinocchio include in sé La storia di un burattino che da parte sua, in un certo senso, determina la forma del nuovo romanzo, insieme “uno e bino”. È la morte negata del burattino a richiedere che Pinocchio diventi bambino, al termine della nuova storia: perché se un pezzo di legno non può morire (e la scelta di Collodi di dare seguito al racconto lo conferma), può farlo il bambino che gli si sostituisce. Se insomma Pinocchio diventa bambino è per poter morire e ridare la morte a quel burattino a cui invece era stata sottratta dal suo stesso autore. In questo senso, il secondo romanzo non è soltanto la continuazione del primo, ma piuttosto la sua attuazione più veritiera.

Le avventure di Pinocchio sono scandite, infatti, dalla successione ritmica dei ripetuti tentativi del burattino di scampare a una morte che è sempre in agguato, eppure ogni volta si nega, perché appunto un pezzo di legno non può morire. Solo nel momento in cui smette di avere paura della morte, il Pinocchio può diventare bambino, vivere, crescere e morire davvero. È l’atto di coraggio che compie quando porta il vecchio Geppetto fuori dal ventre del pescecane, affrontando le insidie del mare aperto, ad aprirgli la strada che lo farà diventare umano. È soprattutto l’accettazione della possibilità della morte, dunque, molto di più che la scuola (istituzione più costrittiva che educativa) e il lavoro, a permettere a Pinocchio di farsi carne, e assumere su di sé lo scorrere del tempo.

Diventando bambino, Pinocchio fa insomma, per il burattino che era, ciò che ha fatto per gli uomini il Dio del Nuovo Testamento, incarnandosi in Cristo e accettando di morire: mostrare che se c’è una vita, essa deve essere inscritta nella finitezza del tempo. L’ipotesi, condivisa da molta della letteratura critica, può forse sembrare troppo radicale, se non addirittura peregrina, ma è supportata, a ben vedere, dalla ricorrenza nel romanzo di moltissime figure bibliche, da quella di Giona nel ventre della balena, al vecchio padre falegname.

Dell’ultima versione cinematografica di Pinocchio, firmata da Matteo Garrone, in molti hanno riconosciuto e apprezzato il rigore filologico, l’attenzione alla lettera collodiana: ma è soprattutto nell’adesione allo spirito del testo di Collodi che risiede il senso più intimo di questa operazione recente di trasposizione. Il film di Garrone ha un merito soprattutto: riconoscere la complementarità, anzi di più la coappartenenza dei due romanzi, facendo sin dalla prima scena di Pinocchio un’entità ibrida, personaggio “bino” o in un certo momento addirittura “trino”, giocato nello spazio di un “tra” che qui significa coappartenenza, più che distanza o separazione. Pinocchio è burattino e asino e bambino.

Ora, credo di poter dire che questa precisa scelta rappresentativa abbia molto a che fare con il modo in cui il romanzo di Collodi, l’ho già ricordato, tematizza in maniera pressoché programmatica la questione della morte e il suo rapporto con il tempo della storia (che è come dire il tempo della vita), oltre che, ovviamente con il tempo del racconto e con la sua specifica forma narrativa. Quest’ultimo è scandito in una serie di episodi, ciascuno dei quali altro non è che un movimento di avvicinamento/allontanamento dalla morte.

Nel film di Garrone questo avvicendamento si dà nella successione di brevi quadri che replicano la natura episodica del romanzo di Collodi. È la strada che il regista sceglie di seguire per far sì che le parole di Collodi manifestino sullo schermo tutto il loro potere simbolico, che si dimostrino per ciò che essenzialmente sono: strumenti utili a dischiudere immagini potentissime, più potenti addirittura della storia che esse raccontano. Per due volte, non a caso, quella storia (ri)inizia esattamente laddove finisce: al termine del primo romanzo (a cui il secondo fa seguito) e in conclusione di quello ben più lungo (quando terminano le avventure di Pinocchio burattino e cominciano — senza che il lettore ne sappia più nulla — le avventure di Pinocchio bambino).

A una innegabile potenza visiva, ancor più che narrativa, Collodi (e con lui Garrone) affida la dimensione simbolica del suo racconto che ne consente un gran numero di letture possibili, dalla superfice del testo, alle profondità più nascoste. A tutte queste interpretazioni Garrone aggiunge la sua che consiste, forse, nella radicale rinuncia a ogni interpretazione. Piuttosto il film sceglie, come unico gesto ermeneutico possibile, una prospettiva, un angolo visuale preciso, in cui l’occhio del regista e del narratore sono più prossimi, forse addirittura indistinguibili.

Per questa via, Matteo Garrone può restituire a Pinocchio quell’anima gotica che lo rende praticamente un unicum nella letteratura italiana di fine Ottocento, in dialogo con la scrittura di Hoffmann e Poe. È attraverso la restituzione di certe atmosfere decadenti e lucubri (andate perdute in tante trasposizioni cinematografiche precedenti — da Walt Disney a Benigni, passando per Comencini) che qui torna a essere evidente come, nelle intenzioni di Collodi, Pinocchio fosse anzitutto una riflessione sul senso della morte. Il recupero di questo «romanticismo fantastico e nero» (Calvino 2014) è certamente l’elemento più riconoscibile di quest’ultimo Pinocchio.

La casina che biancheggia nella notte con alla finestra la fanciulla come un’immagine di cera che incrocia le braccia e dice: “Sono tutti morti…Aspetto la bara che venga a portarmi via”, a Poe sarebbe certamente piaciuta. Come sarebbe piaciuto a Hoffmann l’Omino di burro che guida nella notte il carro silenzioso […] (ivi, p. 174).

Se quelle di Calvino erano delle ipotesi più che plausibili, abbiamo le prove che la Fata Turchina, l’Omino di burro, i dottori conigli, il Gatto e la Volpe, siano piaciuti a Garrone che li sceglie come suoi personaggi, figure che provengono dalla penna di Collodi, ma che potrebbero essere venuti fuori da L’imbalsamatore (2002) o da Dogman (2018). Una conferma ulteriore del fatto che, dal momento stesso della sua prima uscita, Pinocchio non ha mai smesso di parlare la lingua, trasfigurata e simbolica, della realtà. Una lingua solo sua, che lo ha trasformato in un mito senza tempo, e che però suona contemporanea ogni volta che si mette a battere e a parlare: questa volta, ancora una volta.

Riferimenti bibliografici
I. Calvino, Ma Collodi non esiste, in C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, Einuadi, Torino 2014.
E. Garroni, Pinocchio uno e bino, Laterza, Roma-Bari 2010.

Pinocchio. Regia: Matteo Garrone; sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Ceccherini; fotografia: Nicolaj Brüel; montaggio: Massimo Spoletini; musiche: Dario Marianelli; interpreti: Federico Ielapi, Roberto Benigni, Rocco Papaleo, Massimo Ceccherini, Marine Vacht, Gigi Proietti, Aida Baldari Calabria; produzione: Recorded Picture Company; distribuzione: 01 distribution; origine: Italia; durata: 125′.

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