Pink Floyd
Roger Waters. The Wall (Waters, Evans, 2014).

«It’s awfully considerate of you to think of me here», cantava Syd Barrett in Jugband Blues. Era il 1968, e questo brano, l’ultimo scritto da Barrett per i Pink Floyd, conclude l’album A Saucerful of secrets. In un video dell’epoca, il gruppo esegue la canzone con gli abituali vestiti floreali e alcuni semplici effetti psichedelici. Al centro c’è Barrett, che canta con lo sguardo sperso, in uno stato confusionale che lo aveva già condotto ai margini della vita del gruppo, da cui sarà costretto ad allontanarsi nello stesso anno per i frequenti episodi di alterazione mentale, tra gli stati catatonici durante i concerti, quando si fermava in silenzio davanti agli amplificatori per tutto il tempo, e le modifiche senza sosta degli accordi e delle melodie delle canzoni, impedendo di fatto le registrazioni in studio. A metà di Jugband Blues, senza nessi musicali con il resto, una melodia dell’Esercito della Salvezza, e allora le parole cantate da Barrett si rivelano per quello che sono: un commiato dal gruppo, ma al contempo la riflessione più lucida del progetto musicale che va sotto il nome di Pink Floyd: «And I’m much obliged to you for making it clear that I’m not here».

Per tutta la loro storia, i veri Pink Floyd sono indicati in qualcuno attualmente assente; in qualcuno che ne incarnerebbe la poetica, ma è stato allontanato, ha abbandonato il gruppo, o è morto. E da qui l’universo intermediale dei Pink Floyd si confronterà continuamente col tema dell’assenza, prima in forma più surreale, raccontando di personaggi disturbati che rubano vestiti per travestirsi (Arnold Layne), di gatti siamesi (Lucifer Sam), spaventapasseri (The Scarecrow) e gnomi (The Gnome), quindi addentrandosi nella piacevole insensibilità che oscilla tra l’anestetizzazione e il rifugio nostalgico nell’infanzia (Comfortably Numb), in un rapporto di fascinazione e compiacimento per la quieta disperazione, che nasce dal semplice scorrere del tempo (l’intero The Dark Side of the Moon) e confrontandosi a sua volta con l’assenza dei propri membri (Wish You Were Here, dedicato a Barrett; The Division Bell, sulle difficoltà di comunicazione con Waters, oramai separatosi dal gruppo; The Endless River, sorta di elegia funebre per lo scomparso Wright).

Che cosa significa proporre una mostra retrospettivaThe Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains, su una delle rock band più famose a livello planetario (ora al MACRO di Roma, fino al 20 maggio, dopo essere stata presentata con un repertorio più ampio al Victoria and Albert Museum di Londra), ma i cui resti mortali non possono farsi, come era stato per la mostra su David Bowie (Victoria e Albert Museum, 2013), indagine di costume e sguardo sul rapporto tra l’io e le sue maschere? La mostra è curata da Aubrey “Po” Powell, direttore creativo del gruppo, e prevedibilmente propone uno sguardo monumentale e al contempo archeologico sulla storia del gruppo. Si celebra una memoria, dissimulando i momenti più oscuri (l’estromissione di Syd Barrett e per alcuni anni di Richard Wright o le controversie legali sul possesso del marchio), in modo che in quella memoria il fan si ritrovi, potendo a sua volta celebrare la propria identità di cultore di un mito. La potenzialità critica di questo sguardo retrospettivo è messa da parte: i resti mortali, per il fatto stesso di essere, sono di per sé oggetto d’ammirazione, più che di interrogazione.

Per indagare la storia musicale del gruppo, può essere allora più utile il lavoro di archeologia musicale che i vari box set negli ultimi anni hanno proposto, da The Early Years 1965-1972 (27 dischi) alle edizioni Immersion dei dischi più celebri (The Dark Side of the Moon, Wish You Were Here, The wall), contenenti demo, versioni live, outtakes, inediti, in linea con quello che tutte le rock star di decenni passati stanno proponendo. Lo sguardo critico però emerge se interroghiamo la dimensione intermediale del gruppo, con la quale siamo spinti a confrontarci nel momento in cui riconosciamo la dimensione immersiva che la mostra costruisce attorno al visitatore. L’ambiente visivo e sonoro segue un percorso didattico, sottolineato dalla cadenza strettamente cronologica con la quale è raccontata la storia del gruppo. Questo significa che sonoramente l’ambiente ci accompagna dalle stralunate filastrocche e dalle sperimentazioni psichedeliche dell’epoca Barrett al muro sonoro degli anni di maggior successo, passando attraverso le forme aperte all’improvvisazione degli anni di Ummagumma (1969) e i tentativi orchestrali di Atom Heart Mother (1970).

Il modo con il quale questi ambienti sonori hanno interagito con la dimensione visiva può essere raccontato dal confronto tra due sezioni della mostra. Da una parte, la sala più attesa da molti visitatori, quella in cui campeggiano i gonfiabili di The Wall (1979), su tutti quella del maestro di Another Brick in the Wall, che racconta del tentativo più compiuto di opera rock, lì dove per album a volte musicalmente anche più riusciti, i Pink Floyd si erano limitati per i propri concerti alla preparazione di video o di effetti visivi, come il maiale gonfiabile di Animals (1977), che plana nel cielo. La natura intermediale di The Wall si chiarisce, ancor più che nei film tratti da esso (Pink Floyd The Wall del 1982 di Alan Parker; Roger Waters. The Wall del 2014 di Roger Waters e Sean Evans) nei concerti dedicati alla sua completa messa in scena: un muro che si costruisce mattone dopo mattone a separare il palco dal pubblico, fino a nascondere i musicisti, mentre si proiettano su quella parete scritte, immagini, effetti luminosi.

Il muro dovrebbe rappresentare il crescente senso di alienazione della rock-star planetaria, il cui rapporto con la massa dei suoi fan è speculare alla fascinazione dei popoli verso i capi politici carismatici. Quella che vorrebbe porsi come politicizzazione dell’arte, accusando il modello totalitario di relazione tra il soggetto che decide e la comunità, rischia però facilmente di rovesciarsi in un’estetizzazione della politica, lì dove la parodia del leader fascista (In the flesh) rischia di confondersi con l’ennesima esaltazione del divo musicale che arringa il suo popolo, con un’esibizione di potenza audio-visiva sempre più imponente e al contempo più “piacevole”, accompagnata da quella  semplificazione della complessità del reale, ridotta a schemi di carattere dualistico-manicheo (noi e loro), tipici di un linguaggio populista, che contraddistingue spesso il leader totalitario.

L’alienazione della rockstar si riflette così nell’alienazione dello spettatore, nella sua piacevole insensibilità che, per combattere la propria fascinazione per l’autorità, è sedotto dal carisma di colui che si nasconde dietro il muro, di colui che chiede un atto di fiducia nella sua presenza. A questa piena orchestrazione audio-visiva, si contrappone un video dei primi anni settanta, il film-concerto Pink Floyd: Live at Pompeii (1972). Allo spettatore a cui è negata la vista del divo, si contrappone, in una prospettiva che vuole rovesciare il concerto alla Woodstock, il concerto senza spettatori. Il set è quello delle rovine di Pompei, la musica quella di alcuni capolavori della fase più sperimentale, da Echoes a A Saucerful of Secrets o Careful With That Axe, Eugene; lavori nei quali si assiste a una continua riscrittura, a larghe sezioni improvvisate o a momenti di musica concreta. In questo caso, vi è però un vuoto visivo. Vi è una scena immota, fatta appunto di rovine e di fantasmi, sepolti sotto la cenere. Sembra di assistere allo sguardo degli assenti, che gravitano intorno a quel teatro. Sembra di assistere a un tentativo di dialogo dei Pink Floyd con quell’invisibile, con quegli spettatori assenti: ma non è lo spettatore proprio a essere il fantasma di una musica a sua volta ancora al di là da venire? Musica che nella sua rielaborazione continua si sottrae alla riproducibilità meccanica delle registrazioni, che possono soltanto alludere alla novità dell’evento performativo, distinguendosi così da quel teatro musicale, nel quale invece alla musica si chiede di riprodursi meccanicamente, senza variazioni, per poter essere orchestrata con gli effetti visivi.

La vertigine che può provocare tale lavoro sull’assenza audio-visiva era stata esplorata in un film, purtroppo assente dal materiale di repertorio proposto dalla mostra: Zabriskie Point (Antonioni, 1970). Mettendo da parte tutte le difficoltà di lavorazioni e la delusione dei Pink Floyd, che videro usata dal regista soltanto una parte minima del materiale registrato, il finale del film si propone come la scena esemplare di un’orchestrazione intermediale di una composizione dei Pink Floyd. Non casualmente il brano dalla struttura più aperta, Careful with That Axe, Eugene, qui con un titolo anche diverso, Come in Number 51, Your Time Is Up; brano che dal 1968 al 1973 ha continuamente variato quello che è un semplice crescendo, giocato su un unico accordo. La giovane protagonista vede-sogna-prevede la villa del suo datore di lavoro (e amante) esplodere: i mille oggetti del nostro mondo anestetizzato volteggiano nell’aria, tavolini da soggiorno guardaroba televisione libri frigoriferi cibo surgelato. Come in Number 51, Your Time Is Up, come ripeteva l’umorista inglese Gerry Mulligan agli altri comici che dovevano concludere i propri sketch, come appunto gli affitta-barche a coloro che dovevano terminare il proprio giro. Sta allo spettatore decidere se l’allucinazione della giovane sia soltanto una forma di risarcimento narcisistico, che prelude a una piacevole insensibilità, capace soltanto di illusorie fughe utopiche, o se quello sguardo piuttosto permetta di riconoscere l’infondatezza, l’assenza di necessità, che il mondo si riduca alla totalità degli oggetti di consumo. «And what exactly is a dream? And what exactly is a joke?» (Jugband Blues).

Riferimenti bibliografici
A. Besselva Averame, Pink Floyd. The lunatic. Testi commentati, Arcana, Roma 2009.
V. Broackes, a cura di, Pink Floyd. Their mortal remains, Skira, Milano 2017.
R. Calabretto, Antonioni e la musica, Marsilio, Venezia 2012.
F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1974.

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