Nel 2016 uno dei più grandi narratori del nostro tempo, James Ellory, pubblicava un volume particolare, Un anno al vetriolo, Los Angeles Police Department 1953. Non un romanzo ma un libro fotografico (pubblicato da Contrasto) in cui l’autore di capolavori come Dalia nera (1987), L.A. Confidential (1990), American Tabloid (1995), per citare solo i titoli più noti, commentava le fotografie dell’archivio dell’LAPD appartenenti appunto al 1953. Uno degli anni più insanguinati della storia di Los Angeles, ricco di efferati e sanguinosi omicidi. Efferato come sarà qualche anno dopo, nel 1958, l’omicidio della madre, il trauma che indirizzerà poi tutta la sua vita, come racconterà in I miei luoghi oscuri (1997).

Ora sono gli archivi di una rivista messicana di cronaca nera (nota roja), “Alerta”, a costituire il caso di studio dell’ultimo libro del fotografo/studioso Joan Fontcuberta. Un’operazione di lavoro sui materiali d’archivio praticata da molta fotografia contemporanea e da Fontcuberta stesso.

In questo tipo di informazione si dice che “se non c’è sangue, non c’è notizia”. La nota roja concede quei cinque minuti di fama vaticinati da Andy Warhol a degli individui, fino a quel momento anonimi e sconosciuti, per il semplice fatto che hanno commesso un qualche reato scabroso oppure di esserne stati vittima. […] Da un lato, ciò alimenta il morbo, e dall’altro funziona come sistema di regolazione o di adattamento a una violenza che può essere surrettizia ma che è presente ed è tanto reale quanto la vita stessa. Svolge anche ruolo di balsamo consolatorio rispetto alle miserie quotidiane: dimostra che, per quanto ci auto-compatiamo, c’è sempre qualcuno ancor più disgraziato di noi (Fontcuberta 2023, pp. 81-82).

La cronaca nera quindi come luogo privilegiato in cui mostrare il farsi racconto del quotidiano. Un quotidiano che per accedere però a rappresentazione e farsi narrazione deve aderire e rinviare a strutture archetipiche, mitiche, a forme generiche facilmente riconoscibili dal pubblico (fatti capaci di generare angoscia ma al contempo rassicurarci, secondo la teoria della catarsi aristotelica). Pensiamo a quanto spazio questo tipo di racconto ha per esempio nella nostra televisione, anche in programmi che non rientrano propriamente nella sfera dell’informazione (nei cosiddetti infotainment, che mescolano appunto informazione e intrattenimento), collocati in diverse fasce di palinsesto (dal pomeriggio alla seconda serata). II fatto criminale viene immerso in un universo narrativo, con le sue regole, i suoi tempi. Viene serializzato e genera fidelizzazione. Una tendenza che dal caso Montesi in poi, progenitore di tutto questo, arriva fino ai tanti esempi che quotidianamente troviamo sui nostri giornali e schermi tv.

Ma l’analogia che lega la fotografia al crimine potrebbe continuare assimilando, come fa lo stesso Fontcuberta, il fotografo al ghigliottinatore. Come accadeva in Francia alla fine del XIX secolo in cui l’esecuzione della pena capitale tramite ghigliottina era messa in atto da un esecutore principale (colui che azionava materialmente la leva) e da due assistenti. Il primo tra questi aveva come compito di afferrare la testa del condannato tra le mani e trasferirla in un cesto. E questi era detto, appunto, “il fotografo”.

La missione del fotografo era “tirer le portrait”, fare il ritratto di qualcuno, scattare a qualcuno la foto al fine di immortalare un momento, o di immortalare la morte stessa. “Tirer le portrait”, però, significa anche tirare, afferrare o tenere il viso. Ritrovarsi con un viso tra le mani costituirebbe la modalità più iperrealista di ritratto (ivi, p. 86).

E ancora prima era stato Walter Benjamin a sottolineare questo legame quando descriveva le fotografie di Atget come immagini “della scena del crimine”: fotografie prive della presenza umana e della sua azione ma in cui qualcosa sembrava essere accaduto. Crimine e fotografia perseguono un identico obiettivo ideale, quello dell’oggettività.

Ora, qua sta il punto della speculazione fotografica di Fontcuberta con la sua “desacralizzazione” di quel “ça-a-étè” (“È stato”) barthesiano che costituirebbe per il filosofo francese il noema della fotografia, l’attestazione di una presenza fisica che la fotografia porta sempre con sé, come scrive in La camera chiara pubblicato nel gennaio del 1980 dopo la morte della madre (ancora la morte di una madre) e poche settimane prima della sua stessa morte (la fotografia è sempre un corpo a corpo con la morte): “In ogni fotografia che si fa vanto di iscriversi nella storia, – commenta Foncuberta – collettiva o personale, autentica o posticcia, risuona il ça-a-étè come un mantra fenomelologico, una litania che potrebbe ben concludersi con la supplica “Niépce, ora pro nobis” (ivi, p. 94).

La tesi di Fontcuberta, argomentata in un volume la cui struttura prevede una sorta di organizzazione in tre atti (un primo e un terzo atto con più di 100 fotografie tratte appunto da “Alerta” e un secondo con il testo vero e proprio), è che la fotografia è sempre “immagine-finzione”:

L’immagine antitetica alla referenzialità barthesiana: quella che è portatrice e trasmettitrice del potere di comporre mondi, quella che si riconosce come manipolazione, non solamente in relazione alla sua produzione tecnica come immagine, ma anche in relazione ai discorsi che può comportare, alla realtà a cui fa riferimento e al mondo che si presta a rendere visibile. L’immagine-finzione, in definitiva favorisce il pensiero e la creazione di un mondo attuale più plurale e meno circoscritto a un’interpretazione empirica limitata” (p. 126).

Ecco che il corpus fotografico scelto da Fontcuberta in cui si ripete una medesima azione, una persona che segnala con il dito indice (in una letteralizzazione dell’idea peirciana del segno fotografico) un albero, un foro di proiettile, un livido su un occhio e così via, diventa prima che un documento relativo alla realtà, un documento relativo alla propria natura ambigua di immagine. Un’operazione metalinguistica che svela quella doppia natura che in definitiva appartiene ontologicamente all’immagine, fotografica ma anche cinematografica. Un carattere duplice dell’immagine che un altro studioso francese, Andrè Bazin, nella sua grande riflessione sul rapporto tra realtà e immagine, ha inquadrato in tutta la sua densità. L’immagine fotocinematografica è sempre simultaneamente un calco del mondo, indice di una presenza concreta posta dinanzi all’obiettivo (ça-a-étè) ed espressione di un linguaggio, trasfigurazione estetica, simbolo di quel dato reale. L’immagine nel momento stesso in cui registra il dato reale lo deforma, lo trasfigura. È animata da un’istanza di documentazione e nello stesso tempo di finzionalizzazione.

Se questo è vero per l’immagine analogica lo diventa ancora di più per quella digitale. Lo scriveva Marcello Walter Bruno:

Se la fotografia analogica poteva essere intesa come “emanazione del referente” (ma c’è dell’animismo nella terminologia di Barthes), la fotografia digitale è innanzitutto emanazione della potenza di calcolo; se dunque nella foto barthesianamente intesa la pipa è sempre una pipa, l’immagine informatica ripristina il motto Ceci n’est pas une pipe (Bruno 2022).

Barthes, ora pro nobis.

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003.
M.W. Bruno, La fotografia ti tradirà, in “Fata Morgana Web”, 7 marzo 2022.
J. Ellroy, Un anno al vetriolo,Los Angeles Police Department 1953, Contrasto, Roma 2016.
J. Fontcuberta, Il bacio di Giuda. Fotografia e verità, Mimesis, Milano-Udine 2022.

Joan Fontcuberta, Contro Barthes. Saggio sull’indice, Mimesis, Milano-Udine 2023.

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