L’ultimo film di Mike Leigh ricostruisce un avvenimento storico poco conosciuto fuori dal Regno Unito. Siamo nel 1819, quando l’esercito inglese, appoggiato dal governo, dalla magistratura e dalle istituzioni locali, soffoca nel sangue una manifestazione pacifica tenutasi presso il St Peter’s Field a Manchester. Sono 60 mila i dimostranti accorsi in strada per chiedere riforme democratiche e diritti di rappresentanza. I manifestanti vengono dispersi, in pochi minuti, da un intervento militare così violento da lasciare sul campo decine di morti e centinaia di feriti. Grazie alla presenza di alcuni cronisti, tra cui gli inviati del “Manchester Observer” (antenato dell’attuale “The Guardian”) e del “Times” di Londra, l’episodio – denominato il «Massacro di Peterloo» per evocare la disfatta napoleonica di Waterloo – ottiene una grande risalto nel paese, tanto da spingere il primo ministro del tempo, Lord Liverpool, a promuovere leggi che vietano le assemblee di piazza e prevedono l’arresto di militanti e giornalisti che diffondono idee considerate sovversive (Riding 2018).
Fin dalle prime battute della pellicola, emergono prepotentemente le connessioni con episodi più recenti della cronaca storico-politica, come se esistesse un filo rosso che lega quel massacro verificatosi agli albori della società capitalistica con le molte repressioni successive (non solo nella perfida Albione): medesime sono le condizioni di indigenza e di sfruttamento che motivano la rabbia popolare, medesimi gli interessi delle lobby di potere o di chi piega al tornaconto personale i doveri delle istituzioni, medesima è l’impreparazione cronica dei tutori della legge che si affidano alla protervia delle armi per reprimere ogni istanza che giunge dalle piazze.
E tuttavia, a differenza di altri esempi analoghi dove si cerca una partecipazione emotiva da parte dello spettatore (un titolo per tutti: Bloody Sunday di Paul Greengrass, 2002), Peterloo si dipana con un andamento lento e a tratti irritante, piatto e respingente, quasi a voler cercare un modello consapevolmente anacronistico di ricostruzione storica. Lo si evince dalla lunga durata del film (più di due ore e mezza), dai toni algidi, quasi entomologici, della narrazione (non esiste una vera e propria progressione drammatica, ma una sorta di spoglio resoconto di micro-episodi che conducono al tragico epilogo), da un manicheismo assiologico così netto tra personaggi e classi sociali da impedire ogni forma di empatia.
Dentro tale schema rigido e inospitale, può essere utile rileggere il film alla luce di alcuni contributi dalla teoria del cinema perché capaci di risemantizzare la portata dell’operazione leighiana. Penso in modo particolare ad alcune pagine de L’uomo visibile, scritto da Béla Balázs nel 1924, cui riecheggia una distinzione che ritroveremo nella sua plasticità anche in Peterloo. Scrive il pensatore ungherese:
Dopo l’invenzione della stampa, la parola è divenuta il principale canale di comunicazione tra uomo e uomo. L’anima si è raccolta e cristallizzata nella parola, ma il corpo si è spogliato dell’anima e senz’anima è vuoto. […] Nella civiltà della parola l’anima così facilmente percepibile [nell’arte antica] è diventata quasi invisibile. Questo ha provocato l’invenzione della stampa! Ora il cinema sta imprimendo una nuova svolta al corso della civiltà. Milioni di uomini siedono ogni sera davanti allo schermo e attraverso gli occhi rivivono vicende umane, caratteri, sentimenti e stati d’animo senza aver bisogno delle parole. Tutta l’umanità sta oggi tornando ad apprendere il linguaggio dimenticato della mimica e dei gesti. L’uomo tornerà di nuovo visibile […]. Il linguaggio gestuale è la vera madrelingua dell’umanità. La cultura della parola è immateriale, astratta, intellettualizzata: è una cultura che ha degradato il corpo umano a semplice organismo biologico. Ma il nuovo linguaggio gestuale che sta nascendo scaturisce dal nostro doloroso stringente desiderio di poter essere uomini con tutto quanto il nostro corpo, da capo a piedi e non solo con le parole. Anche l’uomo interiore diventerà visibile (Balázs 2008, pp. 124-125).
Per Balázs, dunque, l’invenzione della stampa e la prevalenza di una comunicazione intersoggettiva di tipo verbale hanno prodotto, nel corso dei secoli, una progressiva perdita di materialità dei corpi, o meglio una loro sclerotizzazione (la dissoluzione dell’anima interiore) che solo l’avvento del cinema ha consentito di riparare, dischiudendo al senso il valore della gestualità e della fisionomia del volto e riposizionando al centro la sfera del visibile (e del tattile) rispetto a quella del dicibile. Per via della sua diffusione in ogni classe sociale e in ogni quadrante di mondo, aggiunge Balázs, l’esperienza cinematografica massificata impone una relazione prelinguistica e preverbale con il significato, secondo una convinzione che è propria di altri pensatori a lui contemporanei come Epstein ed Ėjzenštejn, affascinati per esempio dalle culture animiste o primitive (Cervini 2010, Wall-Romana 2016) e che anticipa, di svariati decenni, gli approcci di ambito fenomenologico e/o neuro-scientifico volti a corroborare la dimensione aptica o incarnata delle immagini (Sobckack 2006, Marks 2000).
Come anticipato, il dipanarsi di Peterloo ricorda, per così dire, il pendolarismo balázsiano. Nelle prime due ore il racconto procede attraverso l’affastellarsi di discorsi e di verbosità di ogni sorta: da parte dei militanti radicali che organizzano la protesta; da parte della classe politica, della magistratura e delle lobby che cercano in tutti i modi di impedirla; da parte delle famiglie operaie impoverite che si organizzano per sopravvivere a una rivoluzione industriale che sfrutta pervicacemente la loro manodopera. Più in generale le parole abitano gli ambienti pubblici, privati e persino quelli naturali (si vedano le invettive dei capo-popolo tra le campagne incontaminate del North-West), riempiendo la bocca di ogni personaggio che incontriamo. Il contenuto di quelle esortazioni e di quelle arringhe suona spesso sordo nei confronti del reale e viceversa sensibile al fascino e alla vanità dell’arte retorica.
Primus inter pares è il radicale Henry Hunt che preme per un’assemblea pacifica, senza bastoni e fucili, con ghirlande di alloro e bambini in prima fila, contribuendo così indirettamente alla mattanza della popolazione convenuta. Non è un caso che la sua orazione in strada sia letteralmente inudibile ai 60 mila dimostranti presenti al St Peter’s Field. D’altra parte inudibile alla folla è anche la parola dei rappresentanti delle classi dirigenti, dal primo ministro ai giudici, anch’essi portatori di una posizione sediziosa, secondo la quale una siffatta adunata avrebbe dato l’abbrivio a un movimento sovversivo capace di abbattere la monarchia. Anche in questo caso, le parole vuote che vengono spese pongono le basi (e il consenso) per la soppressione della protesta con il sangue.
Nell’ultima mezz’ora, invece, «l’ordine dei discorsi» viene letteralmente spazzato via dall’irrompere degli «uomini visibili», come direbbe Balázs, o meglio delle masse, con i loro corpi, con i gesti di violenza subiti o perpetrati, con azioni così materiali (spezzare e condividere il pane, venire schiacciati dagli zoccoli dei cavalli) da apparire in-commentabili nella loro cruda rappresentazione. I corpi, insomma, irrompono sulla parola, mettendola a tacere. E se fino all’inizio del raduno, la macchina da presa di Leigh era riuscita a dis-piegare la sua presenza dentro i millepiani gerarchici della società inglese, nel bagno di sangue finale il montaggio a pezzi brevi, i piani ravvicinati, le urla e i rumori indecifrabili della folla, lacerano il tessuto narrativo senza alcuna possibilità di mediazione, unendo e dis-perdendo i gruppi sociali nello spazio pubblico della piazza, accentuando così l’impotenza dei concioni che li avevano aggregati, la retorica del senso che li aveva illusi.
Di più: emerge chiaramente come in assenza di un principio di organizzazione dei movimenti (un “montaggio delle attrazioni” avrebbe detto Ėjzenštejn), di un dispositivo – inteso sia in senso militare sia mediale – che dis-ponga resistenza e contrattacco o, per tornare ancora a Balázs, di un «nuovo linguaggio gestuale che […] scaturisce dal nostro […] stringente desiderio di poter essere uomini con tutto quanto il nostro corpo, da capo a piedi e non solo con le parole» (Balázs 2008), insomma in assenza del cinema o di suoi convincenti delegati, il privilegio della forza non può restare che nelle mani di pochi.
Da qui è un attimo evincere la necessità del conflitto sociale, ma in tempi di Brexit e di Gilets jaunes, anche l’esigenza di una sua gestione attraverso l’azione di «corpi intermedi» come i partiti, le organizzazioni sindacali, la Chiesa, le famiglie, corpi che sappiano ri-mediare avvenimenti altrimenti irruenti e distruttivi. Non nascondendo limiti e interessi di parte, il film decanta anche la funzione fondamentale della stampa e dell’editoria come promotrice di un’idea di democrazia partecipata e rappresentativa: è infatti grazie alla presenza dei giornalisti che il massacro non diventa uno dei tanti grandi rimossi della storia. E pur tuttavia, Leigh non dimentica di sottolineare, come grado zero della sua scrittura, il primato dell’uomo (visibile) sulla folla, specialmente se costui non ha voce in capitolo.
Si pensi alla figura straziante di Joseph, giovane trombettiere che sopravvive miracolosamente alla battaglia di Waterloo, unico personaggio che non proferisce mai verbo, che gira per Manchester con la sua vecchia uniforme sia quando cerca invano un lavoro, sia quando, frastornato e disorientato, si ritrova al centro del St. Peters’ Field. Ecco, il ragazzo, finito nel mezzo della carneficina, è vittima designata e puntualmente infilzata da un altro soldato di cavalleria. Il suo sacrificio, però, pone in essere un auspicio di ordine salvifico: l’auspicio di una corrispondenza tra parola e corpo, tra interiorità ed esteriorità, tra individuo e comunità o meglio ancora tra i diritti del singolo e quelli della collettività. Senza la garanzia di rappresentanza degli uni come degli altri il rischio è che altre Peterloo si ripetano in futuro e che i tanti Joseph convenuti inavvertitamente al centro della piazza continuino a indossare sempre l’uniforme sbagliata.
Riferimenti bibliografici
B. Balázs, L’uomo visibile, Lindau, Torino 2008.
A. Cervini, La ricerca del metodo. Antropologia e storia delle forme in S. M. Ejzenštejn, Mimesis, Milano 2010.
U. Marks, The Skin of the Film: Intercultural Cinema, Embodiment and the Senses, Duke University Press, Durham 2000.
J. Riding, Peterloo: The Story of the Manchester Massacre, Head of Zeus, Londra 2018.
V. Sobchack, Carnal Thoughts: Embodiment and Moving Image Culture, University of California Press, Berkeley 2004.
C. Wall-Romana, Jean Epstein: Corporeal Cinema and Film Philosophy, Oxford University Press, Oxford/Londra 2016.