Un volto primeggia nei titoli di testa. Delle tende rosse, come quelle di un sipario, si spalancano invitando lo spettatore ad entrare. Per il pubblico cinefilo, l’uomo dei titoli di testa è immediatamente riconoscibile. Si tratta del regista Rainer Werner Fassbinder: un volto che è una dichiarazione d’affetto, di assoluta venerazione. Il regista tedesco è una sorta di fratello maggiore per François Ozon, una guida nel modo di guardare al mondo: «Fassbinder m’a aidé à devenir celui que je suis» dichiara il regista in un’intervista dopo l’uscita del suo film. Il Peter Von Kant (2022) di Ozon deve molto a Le lacrime amare di Petra von Kant (1972) di Fassbinder, film tratto da una sua precedente opera teatrale. Inoltre, bisogna ricordare come già con Gocce d’acqua su pietre roventi (2000), Ozon si sia confrontato con un’opera fassbinderiana, tratta anche questa da una pièce teatrale intitolata Come gocce su pietre roventi.

Cosa rende così vicini Fassbinder e Ozon? In primo luogo, nel loro modo di lavorare emerge una sbalorditiva produttività: se Ozon ha già diretto ventidue lungometraggi, Fassbinder, deceduto a soli 37 anni, è stato capace di produrne ventiquattro. Probabilmente, anche per Fassbinder sarebbero state valide le parole di Ozon, per le quali, nessun film è un fallimento: si tratta di tentativi che vanno sempre considerati all’interno di tutta la filmografia dell’autore. Per i due cineasti bulimici, nessun film è un fallimento, perché ciascun film è un’ossessione: è la concretizzazione nel finzionale dello straripante immaginario individuale che richiede urgentemente d’esser gettato fuori. «Se fosse possibile girerei tutte le mattine una scena, la monterei il pomeriggio e ricomincerei il giorno dopo. D’altronde amo i cineasti bulimici, i cui film non sono tutti riusciti, ma che hanno una vera linea di ricerca, come Fassbinder o Chabrol» dichiara Ozon.

Il cinema di Ozon, dunque, è indissolubilmente legato al cinema, ma anche al teatro di Fassbinder. Nonostante Ozon costruisca delle strutture narrative sempre forti, il superamento del realismo per la caduta nel ridicolo, nel bizzarro e, in questo caso, nel teatrale, caratterizza il suo cinema. «Divertendosi, o in chiave metanarrativa, o criticamente, di film in film, Ozon adotta grossi “periodi” cinefili per calarsi all’interno di una tradizione (a volte teatrale, a volte letteraria) che ha inseguito i mutamenti dell’epoca fotografandoli in un nuovo assetto o in uno stato d’animo» (Moliterni 2016, p. 13). Basti pensare al caso di 8 donne e un mistero (2002) in cui il retroscena teatrale è esplicitato sia dalla recitazione delle interpreti che dalla messa in scena; oppure al film d’esordio Sitcom (1998), in cui, come anche nel caso di Peter Von Kant, è l’apertura di un sipario a dichiarare il carattere assolutamente finzionale della messa in scena.

Peter Von Kant riguarda a Petra Von Kant di Fassbinder, non solo per elementi narrativi (stessi nomi, numero di personaggi, caratteri, sequenze), ma soprattutto per l’impostazione nettamente teatrale ispirata ai kammerspiel: la recitazione da camera, in luoghi opprimenti e claustrofobici, provoca un’abissale distanza tra lo spettatore e gli attori che viene aumentata dall’inverosimiglianza delle pose, dei comportamenti, dei dialoghi.

La plasticità dei corpi (che nel film di Fassbinder condividono la scena con dei manichini) e l’accentuato cromatismo rendono artificiale la dimensione psicologica dei personaggi: penetrare le loro emozioni da così vicino (o forse da così lontano) infastidisce lo spettatore, fino a esasperarlo. Entrambi i film cercano la creazione di una dimensione delirante del dramma amoroso, facendo emergere gesti, espressioni e movimenti come se fossimo di fronte a diversi tableaux vivants. Bisogna notare, però, che a differenza del film di Fassbinder, Ozon cerca di stemperare il massacrante utilizzo della passione amorosa come strumento di esercizio del potere: l’ironia, le battute sottili che i personaggi si concedono, permettono un respiro maggiore rispetto alla dimensione mortifera della casa della stilista Petra Von Kant.

L’esasperazione che sperimenta lo spettatore è speculare a quella di Petra e di Peter: è la storia di un amore che finisce per trasformarsi in sottomissione del più debole, in un rapporto di dominazione. La sottomissione, però, non è solo quella subita dai protagonisti, ma anche quella dei due assistenti, rispettivamente Marlene e Karl. Il loro silenzio e l’inespressività li rende fantasmatici testimoni oculari delle vicende: sia Fassbinder che Ozon sfruttano il ticchettio della macchina da scrivere dei servi come evocazione del processo creativo in atto. Per Fassbinder il teatro era il processo creativo per eccellenza, mentre il cinema ne era il risultato: per Ozon il teatro, come il cinema, sono un’urgenza, una via d’uscita, un cambio di scena.

Riferimenti bibliografici
Le court métrage en France. La parole aux réalisateurs, in “Positif”, n. 432 (1997).
I. Moliterni, Questione di potere. Il cinema nel cinema di François Ozon, in INLAND. Quaderni di cinema, a cura di C. Bartolini, Edizioni Bietti, Milano 2016.
G. Moury, François Ozon à propos de «Peter von Kant», in  “Le Soir”, 2022.

Peter von Kant. Regia: François Ozon; sceneggiatura: François Ozon; fotografia: Manuel Dacosse; montaggio: Laure Gardette; musiche: Clément Ducol; interpreti: Denis Ménochet, Isabelle Adjani, Khalil Gharbia, Hanna Schygulla, Stefan Crepon; produzione: Canal+, France Télévisions; origine: Francia, Belgio; durata: 85’; anno: 2022.

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