Il mondo è un gran teatro e il politico il più grande degli attori. Una metafora che per quanto consunta rimane vera. A cui va aggiunto, quello che pensava Benjamin del potere, che incarna lo “spirito del tempo”. E con tale spirito che bisogna fare i conti per comprendere il presente e i suoi attori.
Trump non solo sta facendo quello che aveva detto in campagna elettorale, ma soprattutto lo sta mostrando, lo sta esibendo. Cioè sta esibendo un uso palesemente iniquo ed ingiusto del potere: mettendo le catene ai clandestini espulsi, dicendo cose non vere sulle guerre in corso, modificando la realtà.
Perché accade questo? Perché non solo c’è uso della forza, ma una esposizione palesemente arbitraria di tale uso? Perché tutto questo è accompagnato da gesti ed immaginario tipici dei regimi totalitari, nazifascisti, come il braccio teso nel saluto romano? Pur sapendo che nulla è più distante dalla democrazia americana di tale cultura, essendo gli Stati Uniti l’unica nazione – come già ci diceva Tocqueville – nata democratica.
Per capire questo, non vanno impiegate vecchie categorie, cioè quelle usate per comprendere il determinarsi di forme di vita storicamente e socialmente definite (sinistra-destra, totalitarismi vari). In fondo, tale impiego sembra un tentativo di resuscitare fantasmi a fini rassicurativi, cioè costruire un mondo riconoscibile perché ancora oggetto di categorie interpretative note. Il presente ci mostra qualcosa che sapevamo da tempo: che la lettura politica tradizionale non ci permette di capire ciò che accade, se svincolata da altro.
Tant’è che la posizione e l’azione di Trump, su una questione centrale come la guerra Russia-Ucraina, è anche la posizione di molta sinistra. Questa convergenza resta enigmatica con il lessico politico tradizionale. E forse anche dividere il mondo tra populisti che comandano e altri che arrancano non sembra oggi così pertinente. Netanyahu comanda e non è un populista.
Dunque, né categorie politiche, né tantomeno paradigmi ideologici, sono in grado di dirci nulla se non animati da uno sguardo più profondo sul modo d’essere dell’umano.
L’arte su questo ci dice molto di più e meglio. E rimane guida insostituibile. Già la prima grande opera dell’Occidente, l’Iliade di Omero, ci dice una cosa molto semplice e netta: al centro delle vicende umane c’è la forza e il suo uso, costante e capillare, radicale e sottile, in guerra o in situazioni ordinarie. La lettura che ne ha fatto Simone Weil rimane decisiva. La forza è stato il contrassegno decisivo del mondo greco. E ha assunto diversi significati e diverse forme nel suo attuarsi. La forza in chi la esercita viene considerata illimitata e non lo è. La forza si esercita dunque sempre come abuso. Questo eccesso nell’uso della forza ne ignora il gioco pendolare: «Il vincitore del momento si sente invincibile, anche se qualche ora prima ha conosciuto la disfatta; dimentica di servirsi della vittoria come di una cosa destinata a passare» (Weil 2014, p. 44).
Questo uso congenitamente abusivo della forza è ciò che è stato più propriamente pensato dai Greci, che hanno fatto emergere la necessità di un limite, anche solo attraverso un castigo – la Nemesi – a tale esercizio illimitato della forza (ibidem). Tale necessità del limite è ciò che si è andato smarrendo col tempo. Il Novecento ci ha fatto vedere un uso debordante della forza annientatrice, tra guerre mondiali e totalitarismi.
Ma di recente è accaduto qualcosa di inaspettato, diverso, e non di così immediatamente decifrabile. La forza è stata espulsa, negata in diverse forme. E questo è avvenuto anche attraverso processi di “cancellazione” profonda della tradizione stessa, alimentati da una certa cultura progressista, che per sintesi si può definire woke. È stata espunta la possibilità stessa di riconoscere la forza come il reale non espungibile della condizione umana, rispetto al quale poter e dover costruire ed immaginare limiti. Si è pensato cioè che a colpi di parole d’ordine ideologiche si potesse cambiare la natura umana, emendando di conseguenza la storia stessa.
Ma la forza c’è, esiste ed insiste. È il reale dell’umano, e in un certo senso è anche ciò che garantisce l’accesso all’umano stesso, che prende forma proprio contrapponendosi ad essa. La forza va limitata, perimetrata, trasposta e dunque contenuta nell’agon della vita individuale e sociale. Ciò che i Greci ci hanno detto e mostrato, inventando un genere, la tragedia, per garantire la trasposizione di un passato mitico dionisiaco in una sfera simbolica governata dal carattere apollineo della forma.
Immaginare l’esistenza umana come movimento progressivo teso ad espungere ogni forza dalla vita, orientando quest’ultima verso una totale “inclusività”, “correttezza” e “trasparenza”, significa in qualche modo creare i presupposti, esorcizzando e colpevolizzando ogni forza, per far rinascere la forza in un modo incontenibile, senza saper dove apporre un limite.
E una forza illimitata come quella di Trump si nutre, in assenza di limiti simbolici da superare, solo di immaginario: deve mettersi in scena per sembrare reale, e quello sta facendo. Sembrare cattivo, oltre ad esserlo. È il grande teatro mondiale dove la hybris si fa regola.
Trump si è trasformato nel drago che sputa fiamme sul mondo intero. E se questo è vero, è anche perché il mondo quel drago sembra volerlo, anche chi dice di volersi opporre. Finire nelle fauci del drago è un bell’alibi, per chi non ha mai dato segni di immaginare dinamiche politiche e sociali vitali e limitate allo stesso tempo.
Ci troviamo di fronte a degli “oppositori” che non hanno neanche l’immaginazione per capire come dare un limite a chi esercita la forza senza limiti. E questo perché la forza è stata cancellata come dato reale che attraversa la nostra realtà e la nostra vita, e che va limitata, composta e resa produttiva, non esorcizzata.
E così continuiamo a raccontare spaventati la forza del drago, senza affrontarlo, generando così il combustibile delle fiamme che vengono emesse.
L’unico modo per fermare il drago è affrontarlo, sapendogli porre un limite con l’azione. È quello che ha detto Mario Draghi nel suo discorso da vero antagonista al Parlamento Europeo, “Non so cosa vada fatto, ma fate qualcosa!”. Ciò che dice l’intelligenza di questa frase, è che il punto vero è porre un limite all’esercizio di tale forza incondizionata. Riconoscerla e limitarla con un’azione efficace, che sospenda il senso di passività impotente e di ingigantimento anche solo immaginario dello strapotere altrui, è ciò che conta.
Chiudo con una nota personale. Commentando le elezioni americane con mia figlia che vive negli Stati Uniti, ho avuto come risposta dopo l’elezione di Trump, “Comunque è solo per quattro anni”. Avevo trovato giusta questa risposta, senza capire subito perché. Ora mi è più chiaro. È una risposta che poneva comunque un limite temporale a quello che avrebbe potuto essere, e si sta dimostrando, un esercizio pericoloso del potere. Ed è esattamente l’opposto di quello che si sente dire oggi, cioè che se dopo un mese Trump ha fatto tutto questo, chissà cosa farà nei prossimi quattro anni, prefigurando così uno sconvolgimento indefinito dell’ordine del mondo. Ma immaginando tale sconvolgimento senza agire, si contribuisce in qualche modo a crearlo, rendendo illimitato tale esercizio iniquo della forza. Porre un limite a tale reale inalienabile è dunque compito di tutti, come i Greci ci hanno insegnato.
Riferimenti bibliografici
S. Weil, La rivelazione greca, Adelphi, Milano 2014.