Non ci credo se non lo vedo: l’espressione “vedere per credere”, attestata in inglese fin dagli inizi del Seicento nella forma seeing is leeving, trova la sua incarnazione nel San Tommaso descritto dal Vangelo secondo Giovanni, dove il discepolo dice che crederà alla resurrezione solo quando metterà il dito nella piaga di Gesù. Se per Sant’Agostino “l’immagine” per eccellenza è il Cristo figlio di Dio, ben si vede che il rapporto tra fotografia e credenza (Photography and belief è il titolo originale del nuovo libro di David Levi Strauss, di cui era già stato tradotto in italiano Politica della fotografia, Postmedia Books 2007) non può che iniziare dalla Sacra Sindone di Torino, che nel libro di Picknett e Prince La Sindone da Vinci (Sperling & Kupfer 2007) è presentata non solo come un falso da postdatare (la datazione al carbonio effettuata nel 1988 proverebbe – ma la polemica è ancora in corso – che il preteso sudario di Cristo è un artefatto posteriore di quattordici secoli) ma anche come una protofotografia di epoca rinascimentale che anticiperebbe di quattrocento anni l’eliografia di Niépce, il dagherrotipo di Daguerre e il calotipo di Fox Talbot. Il genio responsabile della realizzazione di questa fotografia ante litteram (sostanzialmente un negativo) sarebbe il solito Leonardo, che già nel racconto di Bob Shaw Una vergogna per l’Italia (Urania 864, 1980) risultava aver inventato il primo zootropio (un macchinario girevole in cui, inserite delle tele dipinte, era possibile vedere la Gioconda che si spogliava – in largo anticipo sulle macchine ottiche da cui è derivato il cinematografo).

La credibilità del falso sarebbe dunque l’esigenza per cui Leonardo fabbrica un’immagine non più pittorica (iconica) bensì automatica (indexicale): lo specifico della fotografia starebbe nella sua astanza, intesa come qualità percettiva che la diversifica dall’immagine fatta a mano, meno credibile proprio perché legata alla soggettività dell’esecutore; un salto ontologico che modifica il concetto stesso di “realismo”, tanto che i quadri fatti per sembrare fotografie saranno definiti “iperrealisti”. La filosofia della fotografia è dunque una storia della credibilità, che Levi Strauss ricostruisce attraverso i pensatori più pertinenti.

All’inizio c’è il Walter Benjamin di Piccola storia della fotografia (1931) che, fra le tante annotazioni preziose, rileva come il valore politico della fotografia surrealista stia nella scomparsa di tutte le intimità a favore del rischiaramento del particolare. «Tale fascinazione per il dettaglio, spogliato dell’aura e di ogni intimità, ha trasformato il modo in cui crediamo alle immagini fotografiche, segnando il passaggio a una fede blasfema nella cosa in quanto tale» (Levi Strauss 2021, p. 27). Siccome la macchina coglie il visibile senza trascendenza, crediamo nell’immanenza degli oggetti, col rischio che il corpo delle persone si riduca ad un oggetto, alla «nuda vita» paventata da Agamben (ma ancor prima da Kracauer).

Con un salto di mezzo secolo arriviamo a Roland Barthes (La camera chiara, 1980) e a John Berger, la cui vasta produzione si riduce al saggio Appearances pubblicato nel volume Another Way of Telling (Pantheon 1982) co-firmato con l’amico fotografo Jean Mohr (quello di Il settimo uomo). Barthes vede nella fotografia una forma di resurrezione, dato che l’immagine achiropita (in questo paragonata alla Sindone di Torino) è uno spectrum, un morto che ritorna; e si spinge fino ad affermare che è l’avvento della fotografia – e non quello del cinema – che divide la storia del mondo dall’epoca in cui si resiste a credere al passato (alla Storia) all’epoca in cui il passato è ormai sicuro quanto il presente, ciò che vediamo sulla carta è sicuro quanto ciò che tocchiamo (con conseguente confusione fra realtà e verità, nelle società avanzate che consumano immagini anziché credenze).

Siccome la fatidica data 1839 è quella in cui viene annunciata al mondo l’invenzione della macchina dagherrotipica ma anche quella in cui Auguste Comte finisce di scrivere il Corso di filosofia positiva, John Berger ha gioco facile a notare il parallelismo tra fotografia e sociologia (anche senza rilevare che il termine “positivo” è esso stesso parte del lessico fotografico): ridurre la verità all’istantaneo significa ridurre il “fatto” al visibile; la negazione della funzione sociale della soggettività deriva direttamente dal rifiuto dell’ambiguità intrinseca della fotografia. «La superficie di un’immagine fotografica, oggi relegata perlopiù alla dimensione dello schermo, va a completare provvisoriamente il mezzo linguaggio delle apparenze, combinandosi via via con le parole per attivare la nostra propensione a credere attraverso la memoria» (Levi Strauss 2021, p. 31).

Agli anni ottanta appartiene anche l’opera di Vilém Flusser, in particolare Per una filosofia della fotografia (1983) e Immagini (1985). Per lo sguardo post-mcluhaniano di Flusser, l’invenzione delle immagini tecniche ha un valore epocale per l’evoluzione della cultura, cioè del genere umano: nell’epoca preistorica le immagini permettevano il passaggio delle informazioni durature, ma la loro magia sconfinava nell’idolatria; l’epoca storica inizia quando l’invenzione della scrittura permette un’astrazione di secondo grado con sconfitta dell’idolatria (simboleggiata da Mosè, che contro il vitello d’oro lancia le tavole della legge scritta, ovvero il decalogo scolpito sulla dura pietra); quando i trionfi della scrittura producono forme di testolatria o una scienza dichiaratamente incomprensibile (tipo la fisica quantistica su cui ancora ci arrovelliamo), arrivano le nuove immagini achiropite (fotografia, cinema, televisione e tutta la filiera elettronica genericamente detta “digitale”) che ripristinano l’antica magia ma in senso post-storico. La potenza delle immagine tecniche, frutto di una scienza e di una tecnologia raffinatissime (appannaggio di un’élite, notava Ortega y Gasset), è tale da generare nelle masse un approccio ingenuamente referenziale: siamo convinti che il verde che vediamo in fotografia sia causato dal prato, mentre quel verde è il frutto di relazioni quantiche fra il prato e la camera (soprattutto se digitale); la macchina positivista finge di essere The Pencil of Nature, la matita della Natura di cui parlava Fox Talbot nel lontanissimo 1844, mentre è un algoritmo che produce astrazioni di terzo grado.

Quando Flusser asserisce che le immagini tecniche non «rappresentano» qualcosa ma piuttosto «proiettano» qualcosa, Levi Strauss suggerisce che questo qualcosa è la fede, ovvero la volontà di credere a ciò che le immagini mostrano. «A ben vedere, la sua visione entusiasta della futura società telematica trova il suo fondamento proprio nella fede; e le modalità stesse con cui egli affronta il tema delle immagini tecniche e dei mezzi di comunicazione sono pervase di riflessioni relative all’atto di credere (in relazione all’amore e alla morte)» (ivi, p. 49).

Se nel mezzo secolo che intercorre fra Benjamin e Barthes andrebbe inserita l’indagine sociologica del gruppo Bourdieu sulla fotografia «arte media», cioè sulla credibilità delle immagini in quanto prodotte dagli stessi fruitori, il quarantennio che ci separa da Berger e Flusser è quello in cui la rivoluzione digitale ha consentito non solo l’immagine numerica (che da prodotto finale si trasforma in materia prima per ulteriori elaborazioni gestite dal computer) ma anche tutto l’universo delle reti telematiche in cui queste immagini vengono “socializzate” praticamente in tempo reale: la foto-grafia diventa foto-femia, una forma di linguaggio visivo che sta più dal lato dell’oralità che non da quello della scrittura. Di questo universo che stiamo abitando fanno parte le fake news e tutte le altre pratiche quotidiane che ci hanno reso avvertiti del cambiamento nel rapporto fiduciario con le immagini tecniche. Quando basta una didascalia per trasformare una foto del concerto veneziano dei Pink Floyd nella pretesa notizia di uno sbarco massiccio di immigrati clandestini, vuol dire che San Tommaso ha cambiato criterio: non lo vedo se non ci credo.

David Levi Strauss, Perché crediamo alle immagini fotografiche, Johan & Levi, Monza 2021.

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