Cannes 71
The Wild Pear Tree (Ceylan, 2018). 

Che il modello di un Festival come Cannes sia in crisi, è in fondo confermato anche da questa edizione, anche se la qualità dei film era comunque notevole, decisamente superiore all’anno scorso. Ma proprio per questo, forse, le contraddizioni erano più evidenti. La selezione del concorso ufficiale ha mostrato le aporie di un gusto estetico ormai in crisi, di un’idea di cinema confusa. O forse chiarissima. Se si pongono da parte i nomi obbligati, infatti, la linea culturale del Festival, gli spazi in cui poteva indicare delle linee di tendenza, è stata catastrofica, e il concorso, nella sezione dedicata alle scommesse sul futuro, una vetrina suicida.

Non solo Under the Silver Lake di David Robert Mitchell, accumulo cinefilo di ambizione smisurata, o lo speculare giochino “queer for dummies” di Yann Gonzales (Un couteau dans le coeur), ma soprattutto Yomeddine di  Abu Bakr Shawky, Les filles du soleil di Laetitia Husson, Capharnaum di Nadine Labaki: titoli che sembravano proporre una inquietante koiné, una linea che unisce grandi temi, copioni romanzeschi e stile pubblicitario, ma sotto il marchio del cinema intellettuale e di ricerca, con la patina del prodotto terzomondista da Festival, ideati e finanziati internazionalmente, progettati come incrocio di elementi esotici e di “poesia” (e quindi, ad esempio nel film di Labaki, con veri profughi siriani a interpretare il copione scritto dalla regista e a potenziarne le conferenze stampa sulla Croisette). L’uso enfatico della musica, il ritorno alla “bella fotografia” e l’abuso dei droni sono il simbolo di questo filone che si spera minoritario e indice solo di una debolezza di gusto dei selezionatori: infatti, il riscontro da parte della critica e della giuria è stato piuttosto ostile.

Davanti alla modestia di questi film, e alla scelta non entusiasmante di opere francesi (si salvava al massimo Brizé, con un’operazione di vecchio cinema politico ineccepibile ma in fondo prevedibile), si capisce come spiccasse un film pure sbilenco e non privo di difetti come quello di Alice Rohrwacher, Lazzaro felice. Un film che, dopo essersi addentrato nella rievocazione del mondo contadino (con tutti i rischi del caso), a metà si reinventa completamente in maniera spericolata, mescolando ironia, realismo, slanci poetici con momenti molto alti: soprattutto, più che Miracolo a Milano (De Sica, 1951), da sempre modello pernicioso, il film si avvicina a certe cose di Sergio Citti, e la sua diversità tra i titoli del Festival dava davvero l’impressione di respirare.

Cannes è dunque, in questo momento, un Festival conservatore, e non tanto per la sua opposizione ai film non destinati alla sala. Del resto, basta spostarsi nelle sezioni collaterali per trovare una fotografia più ricca del cinema contemporaneo, e delle indicazioni per ripensarlo (nei limiti del possibile: non dimentichiamo che Cannes è anzitutto il suo mercato, che si svolge lontano dagli occhi di critici e cronisti e che pure anch’esso, pare, quest’anno era spopolato). Da un lato, una ibridazione tra generi e formati sarebbe un gesto ormai necessario. Contaminare il “format” (chiamiamolo provocatoriamente così, in un momento in cui Cannes proclamava la propria sdegnosa alterità dal piccolo schermo) del cinema d’autore, non solo con le produzioni che non raggiungono direttamente la sala, ma anche con un immaginario in mutazione più ampio, con l’animazione e il fumetto, con il “genere” o il suo fantasma, con l’universo dei media e l’ipertrofia delle narrazioni televisive; con il documentario e la riflessione. Titoli di questo tipo erano più presenti nelle sezioni collaterali, alla Quinzaine des Réalisateurs soprattutto, per quel che se ne è potuto vedere:  Pajaros de Verano di Ciro Guerra e Cristina Gallego (il primo autore di El abrazo de la serpiente), finto-documentario antropologico che poco a poco si svela romanzesca archeologia del narcotraffico. O il cinese Ming Zhang di The Pluto Moment, riflessione sulla crisi dei registi cinesi della Sesta Generazione. E ovviamente La strada dei Samouni di Stefano Savona, forse il più esemplare nella sua unione di documentario e animazione.

In concorso, unico cinema “impuro”, che sfuggisse allo schema del lungometraggio di finzione, era Jean-Luc Godard con Le livre d’image, appendice alle Histoire(s) du cinéma che si fa fiaba sul presente dei paesi arabi, ma sembra soprattutto voler resistere a un proliferare di immagini e di pratiche che il regista aveva genialmente previsto e che rischiano di superarlo. Simbolicamente all’opposto di Godard c’è il cinema di Lars von Trier, l’altro eccentrico che il Festival si è permesso, stavolta fuori concorso. Il danese con The House that Jack Built conferma che l’autentico percorso del suo cinema è di tipo pubblicitario, per cui ogni produzione (collezione) deve avere una parola-chiave estetica che lo identifichi: il Dogma, l’assenza delle scenografie, il musical. Il fatto è che dietro queste trovate (che indubbiamente nascono da un’autentica ossessione, come mostrava Melancholia) c’è uno spessore culturale e visivo miserrimo e di seconda mano, che va al massimo dal simbolismo minore al midcult di Thornton Wilder, dalla videoarte di trent’anni fa all’idea dell’arte come Genio.

Ovviamente, la battaglia estetica non è quella di difendere il cinema dal contagio delle serie in termini produttivi, ma di riaffermare il complesso valore estetico di una dialettica, ibrida e impura, del film, in cui il dialogo tra la messa in scena, i copioni da filmare, la realtà dei set, il complesso del sistema dei media siano in relazione. Esiste oggi un cinema che è a rimorchio del modello televisivo delle serie, con esiti anche alti (Tre manifesti a Ebbing, Missouri), medi (Wind River) o modesti (Molly’s Game ma anche il film d’apertura del Festival, Todos lo saben). Il che sembra più interessante, e forse preoccupante, del fatto che i film passino o no in sala. Ma proprio questa situazione, e lo stallo del cinema d’autore, fa risaltare i casi migliori, che sono proprio quelli in cui il cinema ottiene una nuova saldatura tra sguardo e racconto.

C’era curiosamente, nei film migliori di Cannes, un desiderio di forza e di compattezza che, andando oltre le retoriche di un cinema post-nouvelle vague programmaticamente “aperto”, rendeva lampante una potenza del cinema anche a costo di opere “chiuse”, lisce. Dogman è forse l’esempio più eloquente e potente, ma in fondo tutti i titoli migliori, da Kore-eda a Jia Zhangke, da Jafar Panahi e Nuri Bilge Ceylan (e in misura minore Burning di Lee Chang Dong o all’opposto i film di Pawlikowski e Serebrennikov, intenti anche a recuperare un passato delle immagini). Anche laddove mettono in scena il proprio dispositivo o giocano con lo scorrere del tempo o fingono di aprirsi, in realtà questi film sfidano le immagini e i racconti di oggi soprattutto sul piano della consistenza e della costruzione, di una densità delle immagini che è un campo lasciato sempre più vuoto, e che il cinema d’autore può riempire, almeno finché ci sarà qualcuno in grado di riconoscere e apprezzare questa densità.

Share