Una carriera intensa, fitta di titoli, che copre quattro decenni di attività, dall’esordio di Ci troviamo in galleria (1953) alle quattro puntate, per la televisione, di La famiglia Ricordi (1995). Mauro Bolognini, di cui ricorre il centenario della nascita, è stato un regista prolifico. E importante.
Fine conoscitore delle arti – architettura, naturalmente, e poi letteratura, pittura, musica, sua grande passione, teatro (e almeno un cenno alle regie di opere liriche e alle regie teatrali dell’autore deve essere fatto) –, Bolognini ha soprattutto legato il suo nome alla pratica, da un certo momento in avanti centralissima e costante nella sua opera, dell’adattamento filmico di testi letterari e certamente a lui si devono, in particolare tra gli anni ‘60 e ‘70, i più significativi della sua carriera, «alcuni dei migliori episodi nella storia del controverso rapporto del cinema italiano con la letteratura» (Micciché 2010, p. 187). Più in generale, come dice Pezzotta nella notevole monografia sul regista scritta con Pier Maria Bocchi, Bolognini è stato «uno dei registi più bravi del cinema italiano. Bravi in senso oggettivo: per la capacità di muovere la macchina da presa e dirigere gli attori, di usare il bianco e nero o il colore. Dal punto di vista tecnico, Bolognini vale quanto Germi, Lattuada, Visconti: e non solo perché spesso usa gli stessi collaboratori» (Bocchi, Pezzotta 2008, p. 12).
La critica ha amato poco o pochissimo Bolognini. Gli ha sempre riconosciuto questa notevole competenza tecnica e, soprattutto, l’eleganza formale e compositiva, per lo più indicando l’una e l’altra come il tratto distintivo ma anche come il limite più vistoso di un cineasta che, a parte qualche importante eccezione, è stato più di tutto considerato un calligrafico, un formalista o, peggio, un decoratore, in ogni caso più attento ai valori della composizione che alla densità dei temi affrontati, alla dimensione illustrativa della sua scrittura più che alla pienezza dei discorsi. Nei suoi radi interventi sul cinema, Bolognini si è difeso dalle accuse di calligrafismo, di eccessivo pittoricismo, di preziosismo plastico-figurativo e scenografico, che spesso, anche per la sua attenzione per il passato e per la letteratura, lo hanno «riduttivamente inquadrato come una sorta di epigono manierista di Visconti» (Sportisse 2020) . «In generale – dice Bolognini a Gili in una nota intervista (Gili 1977, p. 34) – credo che la ricerca che io faccio della forma non costituisca mai un fine […]. Per prima cosa io vado in cerca della verità, della vita; la mia presunzione è quella di ricercare la vita delle cose».
Non c’è dubbio che la cura meticolosa della composizione, l’interesse per la costruzione dell’inquadratura, per lo più concepita sotto il segno dell’abbondanza, nella ripresa fissa come nei movimenti di macchina, il lavoro sulla profondità di campo, sulle luci, sul bianco e nero o il colore, la centralità della scenografia, oltreché dei costumi, sempre pensati con precisione filologica, l’attenzione per il montaggio, per la musica, per il lavoro con gli attori, segnano in profondità la pratica filmica di Bolognini. Una pratica che, nel corso dei decenni, tralasciando per un momento i nomi, spesso assai altisonanti, degli sceneggiatori, che proverò, pur in modo incompleto, a fare più avanti, si è avvalsa di gente come Piero Tosi, Nino Baragli, Ennio Morricone, ma anche Danilo Donati o Luigi Scaccianoce, Armando Nannuzzi, Leonida Barboni, Ennio Guarnieri, Carlo Rustichelli, Piero Piccioni – solo per restare alle figure che più spesso hanno lavorato con lui o che hanno lasciato un segno importante nei suoi lavori – e di un parterre di attrici e attori eccezionale. È l’idea di una dimensione musicale della composizione a sostanziare quella stessa pratica, come lo stesso regista aveva detto:
Le immagini sono musica. Il libretto è già stato scritto, l’idea, la tesi già esiste. Anche la sceneggiatura esiste, il passo seguente è la realizzazione del film. Il regista, in senso assoluto, è autore solo del tempo. È autore nel momento in cui mette a posto le varie “partiture” del film: lo sceneggiatore, lo scenografo, il costumista, l’operatore, e poi l’attore e tutti gli altri che collaborano al film. Quindi è autore in quanto “direttore d’orchestra” e “manovratore” del tempo. Sempre parafrasando il linguaggio musicale, il regista deve scegliere il “tempo” adatto: allegro, andante, adagio, allegretto, e così via (Bolognini in AA.VV. 1996).
Ora, questo lavoro sulla forma, che da una connaturata esattezza della mise en scène, presto presente, si fa via via sempre più concertato ed esposto, è esattamente ciò con cui Bolognini punta a sentire il cuore delle cose, a modellare, costruzione dopo costruzione, il sentimento della vita e che, nei suoi lavori maggiori, si fa spesso capace di fare senso e discorso, di cooperare in modo significativo all’elaborazione di temi e motivi evidentemente cari al regista: lo scontro dell’individuo con un universo, sociale e storico, culturale o politico, che in ragione del suo stesso funzionamento si curva su di lui per annichilirlo, un’idea di libertà (e talvolta, si deve aggiungere, di oscura, ancestrale purezza) travolta dalle costrizioni, dalle convenzioni, dalla miseria della specie umana, la famiglia come prigione e luogo di disfacimento, la radicale inconciliabilità tra uomo e donna, il sesso come cardine dell’agire umano, il passato come più autentica radice del presente (Bocchi, Pezzotta 2008).
È chiaro, come ancora osservava Pezzotta – peraltro organizzatore, con Gili e Roberto Cadonici del convegno internazionale bologniniano tenutosi a Pistoia il 28 e 29 giugno scorsi, proprio in occasione del centenario –, ritornare a interrogare Bolognini non significa aderire, per via di facili entusiasmi, alla pratica più e meno ciclica delle rivalutazioni (che pure tendono per lo più a riguardare «i mestieranti di serie C più che i protagonisti del cinema medio che riempivano le sale», ivi, p. 12), ma rileggere senza pregiudizi e senza a priori, come del resto nota anche Sportisse nel suo recente lavoro sul regista, l’opera di un cineasta che per lungo tempo, non soltanto in Italia, è stato in definitiva troppo poco indagato. Bolognini è in effetti un cineasta difficile da studiare, che passa dalla commedia anni ‘50 alla maturità “letteraria” (e non solo) dei ‘60 e ‘70, eclettico solo in apparenza, costantemente toccato dalla censura ma per molti “accademico”, che tra film compiuti e meno compiuti, senza mai rinunciare alle ragioni dello spettacolo e lungo la via di un pessimismo sempre più radicale, ha tracciato un ritratto articolato del suo Paese, della sua storia, della sua geografia, secondo l’acuta lettura di Brunetta, che a Bolognini ha dedicato, tra i primi, pagine importanti:
Pur prendendo in gran parte spunto da testi letterari, le sue opere, viste come un insieme unitario, disegnano un affresco molto significativo delle caratteristiche e delle trasformazioni delle maggiori città italiane, da Trieste a Bologna, da Firenze a Catania a partire dall’Unità. Mai realmente apprezzato per le sue qualità […] Bolognini si può considerare non tanto un semplice esecutore cinematografico di testi letterari, quanto un architetto della visione, che recupera lo spazio urbano dell’Italia e lo ricompone – dislocando spesso le storie in tempi diversi – tessera dopo tessera, in una composizione unitaria (Brunetta 2008, pp. 286-287).
Aiuto regista di Zampa tra gli ultimi anni ‘40 e i primi ‘50, con esperienze anche in Francia con Delannoy e Yves Allégret, dopo l’esordio del ‘53, Bolognini firma una serie di commedie che ricalcano i modelli di quegli anni – come Gli innamorati (1955) o Marisa la civetta (1957), ma anche come Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (1956) o Arrangiatevi (1959) –, tra le quali emerge un film fine e malinconico come Giovani mariti (1958), premiato per la sceneggiatura a Cannes. Si segnala subito, però, in questo periodo, un lavoro diverso dagli altri e assai bello, La vena d’oro (1955), da una commedia di Guglielmo Zorzi, che per l’ambientazione – gli inizi del XX secolo –, le atmosfere, i costumi, l’accurata scenografia, ma anche i temi (l’amore infantile e morboso del sedicenne Corrado per la madre, la dolorosa necessità della crescita) annuncia la linea portante del futuro cinema bologniniano. E tuttavia, nei ‘50 di Bolognini, è naturalmente l’incontro con Pasolini l’evento più significativo, e importante (per l’uno come per l’altro: sarà Bolognini a convincere Bini a realizzare, più tardi, dopo il rifiuto di Fellini, Accattone, 1961).
Pasolini firma già, con Lucia Drudi Demby (qui Tatina Demby) e col regista, il soggetto e la sceneggiatura di Marisa la civetta, lavora con Bolognini ai dialoghi e alla stesura finale di Giovani mariti, ma soprattutto, nel ‘59, con deciso cambio di registro, si ispira al suo Ragazzi di vita per sceneggiare, con Jacques-Laurent Bost (e Sergio Citti, che pure non figura tra i credits), La notte brava; quindi con Moravia, Marco Visconti e ancora Citti, scrive La giornata balorda (1960), adattando liberamente due racconti moraviani compresi nei Racconti romani e nei Nuovi racconti romani. Sono questi due ultimi film che conducono il lavoro di Bolognini al sempre ricordato «salto di qualità» (Micciché 2002, p. 78), in una suggestiva commistione tra la crudezza dell’universo poetico pasoliniano e l’eleganza, che pure si complessifica e si fa più audace, della scrittura del regista. Ma è più ancora con Il bell’Antonio (1960, che esce prima de La giornata balorda), dal romanzo di Brancati, la cui vicenda è trasposta dagli anni del fascismo ai ‘50, un film che Bolognini aveva lungamente cercato di realizzare e di cui ancora Pasolini, con Gino Visentini, scrive la sceneggiatura, che il cinema bologniniano trova per così dire la sua strada e il primo segno di una raggiunta maturità, come lo stesso Pasolini aveva osservato.
I primi anni ‘60, tra i più felici della carriera del cineasta, sono quelli de La Viaccia (1961), probabilmente il capolavoro di Bolognini, tratto da L’eredità di Pratesi (di cui sposta l’ambientazione primo-ottocentesca agli anni ’80 del XIX secolo e da Siena a Firenze e alla sua campagna la collocazione dell’azione), cupo e attonito melodramma sceneggiato da Pratolini, Festa Campanile e Franciosa, che immerge il tragico innamoramento di Amerigo Casamonti (Belmondo) per la prostituta Bianca (una dura e splendente Cardinale) in un impasto visivo e affettivo di grande intensità espressiva, i cui richiami pittorici e fotografici sono sempre stati rilevati (Monti 1979, Campari 1994, De Santi 2003); di Senilità (1962), da Svevo, sceneggiato da Parise e Pinelli, riambientato negli anni ‘20 del ‘900, denso e diseguale, ancora interpretato da Cardinale nel ruolo di Angiolina, che negli interni tetri e claustrofobici e nell’aperto di una Trieste scura e impassibile restituisce esemplarmente il modo bologniniano di rendere espressivi lo spazio chiuso e la rappresentazione delle città; di Agostino (1962), da Moravia, ancora su sceneggiatura di Parise, e ancora con uno spostamento dell’azione, da Viareggio a Venezia, che contrappone crudamente la lucentezza simbiotica e morbosa di un rapporto madre-figlio alla traumatica scoperta del mondo e del sesso da parte di un ragazzino; de La corruzione (1963), notevolissimo affresco del degrado morale e umano della borghesia italiana negli anni del boom, su cui si disintegrano gli ideali del giovane protagonista.
Alle numerose opere brevi comprese nei film collettivi in voga nel periodo – il regista vi prende parte tra il 64’ e il ‘68, poi ancora in un’altra occasione, negli ultimi ‘70 –, tra le quali si è soliti riconoscere la migliore in La balena bianca de La donna è una cosa meravigliosa (1964), e all’acuto e sottile Madamigella di Maupin (1966), da Théophile Gautier, si aggiungono, tra l’altro, il compassato Un bellissimo novembre (1969), da Ercole Patti, quindi l’assai più interessante L’assoluto naturale (1969), senza dubbio il più radicale, in termini formali e compositivi, dei film di Bolognini, che sostanzia l’omonimo libro-dialogo di Parise, pur non senza una certa rigidità, attraverso un potente processo di astrazione – figurativa, cromatica, narrativa – e di trasfigurazione.
Uno dei Bolognini più noti e più apprezzati, Metello (1970), da Pratolini, sceneggiato da Suso Cecchi d’Amico, Luigi Bazzoni e dal regista, solido e intenso nel restituire la vicenda umana e politica di un muratore nella Firenze dei primissimi del ‘900, e le lotte per i diritti degli operai cui prende parte, come sempre accurato nella scrittura e denso di riferimenti visivi (ancora i Macchiaioli e le fotografie degli Alinari, come già era stato per La Viaccia), apre il decennio successivo, che infiltra nel cinema bologniniano più esplicite nervature politiche, mentre meno compiuto è Bubù (1971), da Bubu di Montparnasse di Charles-Louis Philippe, che per ristrettezza del budget porta nell’Italia dell’ultimo Ottocento l’originaria vicenda, di miseria e disperazione, d’ambientazione parigina.
Lo sguardo di Bolognini resta coerente e i motivi che lo interessano, sia tematici sia formali, riconoscibili. Ancora assai rilevanti, pur tra esiti di valore diverso, sono gli anni successivi: vi si danno, tra l’altro, il cupo, non sempre controllato, Fatti di gente perbene (1974), che rilegge un celebre fatto di cronaca nera nella Bologna di inizio ‘900 – il caso Murri –, segnato da una messa in scena che sembra soffocare e propriamente rinchiudere i tanti personaggi e da un cast internazionale (Giannini, Deneuve, Fernando Rey, Rina Morelli, Paolo Bonacelli, Laura Betti); Libera, amore mio… (girato nel 1973 ma uscito nel 1975, per guai con la censura), che segue, quasi spartito tra toni commedici e dramma, le peripezie di un’anarchica (ancora Claudia Cardinale) e della sua famiglia negli anni del fascismo e fino alla Liberazione; l’irrisolto Per le antiche scale (1975), da Tobino, ambientato in un manicomio, ancora durante il fascismo; L’eredità Ferramonti (1976), dal romanzo di Gaetano Carlo Chelli, che con una durezza e una disperazione forse mai prima così accentuate in Bolognini e che di nuovo si avvale di un cast nutrito (Dominique Sanda, premiata a Cannes, Anthony Quinn, Proietti, Testi, Bonacelli, Adriana Asti), descrive le brame di denaro e di potere, la scalata sociale, la miseria morale e infine la distruzione, di una famiglia di piccoli commercianti nella Roma del tardo ‘800; il diseguale Gran bollito (1977), che nei modi e nei toni del grottesco si ispira al celebre caso di Leonarda Cianciulli; La storia vera della signora dalle camelie (1981), in due versioni, per il cinema e, più lunga, per la tv, allora criticatissimo, con cui, prendendo deliberatamente le distanze da Dumas figlio, e pure tra qualche eccesso, il regista firma un film disperato e potente, radicale e compatto, con Isabelle Huppert e un magistrale Volonté.
Al netto di una certa semplificazione dello stile del regista, ora a confronto con un lavoro esclusivamente destinato al piccolo schermo, che ne sbilancia alcune occorrenze (l’uso eccessivo della musica e dello zoom), La Certosa di Parma (1982), sceneggiato televisivo in sei puntate, da Stendhal, appare infine un’opera coesa e sicura e che davvero merita di essere rivista. Molto lontano dalle sue prove migliori, negli ultimi anni Bolognini firmerà ancora, con radi sussulti, La venexiana (1986), da una commedia di anonimo del ‘500, Mosca addio (1987), sulla dissidente sovietica ebrea Ida Nudel, il televisivo Gli indifferenti (1987) e La villa del venerdì (1991), entrambi da Moravia, oltre al citato La famiglia Ricordi. Regista prolifico e importante, Bolognini, lo dicevo all’inizio, è un cineasta difficile da studiare. Non smettiamo di farlo, torniamo a vedere i suoi film.
Riferimenti bibliografici
AA. VV., Mauro Bolognini. Il fascino della forma, ANCCI, Roma 1996.
P.M. Bocchi, A. Pezzotta, Mauro Bolognini, Il Castoro, Milano 2008.
G.P. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, vol. 2, Dal 1945 ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2008.
R. Campari, Il fantasma del bello. Iconologia del cinema italiano, Marsilio, Venezia 1994.
P.M. De Santi, Suggestioni figurative in “La Viaccia” e “Metello” di Bolognini, in L. De Franceschi, a cura di, Cinema/Pittura. Dinamiche di scambio, Lindau, Torino 2003.
J. Gili, Colloquio con Mauro Bolognini, in Bolognini, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1977.
L. Micciché. Patrie visioni. Saggi sul cinema italiano 1930-1980, Marsilio, Venezia 2010.
Id., Cinema italiano: gli anni ‘60 e oltre, Marsilio, Venezia 2002.
R. Monti, Les Macchiaioli et le cinéma. L’image du XIXe siècle et la peinture des Macchiaioli dans le cinéma italien, Vilo, Paris 1979.
M. Sportisse, Mauro Bolognini. Une histoire italienne, Le Clos Jouve, Lyon 2020.