Si vede, ci sta pensando. C’è un crescente consenso intorno all’idea che gli animali non umani che riteniamo più vicini a noi, le scimmie antropomorfe, abbiano capacità cognitive simili a quelle umane. Lasciamo da parte la questione, peraltro affatto rilevante, di che cosa possa voler dire che il pensiero di un orango sia in qualche modo “simile” a quello di Wittgenstein, ad esempio, ma vediamo meglio che cosa effettivamente significa, in realtà, attribuire ad alcuni animali non umani capacità cognitive paragonabili a quelle umane. Significa, sostanzialmente, considerare il nostro modo di pensare come il termine di riferimento, come il modello del pensiero. Dopodiché generosamente concediamo ad alcuni animali, quelli più o meno simili al nostro aspetto (ma qual è l’aspetto medio di un essere umano?), di essere quasi come noi. Ma perché prendiamo in considerazione solo queste scimmie? Perché non provare a cercare (ammesso e non concesso che abbia senso stabilire gerarchie di intelligenza fra i viventi) anche altrove? Comincia allora una gara a chi trova intelligenza nei corvi, nei polpi, ma anche nelle galline. Rimane impensata, dietro tutta questa affannosa ricerca di intelligenza, perché mai dovremmo essere così interessati all’intelligenza non umana. Di che stiamo parlando, quando osserviamo un po’ preoccupati questi occhi così evidentemente intelligenti, benché anche così esplicitamente inumani, che ci fissano perplessi?

Stiamo parlando, in fondo, del nostro posto nel mondo. Se l’intelligenza, qualunque cosa sia, non è un tesoro prezioso e scarso che sta solo dentro le nostre teste, forse la posizione che ci siamo assegnati nel mondo non è poi così giustificata. E allora, almeno quelli fra noi più sensibili alle ragioni dell’ecologia, sono disposti ad allargare un po’ i confini del club del QI, ma solo un po’ certo, non vogliamo che alla fine il nostro privilegio venga messo in crisi da un animale qualunque, che magari non è nemmeno un mammifero. Ma, come sempre, basta cercare e si trova quello che proprio non si sperava di trovare. Nel suo ultimo libro, Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi 2021), l’etologo Giorgio Vallortigara si chiede quale sia il fondamento biologico di quella cosa complicata che si chiama “esperienza”. Per provare a rispondere a questa domanda mette subito le carte in tavola, e sono le carte di qualcuno che gli animali li conosce sul serio. Prima constatazione, l’intelligenza non è collegata a grandi cervelli (in fondo l’abbiamo sempre sospettato: nessuna balena, pur vantando un cervello che può arrivare a pesare 10 kg, ha mai provato a comporre qualcosa come il Magnificat di Francesco Durante). In realtà se prendiamo in considerazione le operazioni intellettuali basilari, classificazione e ragionamento, quelle necessarie per la sopravvivenza, allora c’è intelligenza praticamente dovunque. È plausibile dunque:

La congettura che le forme essenziali del pensiero, quali si manifestano nelle operazioni inferenziali che possono essere condotte circa la collocazione nello spazio e nel tempo degli oggetti, numerabili e non, che popolano il nostro mondo fenomenico, e circa le cause dei loro comportamenti, sia la medesima in tutti gli organismi animali, perlomeno nella sua manifestazione immediata e implicita. […] Le forme essenziali del pensiero si palesano nelle creature dotate di cervelli miniaturizzati, e […] perciò […] le operazioni di calcolo che le sostengono devono essere relativamente semplici e necessitano di un numero tutto sommato modesto di cellule nervose (Vallortigara 2021, pp. 171-172).

L’intelligenza è diffusa, l’intelligenza è inseparabile dalla vita; la vita, in fondo, è un modo di manifestarsi dell’intelligenza (una tesi, fra le altre, di uno scienziato e semiologo italiano, Giorgio Prodi, discussa in un libro da poco ripubblicato da Mimesis, Le basi materiali della significazione). Ma a Vallortigara interessa non tanto l’intelligenza, quanto l’esperienza: come è possibile, si chiede, che dei corpi materiali (questo sono al fondo gli animali) siano capaci non solo di agire nel mondo, ma anche sentire qualcosa durante il loro stare al mondo? La risposta di Vallortigara (come peraltro aveva già fatto Derrida) sta nella nozione di differenza: «L’informazione dimora nelle differenze. “Sentire” non può che riferirsi a una qualche differenza» (ivi, p. 137). Una differenza fra che cosa? All’inizio c’è il movimento, un organismo che si muove nel mondo; è a questo punto che «diventa fondamentale distinguere i segnali sensoriali che vengono dal mondo là fuori da quelli che sono invece la conseguenza dei movimenti dell’organismo stesso nel mondo» (ivi, p. 107).

Quello che serve è appunto un segnale che marchi questa differenza, attraverso la quale si stabilisce la fondamentale distinzione tra «sé e non-sé» (ibidem), senza la quale non può esserci alcuna esperienza (che infatti è l’esperienza di qualcuno o qualcosa; senza la quale chi, propriamente, farebbe esperienza?). Tutto accade ai confini del corpo, laddove interno ed esterno si incontrano e si confondono. L’intelligenza e l’esperienza sono fenomeni all’interfaccia fra questi due ambiti: «In fondo gli eventi importanti […] avvengono al confine, ai bordi. Lì si realizza concretamente anche il più enigmatico processo di alcuni sistemi biologici, quello di un interno che si definisce attivamente rispetto a un esterno, la coscienza» (ivi, p. 94).

Una “coscienza” che per Vallortigara non è affatto prerogativa di animali con un grande e voluminoso cervello, e tantomeno di organismi “complessi” (una formula che non vuol dire altro, come sempre, “simili a noi umani”). In realtà «la condizione minima per l’esperienza» è un «interno che si definisce in maniera attiva rispetto a un esterno» (ivi, p. 172), una condizione che si trova in praticamente tutti gli organismi viventi. Si tratta di una conclusione molto rilevante, che ha non poche conseguenze. Se l’intelligenza è molto diffusa nel mondo vivente, e se anche la possibilità di fare esperienza del mondo è altrettanto diffusa, allora su quale base neurologica si possono distinguere gli animali  “senzienti”, come tali da proteggere e preservare, da quelli che invece che non lo sarebbero? E che quindi possono essere “consumati” senza scrupoli etici? Come osserva Vallortigara, «secondo la normativa in vigore nell’Unione Europea, invertebrati come gli insetti non sono animali», al contrario su «pesci, anfibi, mammiferi e uccelli […] tutti gli esperimenti devono essere vagliati, vigilati e approvati da vari comitati, interni all’Università prima e ministeriali poi. Tutto ciò non vale nel caso di api, scarafaggi, pidocchi e compagnia bella». Questi viventi appunto «non sono considerati animali dalla legislazione vigente» (ivi, p. 14), come tali si può fare di loro ciò che si ritiene senza alcuna limitazione. È evidente che qui c’è un problema.

Una seconda conseguenza, questa non esplorata nel libro, è che se la condizione perché un organismo possa avere esperienza è disporre di un meccanismo nervoso che permette di distinguere fra «la stimolazione autoprodotta dalla sua stessa attività e quella che gli viene invece procurata dal resto del mondo […] là fuori» (ivi, p. 172), ne segue allora che nulla esclude la possibilità dell’esistenza di coscienze del tutto artificiali. Non solo non siamo gli unici viventi ad essere intelligenti e coscienti, al contrario, intelligenza e coscienza sono dappertutto, anche nei dispositivi artificiali, anche nelle macchine. Ultimo punto, a cui Vallortigara dedica solo una lunga nota, la questione della cosiddetta intelligenza vegetale. Un’intelligenza che, ammesso che esista, non si basa sul movimento, perché le piante non si muovono. Per Vallortigara intelligenza e coscienza sono effetti del movimento; ma le piante appunto stanno ferme, tuttavia sembrano esserci sempre più prove dell’esistenza di una peculiare intelligenza vegetale.

Dal chiuso del nostro cervello verso gli animali più simili a noi, poi verso anche quelli che non lo sono affatto, per arrivare fino agli insetti, e forse ancora più oltre. Poi le piante, della cui intelligenza abbiamo sempre più prove. Poi addirittura i dispositivi artificiali, che di animale, e nemmeno di vegetale, hanno nulla. Dovunque c’è intelligenza e coscienza, ossia quello che una volta si sarebbe detto spirito. È l’animismo la filosofia del nostro tempo.

Riferimenti bibliografici
G. Prodi, Le basi materiali della significazione, Mimesis, Milano 2021.

Giorgio Vallortigara, Pensieri della mosca con la testa storta, Adelphi, Milano 2021.

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