Le immagini iniziali di Gummo (Harmony Korinne, 1995) sono memorabili per la loro capacità di fotografare, in un modo al contempo raggelante e carico di un senso di autentica prossimità, il destino di una cittadina dell’Ohio colpita da un urgano. Scenari lividi e senza speranza di una ruralità arcaica e profonda diventano così i fondali entro cui si aggirano, quasi come spettri, figure maledette per le quali l’unico tempo possibile sembra essere quello di un presente senza domani, stritolato fra un’infanzia finita troppo presto (quella richiamata dalla nenia di apertura I love my little rooster) e un futuro che non può che essere di indigenza.

Sono diversi i passaggi di Patagonia, l’esordio al lungometraggio di Simone Bozzelli presentato all’ultimo Festival di Locarno e finalmente arrivato in sala, che hanno generato un cortocircuito con il film di Korinne, senza che ne venissero offerte delle citazioni dirette. Non ci troviamo di fronte, insomma, a nessuna forma di gioco virtuosistico; come succede spesso con il cinema più sincero e ispirato, una vera e propria costellazione di altre immagini è andata semmai componendosi spontaneamente, senza seguire un disegno preordinato, in una sorta di personale itinerario sentimentale e cinefilo. Penso, per fare soltanto un esempio, a come la compresenza di immagini di grana diversa, che sembrano appartenere a dispositivi o a istanze scopiche differenti, abbia fatto emergere in filigrante il ricordo delle immagini palpitanti che Walt filma per dar corpo alla propria passione lacerante in Mala noche (Van Sant, 1985). 

Certo, qui non siamo in America ma in una striscia di terra fra Teramo e Montesilvano, gli unici due toponimi menzionati in un’opera che proprio nel paesaggio trova uno dei suoi punti chiave. Patagonia è un film che si radica con grande consapevolezza nello spazio della provincia e ne fa il suo osservatorio d’elezione, resistendo peraltro alla tentazione – non infrequente nel cinema italiano, penso per esempio al recente Dei (Terlizzi, 2018) – di opporvi a tutti i costi la dimensione cittadina. Per tutta la parte iniziale siamo così invitati a entrare in un microcosmo remoto, antico e profondamente matriarcale (non ci sono padri, soltanto zie anziane), che ci è permesso di osservare restando sulla porta, quel tanto che basta per intravederlo senza essere voyeur di un mondo che non ci appartiene. 

C’è una festa di compleanno, occasione che trasporta immediatamente lo spettatore nel mondo di un’infanzia plastificata, di occasioni rituali pensate per l’autocompiacimento più dei genitori che dei loro figli, come ci viene esplicitamente detto. Eppure, a guardare con appena un po’ di attenzione, è l’intera parabola dei due i protagonisti del film a consumarsi attorno a questo immaginario bambinesco fatto da una serie di oggetti, comportamenti e punizioni che punteggiano visivamente e narrativamente il film. Tanto Yuri (insicuro, stanziale, in cerca di un centro di gravità grazie al quale sottrarsi a una vita vuota) quanto Agostino (eternamente in fuga, autodistruttivo e animato dal desiderio alleggerirsi di memorie e legami) sembrano infatti legati a doppio filo ad una stagione che non cessa di plasmare le loro vite. In un movimento che ricorda quello descritto da Walter Benjamin, però, è forse proprio nel continuo riferimento al passato di uno stato che non sa diventare eccezione che si può intravedere il proprio futuro. Così, è soltanto nel venire continuamente riportato alla dimensione dell’infantilità, del non pieno possesso del proprio corpo e del proprio Io, delle imposizioni di un rapporto tossico che porta a dischiudere le geografie del desiderio, che Yuri emerge come individuo dallo stato di apatia in cui l’incipit del film lo vedeva relegato. 

Si tratta certamente di un processo doloroso, che fa del corpo (del suo possesso o reimpossessamento, in base alla situazione) il proprio campo di battaglia. I tatuaggi, i piercing e gli abiti, che per tutti i personaggi del film sono forme di scrittura del sé sono invece per Yuri l’occasione di far sì che il suo corpo venga ancora una volta scritto da altri e porti, in questo caso, la firma ingombrante di Agostino. C’è un’attenzione particolare alla dimensione del corporeo in Patagonia, che non si risolve però mai nella sua riduzione all’ambito del sessuale, anche quando sarebbe stato facilissimo farlo. Siamo di fronte a un film somatico, di superfici, di pori e unghie sporche, di corpi che si danno a vedere per quello che sono, senza abbellimenti ma senza neppure la pretesa di farsi metafora di una serie di concetti, processi e dinamiche. La macchina da presa li osserva in modi sempre nuovi, passando dal troppo vicino all’estremamente lontano, dall’idea di un’aderenza carnale a quella di uno smarrimento nel paesaggio, come se una delle grandi questioni del film fosse la ricerca di una giusta distanza; a stare troppo vicini al fuoco, d’altro canto, c’è sempre il rischio di bruciarsi ma – l’immagine finale ce lo dice molto chiaramente – è in ciò che resta dopo il fuoco che possono aprirsi nuovi spazi di relazione.

In questa ricerca di distanza sembra emergere poi un altro dei tratti più interessanti di Patagonia, dove anche nei momenti di maggior dinamismo (come il rave notturno che rappresenta per Yuri l’ingresso in un mondo alieno) le immagini mantengono una qualità fotografica che sembra spingerle verso l’immobilità e il tempo contemplativo dello scatto. In certi passaggi sembra quasi che il film abbia come matrice formale una collezione di fotografie analogiche, alle quali Simone Bozzelli sembra rivolgersi tanto nella scelta di alcune cromie quanto più in generale nella definizione di una grana del filmico che si percepisce volutamente materica, carnale. È in questa dimensione che il film raggiunge i suoi punti visivamente più ispirati, perché riesce a rendere esplicita quella capacità che è tipica dell’immagine cinematografica e che emerge proprio nella sua contaminazione con altre forme estetiche, di elaborare spazi di apparizione e modellamento del desiderio.

Più e meglio di tanti film italiani recenti che sembrano condividere lo stesso immaginario ed elaborare i medesimi problemi, Patagonia è capace, attraverso un racconto di corpi che si attraggono e cercano continuamente di toccarsi senza mai riuscirci fino in fondo, di raccontare la geografia pulsionale debordante, che si deposita sugli oggetti e sugli spazi, sovraccaricandoli di senso. Muovendosi di gabbia in gabbia all’interno di un’economia della dipendenza che diventa ogni giorno più soffocante, Yuri impara sulla propria pelle il costo dei propri desideri, la loro consistenza carnale e la profondità del loro radicamento. E alla fine è attraverso l’atto elementarmente umano della scelta che egli impone, finalmente, la propria identità, libero di perdere qualcosa o di perdersi nelle ceneri di un sogno sempre e comunque troppo lontano. 

Patagonia. Regia: Simone Bozzelli; sceneggiatura: Simone Bozzelli e Tommaso Favagrossa; montaggio: Christian Marsiglia; fotografia: Leonardo Mirabilia; musiche: Leone Ciocchetto e Daniele Guercini; interpreti: Andrea Fuorto, Augusto Mario Russi, Elettra Dallimore Malaby, Alexander Benigni; produzione: Wildside; distribuzione: Vision Distribution, Rai Cinema; origine: Italia; durata: 112; anno: 2023.

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