I

Qualche tempo fa ho tenuto una lezione su Pasolini per gli studenti del Dams di Roma. Poiché erano studenti, nello specifico, di Storia dell’arte, mi ero concentrata sugli aspetti visivi della sua opera, riesaminandone soprattutto la fase ultima: Salò (1975), Petrolio (1992), gli Scritti corsari (1975), tutte opere postume o semipostume. Ero partita dal catalogo di una mostra: quella del fotografo Fabian Cevallos, che aveva recuperato, a trent’anni di distanza, gli scatti di scena delle sequenze finali di Salò. Nelle foto i giovani che nel film interpretavano i repubblichini, al netto della divisa, potevano risultare indistinguibili dai loro prigionieri, i giovinetti e le giovanette rastrellati dalla brigata tutt’altro che lieta dei quattro signori protagonisti (del film e delle scene delle torture immortalate). Gli studenti si passavano il catalogo svogliatamente: non mi parevano impressionati né dalla tragicità (e bellezza) di quelle immagini, né interessati ad approfondirne le implicazioni teoriche e il legame con la pubblicistica e il romanzo (ossia il riferimento ai concetti di “omologazione”, “mutazione antropologica”, “genocidio culturale” e la ricorrenza insistita di particolari come le chiome o i sessi, che pure andavo sottolineando nel discorso). O, almeno, non mi fecero domande in proposito.

Venne poi il momento di proiettare qualche minuto di Salò: la sequenza in cui una delle giovani, Renata, implora i signori di ucciderla, per risparmiarle le atrocità cui deve assistere (anzi, prendere parte) e i signori, in particolare Blangis, dicono di trovare “eccitante” la sua “lagna”. A un certo punto della sequenza, che, come tutto il film, esibiva un tono grottesco e una valenza allegorica, c’era in effetti un sesso maschile esposto, ma la cosa non mi parve suscitare un particolare scandalo. D’altra parte si trattava di studenti maggiorenni, quindi abilitati a vedere un film censurato, oltretutto universitari, che di Pasolini, dagli studi pregressi, dovevano essersi fatti un’idea almeno per sommi capi. Qualche tempo dopo il docente che mi aveva invitata a tenere la lezione s’incaricò di riferirmi che una delle studentesse aveva protestato. In che senso aveva protestato, m’informavo. Mi ha detto, precisava il collega, di non aver mai visto in vita sua delle immagini così violente. Come quelle del catalogo? Come quelle del film. Ci siamo interrogati a lungo su cosa potesse averla turbata a tal punto. Escludevamo fosse stata la nudità (che era pure nel catalogo, e di più), o il pianto della “piccina”. Probabilmente il tono derisorio dei signori, oppure l’atmosfera in sé. Tutto, in Salò, è violento. Ma tutto è virgolettato, non è possibile prendere alla lettera ciò che “va in scena”.

Cosa mancava, dunque, alla consapevolezza di quella studentessa? E cosa rende una ventenne esposta a Youporn e Pornhub (e in quest’ultimo anno magari spettatrice passivamente serena e divertita di Squid Game, 2021) così turbata e anzi “scioccata” di fronte alle immagini di Salò? E perché non scandalizzarsi, piuttosto, della sequenza del pratone di Petrolio, la ripetizione brutale dell’atto sodomitico su un corpo inerme, che sta dichiaratamente recitando la sottomissione (“Carlo, come obbedendo”)? Probabilmente, rispetto al testo, la passività della fruizione del film lascia lo spettatore più in balia della suspension of disbelief: si vedono “corpi” (in modo al tempo stesso ingenuo e malizioso) laddove Pasolini voleva che vedessimo “coscienze”, e la messinscena fallisce. Quando avevo poco più degli anni di quella studentessa mi trovavo alla cineteca di Bologna a fare la mia prima ricerca su materiali d’archivio. La ricerca riguardava proprio Salò, e tra gli articoli di giornale che i faldoni mi restituivano, uno mi colpì subito perché non riguardava direttamente il film ma l’esperimento di Stanford. Lessi di come, nell’Università americana, gli studenti fossero stati divisi, all’inizio degli anni settanta, in due gruppi, ciascuno dei quali chiamato alternativamente a ricoprire ruoli di comando o di sottomissione. Cosa dimostrava l’esperimento? Che le disposizioni vessatorie o all’obbedienza non erano connaturate ai singoli individui ma emergevano in relazione al ruolo vicendevolmente incarnato. Questo pensiero mi tenne compagnia per molto tempo, prima che pensassi di tradurlo in qualcosa di personale, di creativo.

Nel mio secondo romanzo, Sotto (2013), le due polarità del comando e della sottomissione si mostravano perfettamente reversibili e così le due dottorande che si contendevano un posto in università inizialmente venivano manovrate dal barone di turno e successivamente mettevano in atto, ciascuna alla sua maniera, delle strategie seduttive per arrivare ai loro scopi (la carriera, ma anche la competizione in sé). La prospettiva del dominio si rovesciava, quindi, per la debolezza di Ludwig, il barone in causa, consapevole di dover lasciare il testimone ai più giovani. Consapevolezza che Pasolini non attribuisce ai suoi signori, perché i suoi signori non sono persone ma maschere. Non hanno una divisa, ma è chiaro che incarnano il fascismo: marchio d’infamia che l’autore attribuisce a tutto quello che non gli va a genio della società contemporanea, il perbenismo borghese, l’avidità dei consumi, la mercificazione dei sentimenti. Uno dei pezzi più sentimentali che Pasolini abbia mai scritto è quello sulla concezione dell’amore di una guardia carceraria, che si fa complice di un detenuto per consentirgli di incontrare la sua fidanzata. Questo perché, scrive Pasolini, ha ancora in mente l’idea dell’amore (e del sesso) come miraggio e mito assoluto, e della sua “segretezza” (o, diremmo, nudità) come requisito essenziale, a petto dell’esibizione borghese dell’amore insincero. A quest’ultimo tipo di amore si addice il travestimento, e il travestimento è anche la precondizione del rapporto sadico in Salò.

 

II

Quando mi è stato chiesto di scrivere un racconto per un’antologia dedicata a Pasolini, un paio d’anni fa, è ancora una volta da quella scena che sono partita, dal lamento della vittima in Salò. Due figure maschili non meglio descritte si alternavano nella manutenzione domestica per un periodo imprecisato e uno scopo altrettanto indefinito («C’è un esperimento che si può fare. Prendi un uomo, chiudilo nella sua casa. Aspetta»). Il racconto turbò uno degli editor: stavolta non uno studente ma un adulto, attrezzato, consapevole, che aveva senz’altro riconosciuto la citazione tratta dalla sceneggiatura di Salò:

“Possano i miei occhi essere maledetti se questa lagna non è la cosa più eccitante che io abbia mai sentito”, diceva Blangis, mi pare, in Sade, e Pasolini lo copia pari pari. La “piccina”, che è in realtà un’attrice nordica, sui diciott’anni, piange, e piange, ed è questo il motivo per cui la violenza su di lei si fa più feroce, per la sua lagna, per la sua eccitantissima lagna. Era una modella, prima. Raccontò di come quel film l’avesse “cambiata”. Un catalogo, devo avere un catalogo, di quelle foto marroncine, da qualche parte (Policastro 2020).

Con il riferimento alle foto rimandavo, oltre al catalogo di Cevallos, al contrasto tra la modernità rossastra della Visione di Petrolio e il suo contraltare sbiadito, “giallino” del tempo premoderno (e precapitalista). Ma da cosa era stato turbato, l’editor dell’antologia? Faticai a credere che si trattasse del tono freddo, refertuale, dalla distanza che il narratore (figura che con ogni evidenza non coincide con chi firma il racconto) metteva tra sé e la narrazione. Nondimeno, le proposte di editing andavano nel segno di una normalizzazione addomesticante. Ma come si addomestica la violenza, sia pur codificata e condivisa (così, di fatto, nel rapporto sadomasochistico)? Ecco una prima chiave, forse: la messinscena, in Salò, non si coglie pienamente perché una delle due figure è in maschera, l’altra no. Le foto di scena di Cevallos depistano, e in realtà i ruoli non sono intercambiabili, ma perfettamente distinguibili. Da una parte c’è chi il potere lo esercita perché ne ha i mezzi (la divisa), dall’altra chi lo subisce perché non li ha (ed è nudo). Che sia stato questo, in definitiva, a scioccare la studentessa? La difficoltà a intendere la messinscena sadica come un open acting, in cui il ruolo del signore, domani, potrebbe essere tuo? La reversibilità di Stanford non valeva (o non sembrava valere) per Salò?

III

Carlo Bordini, un poeta emerso in ritardo, negli anni Zero, ma contemporaneo di Pasolini (anche se con un quindicennio di scarto all’anagrafe), aveva scritto, nel ’75, un testo intitolato Pasolini, una rivoluzione a metà. Quell’incompiutezza Bordini la imputava alla scissione, a suo dire non percepita fino in fondo come tale dall’autore, tra vita e opere, e alla bidimensionalità dell’opera rispetto all’immersione rischiosa e violenta dell’intellettuale nella vita tridimensionale. Non so se Bordini avesse già visto Salò, a quell’altezza, di sicuro non aveva potuto leggere Petrolio. L’idea che Pasolini non fosse entrato abbastanza nelle sue opere con i suoi traumi e la sua irrazionalità sarebbe stata in parte corretta. Quello che sciocca la studentessa è esattamente quello che irrita Bordini, ma col segno opposto: Bordini avrebbe voluto (e trovato, probabilmente, in Salò e in Petrolio) di più. Ugualmente, la lagna delle vittime avrebbe forse turbato anche Bordini, e non per il malinteso della suspension of disbilief, bensì perché ne avrebbe riconosciuto il compiacimento masochistico: ma non era proprio quello che serviva a completare la mossa rivoluzionaria, calarsi nel reale con tutta l’irrazionalità e il trauma personale?

C’è da dire che il trauma dell’ultimo Pasolini è proprio il mancato credito alla rivoluzione: nessuno fermerà l’avanzata del capitale e dei consumi, le chiome e i sessi saranno sempre più indistinguibili, non sarà possibile e nemmeno desiderabile fuggire dalla “villa” (se non suicidandosi, come la pianista). La messinscena di Salò è anche il denudamento (osceno, cioè letteralmente fuori dalla scena) dei signori, gli intellettuali che non hanno più presa sulla realtà (filtrata dal binocolo). E che dopo averlo messo a tema Pasolini sia stato, di lì a poco, orrendamente silenziato, vale anche come conferma paradossale del suo pessimismo: da cui però non lo assolvono appieno i lettori, a quanto pare. Siano essi studentesse, editor o poeti.

 

Riferimenti bibliografici
F. Cevallos, Pasolini Salò. Mistero, crudeltà e follia. Una testimonianza fotografica, L’Erma di Bretschneider, Roma 2005.
P.P. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino 1992.
G. Policastro, Possano essere maledetti i miei occhi, in Nuvole corsare. Racconti, a cura di F. Borrasso e G. Girimonti Greco,  Caffèorchidea Editore, Eboli 2020.

Id., Sotto, Fandango Libri, Roma 2013.

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