Medea (1969).

1. Nella terra pre-storica in cui regna Medea si compie un sacrificio umano rituale. Nelle immagini del film (del 1969) – al di là dell’ideologia espressa altrove da Pasolini – si allude alla temibile ambiguità e all’inganno sostanziale che presiede all’uccisione del capro espiatorio. I primi piani di Apsirto – il fratello di Medea – rivelano un misto di astuzia e stupore, quasi che lui sappia bene che il clima di festa, i canti e i sorrisi gioiosi sono un simulacro fittizio. La vittima generalmente sorride con la fissità di un drogato. Ma in alcune terribili inquadrature il suo volto si incupisce in un attonito presentimento del suo assassinio. Pare comprendere che è figlio di un dio solo per procura e menzogna, e che in realtà è stato trasformato in un feticcio di morte. Se gli enunciati ideologici sembrano attenersi alle descrizioni del sacrificio di Frazer e Eliade, le immagini sono piuttosto vicine a questo passo di Adorno:

Antichissima deve essere stata l’esperienza che la comunicazione simbolica con la divinità attraverso il sacrificio non è reale. La rappresentanza implicita nel sacrificio, esaltata da irrazionalisti alla moda, è inseparabile dalla divinizzazione della vittima, dall’inganno della razionalizzazione dell’assassinio mercé l’apoteosi dell’eletto […] l’istituzione stessa del sacrificio è il segno di una catastrofe storica, un atto di violenza subito insieme dagli uomini e dalla natura (Adorno 1966, p. 60).

Il sacrificio è compiuto per esorcizzare la violenza mimetica e preservare la potenza rigeneratrice della natura: ma in realtà la conciliazione cosmica avviene su un fondo di menzogna e di orrore. Tuttavia il sacrificio rituale si inquadra ancora in una costellazione impersonale o sovrapersonale. Altra cosa è l’uccisione di Apsirto e lo smembramento del suo corpo da parte di Medea, per favorire la sua fuga insieme a Giasone. Del sacrificio resta qui solo la nuda materialità. In questa sequenza la violenza non ha più niente di sacro, il suo egoismo primario è senza maschere. Medea ripete la forma del sacrificio per un fine egoistico e desacralizzato, sacrilegio che distrugge il fondamento della sua comunità e della sua presenza a se stessa. La natura le ammutolisce, il ciclo generativo è spezzato, il regno primitivo è dissestato e uscito dai cardini.

Medea e Giasone fuggono nella città di Corinto (Pasolini ha scelto di rappresentarla con le linee geometriche del Campo dei Miracoli di Pisa), che nel film è allegoria dell’Occidente e del moderno. Il quale però non porta la redenzione dalla violenza originaria, ma anzi la incorpora in sé e la ripete in forma deviata e profana, pura immanente volontà di potenza: «La storia della civiltà è la storia dell’introversione del sacrificio. In altre parole: la storia della rinuncia […] La dignità di eroe si acquista solo con l’umiliazione dell’impulso alla felicità» (ivi, pp. 66-67). Le Furie ctonie si ridestano nel cuore di Medea, ma sono ora incontrollabili pulsioni di morte, scarti furibondi del freudiano disagio della civiltà, che si oppongono al potere padronale, patriarcale, di Giasone (e del Re).

Nel film non c’è una chiara gerarchia di valori tra il mondo primitivo e quello moderno: sono entrambi dominati dalla violenza mimetica. Nella Medea non c’è alcuno spiraglio di conciliazione o di superamento, il negativo è radicale come sarà in Salò-Sade, anche se espresso con uno stile più sobrio e misurato. Il conflitto tra il principio matriarcale e quello patriarcale divampa come il fuoco delle sequenze finali, distruttore della città, e l’apparente supremazia del secondo è incrinata. Le Erinni femminili primordiali si rovesciano sull’indebolito simulacro di un Padre (Giasone) debole e incerto di sé. D’altra parte il femminile arcaico conosce solo la pulsione mimetica della vendetta di sangue.

2. Edipo Re (1967) mantiene una sobria misura, non frequente nella filmografia di Pasolini, forse favorita dal distanziamento del contenuto tragico. Se è vero che «“l’apologo fiabesco” sia il registro che consente a Pasolini di dare il meglio di sé come autore di cinema» (Tricomi 2020, p. 236), e che in questa misura egli realizza «un miracoloso equilibrio fra gestualità e manierismo» (Id. 2005, p. 311), a me sembra che Edipo Re sia l’unico film in cui tale armonia riesca a dilatarsi per la durata di un lungometraggio (apologhi sono La terra vista dalla luna, 1967, Che cosa sono le nuvole, 1968, La sequenza del fiore di carta, 1969, parti di film collettivi). In effetti tutta la prima metà del film è un itinerario fiabesco nel mondo del mito, con le stazioni e gli incontri archetipici che ricorrono nella struttura della favola.

Secondo Benjamin e Kracauer, la fiaba delinea un percorso di liberazione e redenzione dal chiuso ciclo del destino mitico e dalla catena debitoria delle generazioni e delle colpe ereditarie. Una fioca luce di utopia compare nei film di Pasolini solo nella dimensione della favola, che dovrebbe consentire la trasformazione delle Erinni, le dee della violenza pulsionale e sotterranea, in Eumenidi, dee del sogno e della poesia, che delle pulsioni primarie conservano la memoria integrata alla coscienza, sublimata, conciliata: «La loro follia […] non sarebbe più stata la follia della paura, bensì la follia dell’uomo che sogna», «il Passato noi dobbiamo soltanto sognarlo» (Pasolini 1988, pp. 288 e 286). Un raro squarcio utopico è contenuto nella “Lettera del traduttore”, annessa alla traduzione di Pasolini dell’Orestea:

La trama delle tre tragedie di Eschilo è questa: in una società primitiva dominano dei sentimenti che sono primordiali, istintivi, oscuri (le Erinni), sempre pronte a travolgere le rozze istituzioni (la monarchia di Agamennone), operanti sotto il segno uterino della madre, intesa appunto come forma informe e indifferente della natura. Ma contro tali sentimenti arcaici, si erge la ragione (ancora arcaicamente intesa come prerogativa virile: Atena è nata senza madre, direttamente dal padre), e li vince, creando per la società altre istituzioni, moderne: l’assemblea, il suffragio. Tuttavia certi elementi del mondo antico, appena superato, non andranno del tutto repressi, ignorati: andranno, piuttosto, acquisiti, riassimilati, e naturalmente modificati. In altre parole: l’irrazionale, rappresentato dalle Erinni, non deve essere rimosso (che poi sarebbe impossibile), ma semplicemente arginato e dominato dalla ragione, passione producente e fertile. Le Maledizioni si trasformano in Benedizioni. L’incertezza esistenziale della società primitiva permane come categoria dell’angoscia esistenziale o della fantasia nella società evoluta (Pasolini 2020, pp. 163-164).

Anche in Medea compare all’inizio qualcosa di simile, nella sequenza introduttiva del doppio centauro: il Chirone favolista che parla a Giasone bambino non è infatti “superato” dal Chirone razionale. Rappresenta piuttosto un’altra possibilità di coscienza che potrebbe affiancarsi alla ragione, in cui il mito non sarebbe semplicemente negato ma elaborato nella favola e nel sogno (Blumenberg 1991). La parabola, la fiaba, l’allegoria, in forma diversa, sono modi in cui la ragione e il mito si incontrano e depotenziano la propria intrinseca negatività unilaterale. Certo, poi, in Medea e nel Pilade questa possibilità viene mostrata come ciò che potrebbe essere e sarebbe bene che fosse ma che è anche impossibile che sia, schiacciata tra il sacrificio ctonio del capro espiatorio e la ragione illuminista e neocapitalista, altrettanto spietata. Ricompare negli Appunti per un’Orestiade africana (1970), ormai delegata al terzo mondo, ultima speranza, infine anch’essa perduta nell’inferno del Salò-Sade.

Nell’Edipo re il contagio dilaga nella città di Tebe, sommersa da una apocalisse culturale o da una crisi radicale della presenza (sono concetti di Ernesto de Martino, ben conosciuti da Pasolini, che ne parla nella breve presentazione al suo romanzo Teorema, 1968). In campo lungo la macchina da presa inquadra i corpi disseminati e corrotti dalla peste, in primo piano vediamo i volti sfigurati. L’ordine simbolico della città è sull’orlo del disfacimento: dopo le immagini dei cadaveri appestati vengono riprese dal basso in alto le mura di Tebe, bastioni ritenuti sicuri, ma ora risibili di fronte a una minaccia che non proviene da stranieri o da nemici armati, ma dall’interno stesso della polis, dalla sua civiltà travolta dal ritorno delle potenze ctonie. In effetti il dissesto non nasce con l’inconsapevole patricidio e con l’incesto di Edipo: esso preesiste, discende da una lunga ereditata serie di crimini, da un destino e da un debito che da molto tempo passano di generazione in generazione. È un simbolo materializzato di questo destino la sfinge, una sfinge che qui non pone indovinelli ridicoli e trappole finte, ma si annuncia come un abisso, e rivela ad Edipo che ora l’abisso passa dentro di lui e nella città. L’esterno diviene interno, il fuori dentro: ma forse che questa è una vera liberazione?

La sfinge è rappresentata da Pasolini come un corpo deforme coperto da una grande maschera africana. Una macchia oscura di colpe antiche e inespiate, un debito simbolico inestinto domina la città come un inconscio potere cupo e sotterraneo. Con irruenza vediamo Edipo slanciarsi a combatterla, con la spada e il coraggio, il suo coraggio picaresco e fiabesco, da eroe d’avventura, un po’ guappo, un po’ temerario. Lui pensava di portare conoscenza, libertà e progresso. Nemmeno ha dovuto affrontarla la sfinge. Si è sciolta davanti a lui come una macchia di fango; non senza però avergli comunicato il destino. Non è vero, come hanno detto alcuni, che per Pasolini Edipo non sia l’eroe sventurato della volontà di sapere, che sia solo una vittima di impulsi sconsiderati, di elementari pulsioni. Come scrive Massimo Fusillo: «L’Edipo di Pasolini esprime un eros che è nostalgia di una totalità perduta, quella dell’unità con il corpo della madre, un desiderio regressivo di ritorno a un’infanzia preedipica […] ma esprime anche tutta la tragicità dell’“obbligo di conoscere”, tutta la cupa necessaria violenza del contratto sociale» (Fusillo 1996, p. 124). È furente la sua volontà di sapere, di fronte ai cittadini riuniti, a Creonte, a Tiresia. Ma la sua ragione non sa che è dentro di lui, ormai, l’abisso, la causa del contagio, la dismisura della violenza.

Mentre presiede l’assemblea dei cittadini angosciati, Pasolini lo barda con una ridicola barba finta (che si strapperà all’emergere della verità), con una grottesca oblunga corona (uguale a quella che portava il Padre quando lo ha ucciso, come a dire che credeva – quel sessantottino di Edipo – di cambiare tutto e poi invece si trova incastrato e munito dello stesso indegno potere). Edipo re e I pugni in tasca (1965) di Bellocchio sono i film che hanno meglio colto il conflitto generazionale tra Padri e Figli, che costituiva un movimento profondo dell’inconscio del collettivo negli anni sessanta. Scrive Tricomi a tale proposito (e mi sembra che la frase possa valere anche per Edipo re): «Lo scrittore ritrae dunque il ’68 – per dirla con quel De Martino a lui caro – al pari di un’“apocalisse culturale” da cui deriva più di una “crisi della presenza”» (Tricomi 2020, p. 217). Insegne di una derisoria autorità su di lui che la folla vorrebbe Re taumaturgo, risanatore, dissolutore della peste e del contagio, e che è per contro l’artefice inconsapevole del dissesto, della crisi della presenza, dell’apocalisse incombente, o meglio: è l’ultimo rappresentante di tale dissesto, come già Laio prima di lui, il corruttore di minorenni, e Niobe e Lico e Penteo prima di lui, e Cadmo, nella catena di un debito insoluto.

Per allontanare l’estrema rovina occorre trovare il capro espiatorio, da bandire, da uccidere se necessario. Chi sarà? Uno straniero? Un pezzente? Un marginale? Edipo pronuncia in realtà la sentenza contro se stesso e accecato si acceca. Solo nel sangue e col sangue può continuare la vita – senza perdono – di questa città. Non c’è Colono nell’Edipo di Pasolini, non c’è conciliazione con le dee sotterranee, non gli è riservato un tempio sacro nella polis di Atene; Pasolini non ha più questa fiducia nella democrazia, almeno non in Europa. Anche se qualcosa di meno di una speranza affiora nel finale, che si svolge, come l’inizio del film, nel mondo moderno. Perché sia chiaro: Pasolini vuol dirci che quella tragedia, quel contagio, quel parricidio, quell’incesto, quel dissesto della città, quell’assassinio del capro espiatorio, sono gli stessi dei nostri, sono i nostri. Ed ecco vediamo il cieco Edipo moderno vagare, con la guida di Angelo, per le vie di Bologna, Angelo fischia e lui suona il flauto, quei piccoli borghesi che gli camminano a fianco, nella loro indifferenza assoluta, non sanno neanche chi è, non sanno che lui è anche la verità che è dentro di loro, qui non c’è nessun Teseo ad accoglierlo e a dargli sepoltura sacra, il neo capitalismo italiano non è Atene, e la sua finta democrazia è un simulacro, le note del flauto si perdono inavvertite, davanti alle gradinate di una chiesa che non ha più nulla di santo, così Pasolini contrae l’immagine sacra del tempio di Colono in un luogo di gente sorda, incompassionevole e indifferente.

Forse andrà meglio suonando il flauto davanti a una fabbrica? Poco lontano dei ragazzi proletari giocano a pallone, poi sono inquadrate le strutture della fabbrica e gli operai che vanno al lavoro, ma poi Edipo si morde la mano con furia, in un gesto che abbiamo visto più volte nel film, vediamo una strada vuota, no, sembra che anche qui nessuno ascolti, e allora Angelo e Edipo si incamminano verso l’origine, verso l’infanzia perduta e umiliata, la caserma ora deserta delle scene iniziali del film, e il prato dove il bambino ha visto tremare le prime immagini degli alberi e del cielo, dove ha iniziato la sua lotta coi Padri, la sua disperata nostalgia della Madre, dove è nata la sua poesia: la vita finisce dove comincia.

Riferimenti bibliografici
T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
H. Blumenberg, Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna 1991.
M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, La nuova Italia, Firenze 1996.
P.P. Pasolini, Calderón, Affabulazione, Pilade. Il Teatro I, Garzanti, Milano 1988.
Id., L’orestiade di Eschilo, Garzanti, Milano 2020.
A. Tricomi, Pasolini, Salerno editrice, Roma 2020.
Id., Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Carocci, Roma 2005.

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