«Tenderà […] a rimettere in discussione tutto, ché in definitiva mi rifiuto, sia inconsapevolmente, che consapevolmente, a ogni forma di pacificazione» (Pasolini 1999, p. 12). A conclusione dell’introduzione di un’autoantologia da raccolte precedenti, e licenziando una poesia in parte rappresentativa di un nuovo corso, così scriveva Pasolini nel 1970. Sentiva, allora, concluso un periodo letterario e politico, un altro in apertura. E tra i due “nessuna pacificazione”, ma un indomito, continuo “rimettere tutto in discussione”. Che lasciava le sue tracce evidenti anche nel corpo a propria volta non pacificato della nuova poesia, Charta (sporca), costellato di incisi, riscritture, cancellazioni e correzioni. E più in generale, come emerge da Pasolini di Antonio Tricomi (Salerno editrice, 2020), è così che può leggersi l’intero corpus del poeta friulano: impegnato di opera in opera a ripensarsi, come se ogni lavoro fosse ricapitolazione, rimessa in discussione dei precedenti e progetto di quelli a venire. Non certo, però, per autoreferenziale esercizio en-poète, ma perché teso a un costante corpo a corpo col presente, e a ripensare di volta in volta il proprio ruolo, in esso, di intellettuale civile, di poeta. Fedeltà (o passione, o amore) verso l’opera di Pasolini, allora, non può allora esaurirsi in un’idolatria sterilmente celebrativa (della quale è stata spesso fatta oggetto negli ultimi anni, e come può darsi accada anche in questo quarantacinquesimo dalla morte), ma partecipare, in sede critica, di quella stessa rimessa in discussione, sempre inquieta e mai pacificata che di quell’opera è tensione forse centrale.
L’appassionata, puntuale mossa critica compiuta qui da Tricomi mira allora a «farne rivivere la lezione» anziché «venerarne con fanatico o remissivo zelo la memoria […]» (Tricomi 2020, p. 7), andando addentro a quella tensione, e sapendo che essere a quell’opera “fedeli” o appassionati vuol dire a propria volta ingaggiare con essa un corpo a corpo, impegnarsi nella rimessa in discussione continua, non pacificata, cui sembra chiamare. Vuoi perché, come ricordava una citazione da Giorgio Pasquali in Uccellacci e uccellini (1966), “i maestri vanno mangiati in salsa piccante” per non farne monumento e istituzione – come segnalato nella prefazione –, o anche perché, come scriveva il Fortini di Verifica dei poteri che rifletteva sulla fine del “mandato sociale” dello scrittore, la poesia «non la pace deve portare nel mondo, ma la spada», prendendo in prestito un’espressione che il Cristo di Matteo usa nel descrivere ai Dodici la propria missione.
E allora, partecipando di questo non pacificato corpo a corpo le cui stigmate reca l’opera pasoliniana (e criticamente, con questa, entrando in comunione), Tricomi saggia, guardando a un’opera dopo l’altra (poetica soprattutto, e narrativa, saggistica, cinematografica) quella sua congenita «inclinazione a riscriversi» sempre, in questo rintracciando il «cardine della sua poetica» (ivi, p. 62), e scoprendo le motivazioni che in ogni nuovo lavoro alimentano questo non pacificato rifarsi.
Così, quando l’analisi di Tricomi guarda alle forme, alle strutture dei singoli lavori, ne fa emergere l’intrinseco dinamismo. La meglio gioventù (1954) è ripresa e rimessa in discussione delle poesie in friulano del decennio precedente, è il mondo contadino di Casarsa e insieme l’autoritratto intellettuale del poeta che ad esso si vuole vicino e se ne scopre (borghese lui stesso) distante, e cerca, inquieto, altri metri, altre parole, altre forme, altri mondi in cui collocarsi. Gli otto capitoli di Ragazzi di vita (1955), lungi dal configurarsi l’uno come sviluppo consequenziale dell’altro, elementi progressivi di una narrazione compatta e coesa, lasciano piuttosto intravedere la propria natura originaria di racconti, di «micro-mondi narrativi» (ivi, p.79). Le variazioni di metrica, la sempre più magmatica esplorazione di forme nell’opera poetica (gli endecasillabi e terzine de Le ceneri di Gramsci – raccolta che giustamente Tricomi propone di leggere un po’ come saggistica in versi, dunque ancora una forma “non pacificata” – si fanno via via sempre più irriconoscibili, fino ai “Poemi zoppicanti”, ai “comunicati”, ai “documenti” e agli “appunti” dell’ultima raccolta Trasumanar e organizzar), dicono a propria volta di un indomito e continuo «divenire delle forme» (ivi, p. 67).
Può darsi che tale mobilità di forme interne alla singola opera, o dall’una all’altra, o anche da un mezzo espressivo all’altro, sia legata all’idea che «la verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni», come recitava l’esergo a Il fiore delle mille a una notte (1974). E che perciò si debba dinamicamente cercarne e provarne diverse, a una qualche verità tendendo. Ma, come suggeriva Jago-Totò a Otello-Ninetto in Che cosa sono le nuvole (1967), senza mai nominarla o fissarla una volta per tutte, senza pretesa di esaurirla in un discorso ultimo, unico. Sta anche in questo, secondo Tricomi, il modo di essere pedagogo e poeta civile di Pasolini: di chi non oggetti autotelici offre con le sue opere, paghe della propria forma o significazione, ma spinge i fruitori a «valutare criticamente le ipotesi di senso che» queste gli offrono, o di attualizzarne fuori i significati, o di «inverarle o smentirle con azioni comunque tese a mutare l’esistente» (ivi, p. 267). Opere da farsi, quindi, e utopie civili da realizzarsi.
Da questo punto di vista, si potrebbe dire che tutto Pasolini sia, in fondo, sempre empirista ed eretico, perché ogni suo lavoro sembra in fieri, sembra prendere forma per l’autore «solo strada facendo» (ivi, p. 85), impegnato a verificare se stesso e i precedenti, o i futuri, rifiutandosi a ogni pacificante ortodossia, impegnandosi a un corpo a corpo con se stesso, col proprio presente. Si tratta di trovare, di poesia in poesia, un saggio o un film dopo l’altro, la forma che più consenta di “stare a livello delle cose”, fisicamente «sempre a livello della realtà» (Pasolini 1999, p. 236). Che è poi la possibilità del mezzo cinema che più affascina Pasolini, quella dell’esser poeta però «senza l’interruzione […] simbolica di un sistema di segni linguistico» (Pasolini 2008, p. 1554), il dire le cose con le cose stesse, quali “segni viventi di se stesse”, prese dall’alfabeto illimitato, non scritto, non istituzionalizzato della realtà che col cinema condivide la lingua.
«Niente come un film costringe a guardare le cose» (Pasolini 1999, p. 571), quindi, ma Pasolini – multimediale avant la lettre e poligrafo, secondo Tricomi – ha cercato di farlo sempre, un po’ con ogni mezzo espressivo, sollecitando e impegnando i suoi fruitori in un’analoga costrizione. E senza riguardo alcuno per ortodossie di pensiero, se al ceppo funerario di Gramsci confessava che è per lui «religione» l’allegria della «vita proletaria», e «non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza» (Pasolini 2009, p. 820), se nella sua opera non v’è spazio per il prospettivismo lukàcsiano (al cui rifiuto da parte di Pasolini, Tricomi dedica una densa e argomentata riflessione). Se è solo, paradossalmente, non ambendo a conquistarlo, ma rimanendo fuori da ogni potere, da ogni omologazione alla totalitaria cultura borghese che tutto a sé assimila, che un mondo – quello sottoproletario, nella fattispecie – può non perdere la specificità delle proprie forma di vita.
Ma se il compimento di quell’assimilazione aberrante, che è “genocidio” e “mutazione antropologica”, asservimento al borghese edonismo consumista, a Pasolini sembrò progressivamente sempre più ineluttabile, pure la sua opera non ha cessato di ingaggiare con quello il proprio corpo a corpo. Fino alla fine persuasa che «nel restare / dentro l’Inferno con marmorea / volontà di capirlo, è da cercare / la salvezza» (ivi, p. 793), o che poesia è «qualcosa di buio in cui si fa luminosa / la vita» (ivi, p. 1085). Anche sentendosi disperatamente vitale, o lucidissimo e impotente al contempo. Magari come il regista Welles ne La ricotta (1963), marxista ma rassegnato al proprio inserimento nel fagocitante sistema capitalistico (“il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale”, diceva all’intervistatore), perché mancano uomini di cultura che realmente siano in opposizione all’industria culturale che tutto normalizza, tollera, strumentalizza (come Pasolini registrava, soprattutto, nell’Abiura dalla Trilogia della vita). Anche sentendo, come il corvo di Uccellacci e uccellini, di “non contare più”. E che la passione civile, umana, letteraria, non diversamente dalla cometa inseguita dal magio randagio Epifanio-Eduardo nel film non realizzato Porno-Teo-Kolossal, può essere stata sì «un’illusione» e «una stronzata», ma senza quella non avrebbe «conosciuto la realtà» (Pasolini 2001, p. 2753). Non sarebbe, cioè, stato comunque tenacemente “costretto a guardare le cose” con marmorea volontà di capirle per orrende che fossero.
Anche sapendo, ancora, che l’ultimo romanzo, Petrolio (1992), è in fondo opera «inutile» perché pronta «ad ammettere una […] disillusa intenzione politica e a reputarsi il mero residuato […] di un cogente discorso civile», eppure insieme «smaniosa di reperire interlocutori anche solo futuri» (Tricomi 2020, pp. 303-304). Quelli che noi siamo, forse. Ora che, dalla nostra avvenuta mutazione antropologica nel segno del consumismo edonista, non par possibile vedere altro che lanterne, ci facciamo prendere ancora dal corpo a corpo “pedagogico” con Pasolini, con la sua opera, nello sforzo di credere invece non scomparse le lucciole, o nell’impegno a trovare una qualche parola civile che le salvi.
Riferimenti bibliografici
F. Fortini, Verifica dei poteri. Saggi di critica e di istituzioni letterarie, Il Saggiatore, Milano 2017.
P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999.
Id., Poesie, Garzanti, Milano 1999.
Id., Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, Milano 2001.
Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 2008.
Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Mondadori, Milano 2009.
Antonio Tricomi, Pasolini, Salerno editrice, Roma 2020.