Paris brûle. Parigi brucia. Non che la capitale francese sia letteralmente investita da un incendio, ma nondimeno essa brucia tutta intera con uno dei sui simboli più noti: quella Notre-Dame il cui tetto sprofondava nelle fiamme qualche giorno fa. E brucia con la cattedrale – per metonimia, per identificazione – tutta la città, tutta la Francia. Brucia nelle immagini – strazianti, impreviste, incredibili – che hanno subito cominciato a circolare, caoticamente: nelle dirette streaming, nei servizi televisivi, nelle foto della stampa. Queste immagini che ci assalgono all’improvviso, un lunedì sera all’ora dell’aperitivo, portandosi nell’immediato il dubbio della paura più contemporanea: attentato? Perfino il nuovo algoritmo moderatore di YouTube si fa prendere dal dubbio, sovrapponendo a questi contenuti testi esplicativi circa le Twin Towers. La rima visiva tra le due torri della chiesa avvolte dal fuoco e i grattacieli newyorkesi che crollano (quasi vent’anni fa, oramai) si produce in ogni caso nello spettatore rammemorante in modo istintivo, fulmineo.
Non di terrorismo si tratta oggi, ma di accidente. Eppure la tonalità affettiva dell’evento mediatico nonché la potenza emotiva e visiva della rappresentazione si fanno eco. Malgrado tutti i tentativi di pacificare la percezione, di imbalsamare il reale e i suoi paesaggi, di controllare l’incertezza evenemenziale, qualcosa si produce (tra realtà e circuiti mediali) cogliendoci alla sprovvista, facendo un’imboscata alle nostre scenografie perenni e stereotipe. Un sussulto nella tranquillità rodata e ronfante della routine mediatica: le dispute dei governanti nel tg, le conseguenti imitazioni di Crozza, il cine-panettone per Natale… Per fortuna, qualcosa sfugge sempre – all’anestesia immaginativo-percettiva (Montani) o alle strategie di «pre-mediazione» (Grusin) che tentano di fare dei media uno spazio di controllo e programmazione dei sensi e dei gesti.
Qualcosa si produce e scuote l’inerzia calma. «Nadav Lapid bouscule le cinéma français» («Nadav Lapid dà una scossa al cinema francese»). Lo scorso mese, Les Cahiers du cinéma (n. 753) annunciavano così l’uscita nelle sale cinematografiche di Synonymes, l’ultima opera del regista israeliano, premiata con l’Orso d’oro. Raccontando il memorabile personaggio di Yoav – giovane israeliano sbarcato a Parigi in preda ad un rifiuto radicale della patria e una smodata passione par la Francia – Lapid investe il cinema francese con un’eccezionale forza inventiva e critica. E finisce, attraverso l’esperienza filmica, per investire e disgregare il mito e la retorica della Nazione. Lapid bouscule la Francia e i suoi clichés, colpendola al cuore: prendendo di mira la sua centralissima capitale, nonché la sua lingua e il patriottismo repubblicano benpensante.
Attraverso Yoav e la sua storia apatride di non-più-israeliano e non-ancora-francese, solo lo sguardo esterno del forestiero si dimostra capace di rimettere in discussione i presupposti più fossilizzati e delicati della République, in un periodo di particolare nervosismo segnato da terrorismo, nuovo Roman national ed État d’urgence. Uno sguardo tanto innamorato quanto spietato, che accomuna (autobiograficamente) il regista e il suo personaggio. Questo sguardo, nel contempo iconoclasta e magniloquente, che è quello corrucciato e ferino di Tom Mercier. Attore sorprendente, che associa (da novello Ninetto Davoli) una presenza fisica imponente e inusuale a una leggerezza lirica e irriverente. Il parallelo quasi obbligato con il terremoto angelico del Teorema pasoliniano ci permette di aggiungere alla lista della decostruzione corrosiva dei pilastri transalpini operata da Synonymes l’attacco critico all’élite borghese parigina – esausta, raffinata, imperterrita, nella palude di una «disperazione di non esser abbastanza disperati» (Lapid).
Il caso inventa talvolta delle felici congiunzioni, come nel caso cromatico del lungo cappotto giallo ocra d’alta sartoria che Yoav riceve in dono nelle sequenze iniziali e che porta sistematicamente e asceticamente fino alla fine del film, abbinato a improbabili canotte sportive. Il giallo non è per nulla un colore neutro nelle Francia di quest’inizio 2019: non del giallo pentastellato qui si parla, ma di quello catarifrangente dei gilets. Lo sconvolgimento sensibile e intellettuale del fulcro del sistema indotto dal protagonista fittivo di Synonymes sembra incarnare alla perfezione lo spirito di crisi reale provocato dal movimento (anarchico, provinciale, anonimo) dei gilets jaunes. Ben prima che Notre-Dame prenda fuoco fortuitamente, le immagini di un centro città parigino “on fire” avevano fatto il giro del pianeta in seguito alle molteplici manifestazioni che avevano perturbato la quiete olimpica della capitale con graffiti su monumenti nazionali, incendi di ristoranti di lusso e saccheggi a boutiques scintillanti.
La continuità tra i Cahiers sostenitori del film di Lapid e quelli precedenti dell’editoriale «Une France qui se tient sage» (n. 751), che hanno concesso un credito significativo a questo sollevamento popolare, costituisce un evento insolito e significativo. Che i Cahiers d’oggi (non certo quelli intransigenti e radicalmente engagés di ieri) prendano di petto l’attualità francese e costituiscano uno spazio di critica del potere centrale, è senza dubbio il frutto di un momento di particolare fragilità e apertura della situazione politica oltralpe. Il loro singolare impegno è figlio del nostro tempo. E nel clima di questo tempo (francese, ma anche europeo) incerto e delicato, rientra precisamente il lavoro cinematografico di Lapid che si trova a dialogare, per le vie indirette e traverse degli affetti e delle forme, con un panorama socio-politico particolarmente vivace e precario.
Ciò che scuote l’inerzia non solo “si” produce in modo impersonale (come per i gilets jaunes o l’incendio), ma talvolta possiamo dire che è prodotto da qualcuno di preciso, inventato cinematograficamente, ad esempio. Bisogna rendere merito alle intuizioni registiche di Lapid, che fornisce con Synonymes una carne filmica convincente a questo (gioioso, sorprendente) stravolgimento delle forme stereotipe e dei valori assodati, della Francia parigina innanzitutto. Di queste intuizioni numerose, diamo due indizi: uno più sonoro-linguistico e l’altro più visivo. Si tratta di menzionare, innanzitutto, il laborioso e stupefacente rapporto alla lingua francese che caratterizza il personaggio di Yoav. Il tratto principale dell’eroe di Lapid – che, con il suo trio, pare uno spettro della Nouvelle Vague – è di certo la dedizione pirotecnica all’apprendimento della lingua francese, sigillato da un oblio volontario e indiscutibile dell’ebraico.
La vitalità di questo corpo a corpo con la lingua riposa anche e soprattutto sulla prestazione “reale” dell’interprete Tom Mercier, lui stesso cittadino israeliano non francofono. Maltrattata e magnificata dall’apprendistato di Yoav, tra un lirismo arcaico e gli inventari sinonimici compitati sul Larousse poche, la lingua francese diviene il cripto-protagonista del film. Nel rapporto inconsueto e ludico del locutore straniero, la lingua incontra la sua critica e la sua clinica e, balbettando, trova nuovi percorsi di singolarizzazione fabulatrice. Nei favolosi dialoghi (e monologhi) di Synonymes, per esempio. Quei dialoghi, per altro, in cui il ricco Émile dalle velleità letterarie deve ammettere la propria frustrante ed esangue relazione alla narrazione e al linguaggio di fronte al verbo vulcanico di Yoav e al suo impellente desiderio espressivo. Émile il vampiro, Yaov il vandalo.
Un secondo indizio, visivo. Assorto nel suo studio lessicale, Yoav attraversa senza posa Parigi, con il capo chino rifiutando austeramente di contemplare le bellezze monumentali della capitale. In una soggettiva irrequieta, la cinepresa segue i movimenti del protagonista e inquadra per lo più marciapiedi, scorci frettolosi di strada e scampoli di cielo – senza mai concedersi di incorniciare il paesaggio. Yoav non è turista. E Synonymes è un film parigino che, con una crudeltà limpida, non s’attarda mai sui panorami più classici della capitale francese rinunciando al romanticismo visivo di parecchie fiction recenti sulle città storiche del Vecchio Continente (vedi Woody Allen). Questo diniego a pagare un «doveroso» tributo ai simboli monumentali della città – in apparenza, all’inizio, un gesto di umiltà – sembra rovesciarsi in un’amara parodia nelle scene in cui il protagonista frequenta alcune lezioni di cittadinanza per la naturalizzazione. Vero momento chiave del film di Lapid, queste sequenze mordaci fanno scivolare il rapporto (precario) di ammirazione verso la Francia di Yoav verso la farsa e il rigetto iracondo.
Tra la corrosione parodica e l’accusa dolorosa, il protagonista di Synonymes si trova alla fine a tentare di abbattere a spallate l’ingresso sbarrato della Francia e il sogno di conquistarla (da straniero, come Napoleone o Pogba, eroi presi in cartolina). Ma non è possibile asserragliarsi dietro la porta in silenzio attendendo che l’altro se ne vada, che il suo ardore smetta di bruciare: come sembra fare Émile alla fine del film con l’amico; e il governo Macron con i gilets jaunes; e l’Europa con i flussi migratori… Poco di solido dell’impero francese resta in piedi dopo il passaggio tragicomico del barbaro Yoav, come poco rimane del tetto di Notre-Dame. Tocca ora (ri)costruire, (ri)comporre, (ri)fondare, (ri)organizzare, (ri)costituire, (re)inventare… I gesti che si aprono sono, come i sinonimi, molteplici.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, Critica e clinica, Cortina, Milano 1996.
R. Grusin, Premediation. Affect and medially after 9/11, Palgrave, Londra 2010.
N. Lapid, La beauté des injustes, in «Cahiers du cinéma», n. 753, (2019), pp. 10-18.
P. Montani, Tecnologie della sensibilità, Cortina, Milano 2014.