Avranno 15 anni o forse meno i ragazzini napoletani (e, molto verosimilmente, di ogni dove) che, nel contatto quotidiano con violenza, sopraffazione e criminalità organizzata, e attratti da lussi e stile di vita consumistico fondato sul possesso di cose, decisi a conquistarsi uno status che non sperano di raggiungere altrimenti, diventano una banda criminale. È la mutazione che attraversa i protagonisti del film La paranza dei bambini, diretto da Claudio Giovannesi, e ispirato al romanzo omonimo di Roberto Saviano, coautore, col regista e Maurizio Braucci, della sceneggiatura (Orso d’Argento a Berlino 2019). 

Nel gergo camorristico, una batteria armata si chiama paranza, come la frittura di pesci di piccola taglia e come le barche notturne che, con l’inganno di una luce, li attraggono alle reti. La muta in cui, come piccoli pesci, sono presi Nicola e i suoi amici Tyson, Briato’, Lollipop, Biscottino e gli altri, li vede conquistare la fiducia dei boss locali e stringere con loro alleanze più o meno temporanee, procurarsi e usare armi, e stabilire, loro, la banda di “avanotti”, il “controllo” su Rione Sanità.

Si direbbe che nel film, il cambiamento che attraversa Nicola e gli altri sia, oltre una loro “perdita d’innocenza”, come ribadito dal regista, una vera e propria mutazione antropologica, più o meno nel senso in cui l’intendeva Pasolini. Il cui universo poetico Giovannesi ha in altre occasioni frequentato o evocato, fin dal titolo – Alì dagli occhi azzurri (2012) –, o fatto serpeggiare in altre componenti di film come Fiore (2016) dove, coerentemente con le storie di adolescenti dai genitori distanti o assenti, suonava il brano Fatherless, parafrasi strumentale di Sometimes I feel like a Motherless Child, che punteggiava il pasoliniano Il Vangelo secondo Matteo (1964).

I due valori «Dio» e «famiglia» […] sono due valori tout court, quando in nome loro si istituisce una vita popolare — magari sotto il livello di quella che noi chiamiamo storia — oggi non contano più: in nome loro non si può più parlare ad alcun giovane […]. La caduta del prestigio «irrelato» di tutti i valori di una intera cultura, non poteva non produrre una specie di «mutazione» antropologica, e non poteva non causare una crisi «totale». Tutte le classi sociali ne sono coinvolte, e la perdita dei valori riguarda tutti, benché i più colpiti siano i giovani delle classi povere […] (Pasolini 1999, p. 615).

Assenti i padri, ancora, nel film di Giovannesi (in questo di una secchezza più atroce rispetto al romanzo, dove il capo della paranza Nicolas detto ‘O Maraja – nel film semplicemente Nicola – un padre l’aveva, per quanto “privo” di una reale potestas), mancando difensori dei venditori del quartiere o delle madri quando la malavita va a “cercargli il pizzo” e, in definitiva, estintosi in maniera più cruenta presso i giovani delle classi povere un sistema valoriale che “tenga”, ecco che anche desideri e aspettative elementari (senso di giustizia, “cotte” e bisogni affettivi) di questi pesci di piccola taglia vanno mutandosi secondo il richiamo delle sirene del consumo e dei suoi status-symbol.

Ecco, quindi, che la loro ingenuità totale, anche nel desiderio di rivalsa, è con disponibilità e candore assoluti attratta – come da lampare – da vestiti costosi, accessori, tavoli riservati in qualche locale. La macchina da presa partecipa del fluttuare delle loro nuche di vetrina in vetrina, come di tutto il loro errare su due ruote che non solo non ha padri, ma soprattutto ha il proprio ordine simbolico in balia dell’avvenuta mutazione antropologica e colonizzazione dell’immaginario. Se devono imparare a sparare, affascinati da armi vere prima viste solo nei videogiochi, lo fanno guardando un video su YouTube, se devono riconoscersi, certificarsi, rappresentarsi l’avvenuta conquista di uno status, si scattano un selfie. Il faro regolativo di questa paranza di fratelli di strada senza padri, sono le immagini.

– Le teniamo le regole, Nico’, siamo tutti fratelli.
– I fratelli senza giuramento non sono niente. E i giuramenti si fanno sulle cose che contano. L’avete visto Il camorrista, no? Quando ’o Professore fa il giuramento in carcere. Veritavéllo, sta ’ncoppa a YouTube […] (Saviano 2016, p. 157).

Non importa, poi, vedere nello schermo dello smartphone i selfie, che per altro non sono neppure tanto insistiti. Giustamente cadenzati, invece, si scattano come a siglare i riti di passaggio di una adolescenza (il primo colpo di pistola andato a segno) che sembra averne perduto altri. Interessa quindi che quell’immagine sia, in campo medio, compresa nella loro esistenza, nelle loro mani. Interessa che questi ragazzini, la loro emotività, le loro speranze, il loro elementare senso di giustizia, siano attraversati da una mutazione del proprio ordine simbolico, del proprio alfabeto esistenziale.

Colpisce come tale muta non si dia, qui – a differenza di tanto juvenile crime, ganster e mafia movie (e serie: Giovannesi stesso ha diretto due episodi di Gomorra) – come scalata al potere che si compie per sparatorie ed esplosioni di violenza spettacolarizzate. Perché se Nicola e gli altri hanno in quell’immaginario iconico il proprio faro-guida e la loro idea di riuscita e rivalsa informate da modelli aberranti e imperanti nel quotidiano di violenza, potere, successo, non può darsi alcuna marca estetizzante a rivestire le imprese della paranza dei bambini.

Una “posizione morale”, quindi, e un pudore sottrattivo che si vuole assolutamente dalla parte del candore dei suoi protagonisti, e che previene il film – non volendolo Giovannesi “ricattatorio” o “esibizionista” – dal farsi compiaciuto dramma dell’innocenza violata, sentimentalismo e retorica. Si spara istintivamente, infatti, senza pianificazioni avventurose, eccitanti, spettacolari, e a meno che non s’inceppi la pistola. Per l’attentato vero ci si traveste, tutt’altro che uomini fatti e forti, da donna (una muta, ancora), per poi vedersi la propria immagine allo specchio colare rimmel che traveste lacrime. In questa muta, i protagonisti, si è detto, sono attraversati e presi. Passivi, paradossalmente sempre meno soggetti di- qualcosa quanto più cercano di conquistarsi un ruolo con le proprie azioni, e sempre più assoggettati a-qualcosa, che è ‘O Sistema e il suo immaginario.

Stringere Nicola nel primo piano o le nuche degli altri in corsa: sembra che questi pesciolini non abbiano spazio, e la Napoli che nel romanzo di Saviano affiorava per repentini e puntuali schizzi di geografia anche umana, costumi, scrupolo toponomastico, qui è frammentata apparizione di vicoli, facciate, portoni, per quanto il corpo della Sanità sia a tratti ancora riconoscibile, pur lacerato, e senza più alcun faro né padre (né eduardiano Sindaco a comporne le vertenze, a evitare conflitti). Non c’è codice e immaginario alternativi a quelli della criminalità e dei suoi modelli.

Quasi non ha immagine, questa città, in cui simbolicamente ordinarsi, e non solo perché i suoi Olvidados potrebbero darsi ovunque, ma perché Napoli si filma qui come fosse un acquario dove ci si dibatte e si fluttua di continuo. Quel che se ne intravede ha sì l’aspetto cadente, tetro, ma a volte capace di improvvise accensioni di colore, e, come nel candore dei visi degli interpreti, di sorrisi, di disperata vitalità e amori. Sacrificabili, tuttavia, alla muta in cui si è presi e che tutto inghiotte, informando e contagiando di sé regole, ordine simbolico, immaginario. Ed è nell’immagine di una strada-acquario, palazzoni immersi in lontananze azzurre, in un’immagine che sembra piatta, asfittica, che par quasi restringersi a imbuto intorno ai loro 125, i bambini vanno a sprofondarsi però davvero, a collassare le branchie.

Riferimenti bibliografici
A. Finos, Giovannesi: “La Paranza, romanzo di formazione sulla perdita dell’innocenza”, «la Repubblica», 12 febbraio 2019.
P.P. Pasolini, La droga: una vera tragedia italiana, in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999.
R. Saviano, La paranza dei bambini, Feltrinelli, Milano 2016.

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