In un’intervista del 1988, ripubblicata ne L’atto di vedere, Wim Wenders sottoscriveva l’idea kracaueriana di cinema come mezzo capace di intercettare lo spirito dei tempi e di restituire, rendendo visibile la superficie delle cose, una registrazione e una rivelazione della realtà. «Forse il nostro cammino ci porta oggi da, e attraverso, il corporeo allo spirituale?», si domandava retoricamente Siegfried Kracauer nella Prefazione al suo Film: ritorno alla realtà fisica. «Il cinema è stato inventato per questo: perché il nostro secolo aveva bisogno di un linguaggio che rendesse tutto immediatamente visibile», rispondeva Wenders alle sollecitazioni del suo intervistatore a proposito della capacità (e della necessità) del cinema — di Tarkovskij, di Ozu, per esempio — di incarnare nei suoi stessi mezzi riproduttivi e sostanzialmente fotografici la possibilità di un’estetica dello spirituale. L’ontologia di Kracauer, tesa ad attribuire al cinema, per estensione rispetto alla fotografia, l’inclinazione naturale a cogliere la realtà e a redimerla rispetto al soggettivismo frenetico della modernità, è dunque uno dei fondamenti dell’esplorazione wendersiana del nostro tempo attraverso il cinema documentario.
Esplorazione giunta ora a un’impresa dai presupposti ostici: raccontare i primi cinque anni del pontificato di Papa Francesco in un film commissionato direttamente dal Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede. Al regista tedesco (e protestante) sono stati concessi libero accesso agli archivi audiovisivi vaticani e la disponibilità del Papa per alcune interviste sui temi ricorrenti nel suo magistero e nell’agenda contemporanea. Dopo il film sul teatrodanza di Pina Bausch (Pina, 2011), uno dei pochi in cui il 3D non è ridotto a puro orpello spettacolare, e l’elegante tributo al toccante lavoro del fotografo Sebastião Salgado (Il sale della terra, 2014), Wenders compone un nuovo documentario costruito su tre diversi usi di tracce di realtà. Ne descriverò brevemente due, mentre varrà la pena soffermarsi con più attenzione sul terzo.
La prima traccia di realtà è una ricostruzione di alcuni episodi fondamentali della vita di San Francesco d’Assisi — a cui è sovrapposta, per anima rivoluzionaria e amore per la povertà, quella del primo Papa a chiamarsi col suo nome — realizzati però sul posto con una macchina da presa a manovella risalente agli anni venti e un attore che interpreta il Santo. L’esito è un piccolo film nel film con l’estetica in bianco e nero e la pellicola graffiata tipica del cinema delle origini. Ma nonostante la tecnica effettivamente originaria, il risultato è l’emulazione di uno stile antiquato: un effetto di realismo che paradossalmente comunica inautenticità.

La seconda traccia di realtà è costituita dal riuso delle registrazioni televisive degli impegni pubblici di Papa Francesco: l’elezione a pontefice (e prim’ancora un discorso da vescovo di Buenos Aires a Plaza De Mayo), i viaggi apostolici (dalle favelas brasiliane alle periferie di Napoli), le udienze pubbliche (il catechismo ai bambini in aula Paolo VI), le riunioni con i vescovi a Palazzo (compreso il famoso discorso sulle malattie del corpo della Chiesa fra i cardinali sbigottiti), gli incontri internazionali (le giornate mondiali della gioventù e della famiglia, il discorso alle Nazioni Unite e al Congresso americano) e le visite in luoghi sensibili (nel carcere di Poggioreale, in un ospedale africano, in un campo nomadi alla periferia di Roma). Ne emerge un mosaico ricco e rappresentativo del magistero di Bergoglio, supportato dall’inconfutabile realismo offerto dalle immagini telegiornalistiche che mostrano il suo stesso corpo e la sua stessa parola in azione.
Fin qui dunque emulazione vintage e riuso footage come forme di realismo. Ma è la terza traccia proposta da Wenders a riuscire davvero a cogliere e comunicare allo spettatore la scintilla spirituale ma umanissima di Papa Francesco. Alle immagini artificiali del Santo di Assisi e ai materiali d’archivio delle uscite pubbliche del pontefice si intersecano gli stralci di quattro interviste realizzate dal regista lungo l’arco di due anni con l’ausilio dell’Interrotron. Messo a punto dal documentarista statunitense Errol Morris (a partire da Fast, Cheap and Out of Control del 1997 e poi in The Fog of War: La guerra secondo Robert McNamara del 2003, premio Oscar come miglior documentario), questo dispositivo è una specie di “gobbo” speculare non dissimile dal teleprompter, il sistema di visualizzazione di testi direttamente sull’obiettivo della macchina da presa, usato per i discorsi dai politici o dagli speaker televisivi.
Qui invece è proprio l’immagine del volto dell’intervistatore ad essere trasmessa sul monitor posto innanzi all’intervistato, e viceversa. I due interlocutori possono così guardarsi (indirettamente) negli occhi e allo stesso tempo fissare costantemente l’obiettivo della macchina da presa. A differenza delle interviste classiche, in cui l’intervistato guarda inevitabilmente verso l’intervistatore distogliendo così lo sguardo dall’obiettivo, l’Interrotron consente di realizzare l’intervista mantenendo la forza e il magnetismo del contatto visivo tra due persone a poca distanza, e così di trasmetterli allo spettatore.
Nel 2000 Errol Morris ha discusso dell’uso nel cinema documentario di questo sistema da lui escogitato. «Quando guardi questa intervista non è come se due persone stiano parlando tra di loro. Tu sei una di quelle persone. Tu sei una delle persone realmente coinvolte». Il risultato nel film di Wenders in effetti è che il Papa stia indirizzando il proprio messaggio direttamente e senza mediazioni al singolo spettatore, interpellandolo — per usare un’espressione tipicamente semiotica — in prima persona. Grazie al contatto visivo costante, l’impressione è di avere un’intima conversazione con il Papa, un faccia a faccia personale, aumentato dall’efficacia espressiva del primo piano (ancor più se la visione avviene sul grande schermo di una sala cinematografica).

Adottando questa tecnica Wenders riesce a porre il Papa e lo spettatore a un’eccezionale prossimità spaziale ed emotiva. Il bagliore lucido del suo sguardo, le espressioni paterne del suo volto, il suo sorriso limpido, il tono amichevole della sua voce (parla in spagnolo, nel dialetto argentino, la sua lingua madre) istituiscono un rapporto fortemente empatico grazie a cui ci si sente davvero coinvolti in un dialogo intimo, in una conversazione privata ben lontana dai toni di un sermone pontificale. E tuttavia si parla, e senza censure, di temi di portata universale dal peso epocale: la povertà e la fame nel mondo, l’ambiente e la cura del pianeta, la pedofilia e la corruzione nella Chiesa, il rapporto tra cattolicesimo e altre fedi, la condizione femminile, l’omosessualità, le malattie e le catastrofi naturali. Ma grazie all’Interrotron ogni frase del Papa diviene un invito personale a riflettere e ad agire. Il sistema potenzia le sue formidabili capacità comunicative naturali sfruttando la disarmante verità che solo il volto umano riesce a trasmettere, esaltando la qualità di presenza che è poi il suo principale carisma.
Non si può allora non tornare a Béla Balázs, intellettuale che negli anni venti del secolo scorso aveva sottolineato la portata dirompente di quella che riteneva la vera invenzione del cinema come mezzo di restituzione di visibilità all’uomo: «Il primo piano ha non soltanto ampliato ma ha anche approfondito la nostra visione della vita. Non si è limitato a mostrarci oggetti nuovi, ma ce ne ha pure svelato il senso». «Nel primo piano – scriveva Balázs – v’è spesso la drammatica rivelazione di ciò che realmente si nasconde nell’“apparenza” d’un uomo». E ancora, «La fisionomia e la mimica sono le forme più soggettive d’espressione di cui l’uomo disponga»; «vedendolo isolato, ci troviamo improvvisamente soli, a quattr’occhi, con quel volto», a prescindere dallo spazio, dal tempo e dalla figura intera cui il volto appartiene. «Lo studio della microfisionomia ha dimostrato, fin dagli inizi del film muto, che su un viso in primo piano si può leggere più di quanto vi stia scritto in modo normalmente visibile».
Il Papa anziano di Wenders sembra quasi una risposta al The Young Pope di Sorrentino: se Pio XIII priva volontariamente i fedeli del suo volto e si eclissa nell’ombra, con Francesco vediamo un Papa da vicino come mai prima d’ora, scoprendone la microfisionomia involontaria e per questo emotivamente autentica dell’espressione. Nella ressa contemporanea delle immagini, tra avatar e facce televisive, tra morphing e fake faces, il volto umano sembra aver smarrito la propria funzione certificativa e la propria inconfutabilità, anche in regimi di rappresentazione che si prefiggono di restituire la realtà. Per Wenders tornare al racconto attraverso il volto, lo sguardo diretto e la prossimità alla microfisionomia facciale, sembra poter essere un’occasione per ricucire apparenza e realtà, linguaggio e azione: in questo senso Francesco è “un uomo di parola”, come dice il titolo del film. Perché esprime ciò che dice.
Proprio a partire da questo nesso fra espressione e significato (è ciò che sembra) — e non semplicemente tra fare e agire (fa ciò che dice) — potremmo cercare di andare oltre la retorica dei buoni sentimenti che a primo acchito il film appare promuovere. «Il volto è quella lastra nervosa porta-organi che ha sacrificato l’essenziale della propria mobilità globale, e che raccoglie o esprime apertamente ogni sorta di micro-movimenti locali che il resto del corpo in genere tiene nascosti», scriveva Gilles Deleuze ne L’immagine-movimento a proposito dell’“immagine-affezione”. E tuttavia «non vi è primo piano di volto —, il volto è in se stesso primo piano, il primo piano è di per sé volto». Come per Emmanuel Lévinas, dell’Altro noi non vediamo il volto, anzi il volto non è neppure qualcosa di visuale e dunque di visibile. Piuttosto, «il Volto parla», è tale solo nel discorso, è una voce che si ascolta, un’immagine acustica. Il volto è una prerogativa dell’umano, la condizione stessa per la significazione, primità per la quale esso non produce significato, lo è direttamente, riflessivamente, auto-referenzialmente, unione di forma e contenuto antecedente alla significazione, significante che ha sé stesso come significato.
Non a caso sia Deleuze sia Lévinas, pur con caratterizzazioni diverse, usano il termine devisage per indicare lo “svoltarsi” del volto in primo piano, quel momento in cui l’isolamento del volto dal resto del corpo, dell’identità, dell’ambiente e del tempo, lo denuda e lo espone alla sfigurazione che caratterizza la modernità. Ma se per Deleuze (a proposito del cinema di Bergman) «il primo piano-volto è al contempo la faccia e il suo sfacimento» e per Lévinas il Volto «disfa la forma in cui si offre», nel film di Wenders il volto del Papa in primo piano sembra poter resistere allo svoltarsi, alla sfigurazione. È a tutti gli effetti un volto che parla; il suo volto è parola, incarna il significato che pronuncia, il suo sguardo è linguaggio che, oltre la logica dell’enunciazione, per mezzo di una tecnologia trasparente, istituisce una pura relazione. Come ama dire Wenders, «È lo sguardo che decide se qualcosa è stato visto».
Riferimenti bibliografici
B. Balázs, Il film, Einaudi, Torino 2002.
G.Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.
S. Kracauer, Film: ritorno alla realtà fisica, Il Saggiatore, Milano 1962.
E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980.
E. Morris, “The Fog of War: 13 Questions and Aswers on the Filmmaking of Errol Morris by Errol Morris”, Film Magazine, Winter 2004.
W. Wenders, “La percezione di un movimento. Intervista di Taja Gut”, in L’atto di vedere/ The Act of Seeing Ubulibri, Milano 1992.