Uno dei leitmotif che hanno accompagnato la dolorosa scomparsa di Paolo Villaggio potrebbe essere così riassunto: ha avuto il colpo di genio di inventarsi una maschera straordinariamente incisiva come quella di Fantozzi, premiata con una gigantesca simpatia da parte del pubblico, ma forse, come artista, non è riuscito ad esprimere tutto il suo potenziale, se si eccettuano alcune collaborazioni illustri, nelle quali ha lasciato intravvedere una sensibilità che avrebbe potuto essere altrimenti valorizzata.
È una prospettiva fuorviante. Le interpretazioni d’autore di Paolo Villaggio sono momenti accessori della sua carriera d’artista, piccoli lussi o deviazioni, quasi dei vezzi. Sì, Paolo Villaggio ha lavorato con Fellini, con Ferreri, con Olmi, con Monicelli, con Nanni Loy, con Lina Wertmuller e molti altri nomi che hanno segnato la storia del cinema italiano, concedendosi anche parentesi teatrali di grande prestigio, ma non è questo il contesto in cui l’artista genovese ha espresso la parte migliore del suo talento creativo.
Il suo pieno potenziale, infatti, si è manifestato proprio nel quadro della cultura popolare, prima televisiva, poi letteraria e infine cinematografica, con la progressiva messa a punto di quelle maschere che vanno dal Professor Kranz al Ragionier Ugo Fantozzi, passando per Giandomenico Fracchia: protagonisti di un universo altrettanto mascherato, popolato da Pine, Calboni, Filini, Signorine Silvani e mille altre creature che fanno ormai parte della koinè dello spettatore italiano.
Perché c’è sempre una ragione per cui un comico diventa proverbiale, universale, laddove gli altri suoi colleghi o concorrenti passano come meteore, lasciando segni superficiali sull’immaginario collettivo. E questa differenza è marcata da due fattori: la complessa stratificazione che dà un peso specifico enorme alla maschera, consentendole di imprimersi a fondo, di farsi ricordare in quanto “verità psicologica”, ovvero mito, e la capacità di costruire attorno ad essa un universo narrativo che la sostiene e ne fa risuonare il significato, amplificandolo e rilanciandolo continuamente.
Perché il Ragionier Fantozzi è una specie di Frankenstein che viene plasmato assemblando pezzi di altre figure, da sempre in relazione fra loro ma ciascuna caratterizzata da un minore grado di adattamento all’ambiente comico nel quale è inserita. Definito, giustamente, da Gian Piero Brunetta una sintesi fra Atlante e un coboldo, nella fisicità infantile attraversata da continui spasmi nevrotici di Fantozzi c’è qualcosa che rimanda a un’antichissima rappresentazione teatrale popolare (quella che va dalla Commedia dell’Arte a Dario Fo, per intenderci: e del resto Villaggio aveva iniziato nella compagnia Mario Baistrocchi), però filtrata attraverso l’esperienza dello slapstick, dal lavoro di gente come Roscoe Fatty Arbuckle o lo stesso Oliver Hardy, perfettamente introiettati da Villaggio, che infatti renderà loro omaggio – in coppia con Renato Pozzetto – con una fortunata serie di comiche mute.
In Fantozzi sono operative almeno altre due linee comiche, con il loro corollario di influenze e le loro variazioni di temi e registri. Da una parte la comicità metafisica, che ha a che fare con il gusto per l’iperbole, un gusto surrealista, spesso destinato a sconfinare nella crudeltà, nella mostruosità, nell’assurdo: la ferocia con cui infierisce sulle debolezze dei suoi personaggi ha qualcosa a che vedere col piacere che provocano certe opere di Buñuel o del già citato Ferreri (con Tognazzi e Azcona: basti pensare alla figlia Mariangela trattata da scimmia durante la premiazione dei figli dei dipendenti…), così come non sono rari gli sconfinamenti nel teatro dell’assurdo (le frequenti apparizioni mistiche o i sogni mostruosamente proibiti) e le stilizzazioni a orologeria nella rappresentazione di un soggetto totalmente alienato che rimandano direttamente a Tati. Una sua versione “pop”, ovviamente, ma la descrizione delle tattiche di Fantozzi per strappare secondi alla sveglia mattutina o la preparazione dei dipendenti per la grande fuga della campanella non avrebbero sfigurato in un film di Monsieur Hulot, e del resto Emilio Cagnoni ha ampiamente dimostrato le relazioni profonde che legano il celebre ragioniere ai raggelanti meccanismi della tragicomicità di Kafka.
Ma, naturalmente, il versante del Ragioniere che più ha determinato il suo successo popolare e la sua fama è quello che potremmo definire pomposamente “sociopolitico”. C’è in lui l’eco di tutta la satira dei secoli passati che ha riguardato la messa in scena della violenza simbolica, non solo nelle differenze di classe, ma in tutte le relazioni di potere segnate da una differenza significativa di capitale: sociale, culturale o economico che sia. In questo senso, Fantozzi nasce con una certa tradizione della comicità ebraica, si formalizza con Gogol e arriva a imparentarsi con tutti quei simboli dell’inferiorità e dell’inadeguatezza che nella cultura di massa vanno da Paolino Paperino a Marcovaldo, fino ad Alan Ford, che non a caso è praticamente coetaneo.
Fantozzi è sempre, costantemente, inevitabilmente sfortunato perché è sempre, in qualsiasi circostanza, in una condizione di subalternità, di inferiorità, il lato debole di una relazione di dominio. In questo senso non è certo casuale il fatto che questa maschera venga concepita durante il boom economico e si sviluppi negli anni successivi. Da una parte, l’amarissima presa di coscienza del fatto che una società affluente non avrebbe automaticamente emancipato nessuno. La libertà dal bisogno materiale, almeno per la generazione che aveva vissuto la transizione, non avrebbe trovato corrispondenza in un cambio tempestivo di habitus. Quelli che una volta erano stati i servili e passivi braccianti di un abbrutito proletariato, si erano trasformati negli altrettanto servili impiegati di basso livello di una megaditta che corrisponde ad un socialismo paternalista realizzato, una forma di governo consociativo che, anni dopo, Checco Zalone avrebbe celebrato nella sua canzone dedicata alla Prima Repubblica, chiudendo un cerchio che si era aperto con Il Posto (1961), il capolavoro di Olmi, e la cui circonferenza sarebbe stata tracciata per almeno 25 anni proprio da Villaggio.
Fantozzi è la versione derelitta, e per la verità tenerissima, dell’everyman di Umberto Eco e del mostruoso uomo medio (per la verità medio-basso) di Pasolini, depurato di ogni nostalgia del passato (Fantozzi è Fantozzi in tutte le epoche, è metastorico). Allo stesso tempo, Fantozzi è anche la risposta alle critiche che – dall’alto, di nuovo esercitando una forma di elitaria violenza simbolica – venivano rivolte allo stile di vita e al faticosissimo processo di adattamento che milioni di italiani stavano compiendo per sopravvivere, un po’ come potevano, ai nuovi stili di vita e al nuovo sistema di valori. Perché si fa presto a dire rivoluzione sessuale o società dei consumi, quando sei troppo inibito per rivoluzionare alcunché e quando gli unici consumi che puoi permetterti col tuo stipendio sono una Seicento e la televisione.
Insomma, alla fine, Fantozzi è uno come tutti, costantemente in bilico fra l’arte di sopravvivere, un gran rumore di fondo, desideri improbabili e miserie quotidiane. Capace di tirare avanti con una tenacia invincibile, fedelmente innamorato di sua moglie e affettuoso padre di una figlia non sempre facilissima. Lavoratore instancabile e affidabile, capace di trovare un punto di mediazione anche con i colleghi più fastidiosi. Una brava persona, un eroe che si è caricata anche la pesantezza del nostro vivere e ci ha reso l’esistenza un poco più leggera.
Riferimenti bibliografici
G. P. Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo: Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Laterza, Roma-Bari 2015.
G. Manzoli, Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976), Carocci, Roma 2013.