Siamo esseri mortali. Buona parte della tradizione occidentale nella quale siamo cresciuti ci ha insegnato – sin dalla prima infanzia e con precetti non poco fastidiosi – che la nostra esistenza è caduca e che prima o poi dovrà finire. Qualunque adulto dotato di un certo spirito d’osservazione difficilmente potrà negarlo: il momento in cui iniziamo a percepire quella che un romanziere del secolo scorso chiamava «l’irreparabile fuga del tempo» (Buzzati 2024) coincide anche con la percezione della fine delle cose. Ci è anche stato insegnato che questo breve lasso di tempo storico che ci è stato concesso, non avendo in sé alcun senso, non solo deve essere caricato di un significato illusorio e assumere la forma di una nera meditatio mortis, ma deve anche essere, nello stesso tempo, sacrificato e sottomesso a qualche fine trascendente (che sia una certa visio dei ormai impossibile o il lavoro come forma di vita, poco importa).
Talvolta, certo, può esserci d’aiuto una qualche forma di umorismo (Ricordati che devi morire!), così come può consolarci la vista dei bambini che giocano, perché nell’infanzia non solo non si sa nulla del tempo e della storia, ma neanche si immagina la possibilità di quei torbidi desideri con cui gli adulti sviliscono l’esistenza. Oppure, se si vogliono prendere le cose sul serio, per combattere la tristezza conseguente all’idea che l’essere umano sia un individuo finito, temporale e storico, spesso si escogitano strategie che finiscono col ricalcare o peggiorare ciò da cui si intendeva fuggire: così accade, ad esempio, in certe concezioni mistiche o archetipiche. Poiché è «l’uomo faustiano che crea la storia» (Brown 1968, p. 144) e il processo storico nasce sempre dall’inquietudine dell’uomo, ovvero dal suo desiderio di divenire altro da ciò che è, la possibilità di pensare le cose in termini non temporali si trasforma inevitabilmente nella nostalgia regressiva di un qualche paradiso perduto (cfr. Eliade 1968).
Eppure, tra queste due alternative, tra l’idea della finitezza delle cose e quella di un’eternità arcaica, si dà dell’altro. E questo altro nasce da una constatazione ben precisa, che potrebbe suonare all’incirca così: non si sa bene perché, ma spesso tendiamo a dimenticare di vivere in questo mondo. È in una prospettiva simile che con il suo ultimo testo, Melanconia e fine del mondo (Feltrinelli, 2025), Paolo Godani vuole aiutarci a ripensare la nostra condizione di finitezza. Chiunque abbia confidenza con le sue ricerche saprà bene che a percorrerle è la necessità di concepire le cose finite come espressioni di una natura infinita, attraverso la critica di concezioni vitalistiche, antropologiche e personalistiche. Se nel precedente lavoro (cfr. Godani 2021) ha indagato in che modo sia potuta venir meno una certa attitudine metafisica, che consentiva all’uomo dell’âge classique di percepirsi come una parte del cosmo, ora Godani decide di studiare quello stesso fenomeno in tutt’altro senso.
È la nozione di melanconia a suggerirgli un diverso approccio. Partendo dalla constatazione che il mondo moderno – e in modo particolare il ventesimo secolo – è afflitto da una forma radicale di melanconia, il suo obiettivo consiste nello studio delle ragioni che l’hanno prodotta e delle specificità che la caratterizzano. Godani, di fatto, chiama melanconia la percezione di quella precisa forma di perdita ontologica o cosmica di cui aveva tracciato l’archeologia ne Il corpo e il cosmo. È in questo senso che:
La melanconia sembra avere un suo proprio correlato metafisico, se non una sua condizione, nella percezione del carattere essenzialmente effimero di ogni cosa, nella percezione del fatto che qualsiasi cosa esista una volta soltanto, per sprofondare poi nel nulla, e dunque in verità sia già, fin dall’inizio e nella sua stessa essenza, nulla (Godani 2025, p. 28).
Non è un caso che, in origine, questo testo avrebbe dovuto intitolarsi Metafisica e melanconia. La melanconia che è oggetto di questo testo, infatti, è un fenomeno non di natura personale ma, come lui stesso ammette nell’introduzione, «sociale, culturale, storica e persino metafisica» (ivi, p. 11).
L’opera, che nella quarta e ultima parte proporrà un tentativo per risolvere il problema che mortifica il nostro tempo, analizza nelle prime tre sezioni i vari modi con cui l’esperienza melanconica ha potuto trovare le proprie condizioni di possibilità nell’episteme moderna, mostrando in definitiva come su questa stessa struttura melanconica, che costituisce «il fondo nascosto della nostra cultura umanistica» (ivi, p. 203), poggi «l’intera riflessione contemporanea circa l’essere umano nei suoi rapporti con la natura delle cose» (ivi, p. 45). D’altronde, proprio per la relazione che la melanconia intrattiene con la nozione di nulla, Godani riesce anche a cogliere come alla base delle dottrine antropologiche, umanistiche ed esistenzialistiche non vi sia altro che un fondo di nichilismo.
Nella prima parte, quella più propriamente metafisica, abbandonando ben presto le analisi freudiane, l’autore si affida a pensatori quali Sartre e De Martino, per mostrarci che la melanconia da cui è affetto il mondo moderno non solo è una sofferenza di fronte alla caducità di tutte le cose, percepite come uniche e finite, ma consiste anche in una perdita di senso del mondo. Il melanconico, poiché non fa che cogliere delle cose «il fatto della loro esistenza, il loro esserci puro e semplice – un esserci che, privato delle sue qualità e dei suoi attributi, finisce per non distinguersi dal nulla» (ivi, p. 33), si ritrova in un mondo insensato, in cui le cose appaiono a caso, senza più alcuna relazione l’una con l’altra. Da ciò nasce l’esigenza che è a fondamento dell’antropologia novecentesca e di tutta la riflessione esistenzialistica: quella di dare un senso al mondo (accedere all’ethos del trascendimento, dice Godani con De Martino).
L’essere umano, in quest’ottica, sarebbe l’unico animale in grado di giustificare la propria esistenza, oltrepassando la sua natura bruta e conferendole una dignità e un senso di cui altrimenti sarebbe priva. Ma proprio il fatto che il melanconico non sia in grado di adempiere a tale dovere (dal quale comunque non riesce a distaccarsi) non fa che mostrarci come tale senso, in realtà, non sia altro che un’illusione e un’invenzione specificamente umana: «Il melanconico sposa il principio antropologico di base, l’esigenza del trascendimento, e al contempo, restando fedele all’intrascendibilità del dato bruto dell’esistenza, ne smaschera il (mal)funzionamento» (ivi, p. 53).
Ci troviamo di fronte al punto nodale dell’analisi di Godani: se il mondo va giustificato, è perché il mondo, in sé, non ha alcun senso. La struttura melanconica su cui poggia la riflessione contemporanea dominante gioca con questa bizzarra e triste dialettica: il mondo è del tutto insensato ma, al tempo stesso, è scomparsa l’illusione di potergli dare un senso. Di questo nichilismo Godani ci fornisce una fisionomia decisiva, differente da quella a cui comunemente siamo abituati: non il dissolvimento dell’essere, del mondo e di Dio, ma un’età in cui «ciò che si dissolve è la fede in un altro mondo» (ivi, p. 65). Ma, dicendo questo, ciò che Godani intende mettere in luce è precisamente il fatto che quella credenza in un altro mondo si era potuta costruire denigrando questo mondo.
Ora che quella fede è scomparsa, non rimane più nulla: «per favorire la fede nella vita eterna, si è denigrata questa vita nonché il corpo che la esprime, facendo di essi un orrendo ammasso di malattia, di sofferenza, di morte» (ibidem). Da questa constatazione prende avvio la seconda parte del testo, che studia il modo in cui il corpo umano è stato inteso nell’era melanconica. Essendo percepito come qualcosa di intrinsecamente fragile, malato, disgustoso e precario, questo corpo-feccia si è presentato «come la quintessenza di quell’insensatezza che caratterizza la percezione melanconica in genere» (ivi, p. 74).
Come in ogni opera di Godani, anche qui la riflessione politica non è marginale ma costituisce l’esigenza che muove la stessa analisi metafisica. La terza parte, infatti, si propone da un lato di mettere in evidenza il rapporto che tale concezione melanconica del corpo intrattiene con il fascismo, mostrando anche come questa religione della morte, che per Furio Jesi attiene sempre a una cultura di destra, attraversi «l’intera cultura contemporanea, in quanto caratterizzata da quella che è una vera e propria passione per gli inferi» (ivi, p. 115). Dall’altro lato, è qui che troviamo la messa in discussione di ciò a cui – come leggiamo nella conclusione del testo – l’autore era «più legato: una certa melanconia di sinistra» (ivi, p. 205). La stessa prospettiva marxiana, di fatto, si inserisce a pieno titolo nella struttura melanconica che è alla base delle concezioni di Sartre, Heidegger e De Martino, perché, assieme a loro, non rappresenta altro che «una piega dell’episteme moderna» (ivi, p. 135).
Di contro, ciò che Godani auspica è la possibilità di pensare una politica che sia fondata non sulle mancanze dell’essere umano né sulla sua eccezionalità, ma su ciò da cui gli uomini sono costituiti, su ciò che già c’è, perché «un mondo comune esiste già, qui e ora» (ivi, p. 126). Una forma non melanconica di comunismo, dunque, che non si basi più sulla produzione di un mondo a venire né sul lavoro come strumento comune di socializzazione.
È su questa via che, nell’ultima parte del testo, Godani sviluppa la sua coerente soluzione. Uno dei fili conduttori di tutta la sua analisi è ciò a cui accennavamo all’inizio: la svalutazione di questo mondo. Godani decide di mettersi dalla parte di coloro che potrebbero essere accusati «di abdicare alle più elementari regole della critica» (ivi, p. 55), sostenendo che «il senso del mondo non è un’invenzione della libertà umana, ma coincide con la distinzione e l’ordine che le cose hanno in loro stesse» (Ibidem).
Per questo motivo, seguendo una tendenza anti-moderna, piuttosto che indurre il melanconico a cercare nuove illusioni trascendenti o a curarsi, ad esempio risvegliando in lui il desiderio e un interesse per la vita, Godani ipotizza che si potrebbe seguire il malinconico sulla sua stessa via del disinvestimento libidinale, ma per invertirne il senso, per farne apparire il rovescio. Prendiamo in considerazione alcune caratteristiche che l’autore mette in luce della postura melanconica: sospensione dell’azione, assoluta indifferenza nei confronti delle cose, percezione di una certa staticità e immanenza di tutte le cose che si trovano esattamente su uno stesso piano. Ecco, un individuo del genere (senza progetto, senza trascendimento, senza storia) sembrerebbe essere un uomo morto, privo di vita. Oppure lo si potrebbe pensare come un uomo che torna a essere nient’altro che natura.
Questa visione naturalistica o descrittiva, non più antropocentrica e personalistica, è la postura di quello che Godani chiama il melanconico risanato: «Liberati da queste tendenze moderne, i nostri sguardi ritrovano le cose nella loro impassibile necessità, nella loro fermezza e solidità, nella loro uguale perfezione» (ivi, p. 164). Evitando di cercare altre fedi illusorie, si rimane sullo stesso terreno melanconico, eppure tutto è cambiato. «La via che introduce al rovescio della melanconia non ha le caratteristiche del cammino vittorioso, dell’eroico superamento di un ostacolo o della conquista intellettuale» (ivi, p. 177), ma il mutamento consiste in una differente visione: rovesciare la melanconia significa iniziare a vedere le cose diversamente.
È in questo senso che Godani, affidandosi alle fonti più disparate in campo pittorico (Caravaggio, Velázquez), letterario (Flaubert, Woolf, Musil), cinematografico (Deleuze), nonché filosofico (Spinoza, Benjamin) ci mostra che questa postura contemplativa, che sorge dalla stesso terreno melanconico nel quale ci si trovava, consente di cogliere il mondo sub specie aeternitatis, libero dal giogo di quel tempo cronologico che, in quanto tale, non è mai stato essenziale alla natura delle cose. «Non c’è niente che abbia avuto bisogno di essere trasformato, eppure tutto appare ora in un’altra luce, come se fosse un mondo nuovo. Ma tutto era già là e vi è da sempre, già da sempre salvo» (ivi, p. 180).
Riferimenti bibliografici
N. O. Brown, La vita contro la morte. La concezione psicoanalitica della storia, Il Saggiatore, Milano 1968.
D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano 2024.
M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma 1968.
P. Godani, Il corpo e il cosmo. Per una archeologia della persona, Neri Pozza, Vicenza 2021.
Paolo Godani, Melanconia e fine del mondo, Feltrinelli, Milano 2025.