Antichrist (Von Trier, 2009).

C’est la panik panik panik / sur le peripherique
Trop de traffic, panik economique / Catholique Islamique

Panik Ecologik / Total bombe atomique 
Manu Chao, Panik Panik

Proviamo un esperimento: prendiamo un testo vecchio più di quarant’anni, dal titolo Il panico politico (1973), scritto a quattro mani dai filosofi francesi Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy, e ora pubblicato in italiano da ETS nella collana “Libertà di psicanalisi”, e vediamo che cosa può dirci della situazione attuale sull’Italia di oggi e sulle sue derive neofasciste e xenofobe.

A dispetto del loro carattere di appunti apparentemente provvisorio le riflessioni del libro sembrano infatti non aver perso niente della loro urgenza. Di fronte all’insorgenza di ciò che a volte troppo velocemente si definisce “populismo”, di fronte alle fake news della propaganda continua, dei selfie estivi sulle spiagge, di fronte alla provocazione assunta come strategia politica asfittica e al loro momentaneo successo mediatico, possiamo forse parlarne come degli effetti di un panico talmente generalizzato da passare inosservato. O da essere assunto unicamente nel registro psico-patologico della formula dell’“attacco di panico”, espressione divenuta ormai quasi familiare e d’uso quotidiano.

Si prenda il tema delle migrazioni. Basterebbe citare solo l’erronea percezione diffusa in Italia che il numero degli arrivi sia enormemente superiore a quello reale, per avere la misura approssimativa di un panico onnipresente. Come Freud argomenta nelle sue riflessioni sulla psicologia delle masse, il panico è l’espressione di una psiche collettiva che tende ad abolire se stessa. L’accumularsi compulsivo di comportamenti rivela una disgregazione in atto del tessuto sociale, che se da un lato frantuma qualsiasi legame, tende poi a recuperarne alcuni di farlocchi e posticci, come quelli di patria, di “famiglia naturale”, ecc. La cancellazione delle forme di una dimensione comune è a sua volta, direbbero Lacoue-Labarthe e Nancy, il frutto avvelenato di una deriva narcisistica del soggetto contemporaneo, prigioniero della propria immagine. Questa dovrebbe rassicurarlo sulle sorti sue e del mondo, finisce invece per bloccarlo in una rappresentazione identitaria mummificata.

Un soggetto in queste condizioni si trova costantemente sull’orlo del panico. Del resto è proprio l’attacco (di panico, appunto) a essere invocato oggi nei più diversi contesti sociali come giustificazione preventiva e non richiesta del proprio sé e delle sue manchevolezze. L’“attacco di panico” è sintomatico della richiesta da parte dei soggetti di una prova oggettiva della propria esistenza individuale: soffro, mi agito, mi impanico, dunque sono. Al tempo stesso l’ideologia dell’“attacco” esclude a priori qualsiasi valenza politica del panico. I soggetti in panico invocano a gran voce un capo, un padrone, un individuo eccezionale che li tenga, li ami, li faccia godere. Da parte sua il capo non mancherà di moltiplicare le prove di essere come loro: di andare allo stadio o in spiaggia, di essere avvicinabile a tutti coloro che vogliano farsi un selfie insieme a lui… Lui, il capo, li ama tutti, i suoi soggetti, la sua “gente”, essendo esattamente come loro. Come un sovrano medievale moltiplica a dismisura i segni della sua presenza ubiqua grazie al lavoro dei suoi aiutanti, stregoni del panico.

Per una di quelle rivelazioni inconsce di cui il linguaggio non è mai avaro, la somma di tali soggetti non è mai chiamata “popolo”, denominazione considerata vetusta e infrequentabile, ma per lo più “gente”, denominazione generica e sommaria di un soggetto de-politicizzato il cui comune denominatore è unicamente la lamentela vittimistica e l’autocommiserazione. Nel processo di identificazione tra la “gente” e il proprio capo, una massa si organizza libidicamente, trovando come punti di aggregazione degli stereotipi banali, ma potenti. Con un’analisi molto fine, condotta sulla scorta di Freud, Lacoue-Labarthe e Nancy hanno mostrato già più di quarant’anni fa come l’identificazione non realizza mai un’immedesimazione: lo scarto tra la “gente” e il capo richiede una continua conferma di sé e prima o poi tende fatalmente ad aggravarsi. L’enfasi posta sull’identificazione conduce a una forma di non-relazione. Così l’esistenza di una pluralità di narcisi non implica che trovino un punto di aggregazione: in virtù del loro narcisismo sono in rapporto con il mondo unicamente “tramite il loro non rapporto”. Come tali non divengono mai dei soggetti, dal momento che la soggettività non ha luogo in questo costante prescindere dall’altro, tipico di quella che gli autori definiscono “una asocialità o una socialità alterata”, che è l’unico orizzonte di tutti i narcisi impanicati.

Se il panico si qualifica invece come “politico”, è perché nonostante tutto rappresenta quel momento critico in cui, perso il legame che la teneva come tale, una massa appare come una potenza informe, come una disgregazione continua, fatta di individui “estranei e ostili gli uni agli altri”. In questa condizione a dominare è Narciso, colui il cui sguardo è rivolto unicamente al proprio sembiante e per il quale l’altro non c’è o è tanto indifferente da valere la massima per cui l’altro buono è sempre solo l’altro morto (escluso, cancellato, soppresso, rimpatriato, ecc.). Solo a questo titolo si comprende come oggi, con un’estrema facilità, si possano scrivere con grande nonchalance sui social minacce di sterminio e di liquidazione dei migranti, per poi passare alle aggressioni rivolte ai più inermi di una società. Questa disgregazione radicale, questo piacere per l’eliminazione anche solo immaginaria dell’altro, costituiscono la verità politica del panico, che ci piaccia o no. In tutta la loro veemenza, gli insulti razzisti, xenofobi e fascisti, che circolano sul web di questo inizio di millennio, costituiscono l’espressione di un rapporto non-rapporto anaffettivo con l’altro, che a bene vedere non è altro che una pura semplice relazione oggettuale, in cui l’altro è ridotto al rango di oggetto, dunque inscritto nel registro dell’avere e non in quello dell’essere.

Alla fine il luogo in cui questi narcisi impanicati si incontrano non è sicuramente la Patria vagheggiata dai nazionalisti, né è un’Europa di popoli retti unicamente dalla loro xenofobia e da ciò che reputano tradizionale, ma quella che Lacoue-Labarthe e Nancy chiamano “la no man’s land di più narcisi”. In questo orizzonte l’armonia prestabilita promessa dal principe identitario lascia il posto alla lotta violenta in cui ciascuna identità deve per forza di cose escludere tutte le altre, trovandosi a sua volta disconosciuta e destituita dalle altre presunte identità in gioco. L’unico destino che finiscono per condividere è quello di un’esclusione. Che ci sia qualcuno a cui farla pagare, è la verità storica – la nuda verità – di questa disgregazione. Alla fine di questa lotta che attualmente viviamo sotto l’apparentemente rassicurante ghigno feroce di volti a uso stampa, riemerge l’idea della morte come principio di fondo.

D’altra parte il panico non produce alcuna certezza se non la propria afflizione. Uomini e donne si ritrovano soli nell’immensa afflizione che hanno prodotto. Il principio identitario a cui si appellano è incapace di produrre l’espressione dell’“io sono”. L’unica certezza è che l’altro buono è l’altro morto: certezza necrofila di un’angoscia, certezza che non conosce altro che la soppressione del mondo come prova della propria esistenza. Anche il capo, il padrone, per desiderabile che appaia, non libera da questa angoscia, ma contribuisce anzi a rilanciarla. Egli appare sempre dopo il primo morto, appare sempre nell’ombra di questa cancellazione dell’altro ad oltranza. Questa dissoluzione di qualsiasi altro orizzonte che non sia la cancellazione dell’altro rivela qualcosa di più dell’impotenza di quel padre che è stato invocato come soluzione di tutti i mali. Ma l’impossibilità di perdurare a lungo in una condizione di questo tipo fa di nuovo appello alla necessità di una politica dopo la perdita di Narciso. Questa politica non solo ha da resistere alla tentazione sacrificale di indicare un capro espiatorio, ma implica anche la necessità di andare aldilà di qualsiasi modello politico. Il compito qui è meno teorico, e piuttosto fa parte di una pratica e, forse, di un insieme di pratiche per uscire da questo avvitamento su se stesso di quel soggetto che credeva di sapere, mentre non era altro che la vittima delle sue stesse paure e dell’abnorme estensione che esse assumono quando vengono prese come la moneta corrente dello scambio sociale.

Riferimenti bibliografici
P. L.-L. e J.-L. Nancy, Il panico politico, Edizioni ETS, Pisa 2018.

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