Dietro un velo di nuvole traluce un sole pallido, malato, come l’annuncio di una apparizione. È la prima immagine di Padre Pio di Abel Ferrara. La camera scende sul paesaggio rugoso e aspro dell’entroterra contadino pugliese. In groppa a un asino un giovane frate si inerpica sulle pendici scoscese di Monte Sant’Angelo, lungo il pietrisco dei viottoli, diretto a un convento isolato nel borgo di San Giovanni Rotondo. È Padre Pio da Pietrelcina, destinato a diventare una figura centrale della devozione popolare del Novecento: il Santo delle stimmate, dei miracoli fulminanti, dei furori mistici. Siamo nel 1920, al culmine di quel “biennio rosso” che vide lo scatenarsi delle lotte operaie e contadine, all’indomani del primo conflitto mondiale, quando il “reducismo” degli “Arditi del Popolo” rivendicava le sue battaglie sociali. Ed è su questa coincidenza temporale che Ferrara costruisce la tensione del film, divaricata tra gli esterni assolati delle campagne e gli interni oscuri del convento trafitti da fiamme ardenti di ceri e candele.

C’è subito una doppia entrata in scena nel “teatro” del paese. Da un lato il frate che viene da fuori per mettersi alla prova, preda di una crisi spirituale che lo espone alle tentazioni del maligno. Dall’altro il ritorno dei reduci dal fronte, con le loro divise sdrucite, che salgono le scale di pietra, avanzano sulla piazza, mentre i familiari aspettano che venga pronunciato il nome di un militare sopravvissuto oppure disperso, caduto in battaglia. Ferrara filma questa scena corale lanciandosi subito in quella che è una cifra stilistica forte: il convulso aggirarsi di un occhio che sembra orbitare nella scena, pulsare di vita propria (spesso con la macchina a mano, o con l’uso di soggettive libere indirette molto pasoliniane). La camera genera un fibrillare ardente di immagini che non cessa di caricare l’azione e la visione con scudisciate visive violente. Quell’occhio si insinua tra la folla del paese in un vorticare vertiginoso. Inquadra gli abbracci, i pianti, i volti, i gesti, con piani ravvicinatissimi, facendoci subito sentire il respiro della comunità e contrapponendo i contadini, la gente povera, alla rigidità dei carabinieri, alle facce truci dei proprietari terrieri. Da qui in poi il film racconta due conflitti: un conflitto sociale tra classi subalterne e sfruttate e i piccoli potentati del paese, e un conflitto interiore che ha come campo di battaglia il recesso animico di Padre Pio, la psicomachia del taumaturgo. Una comunità e una singolarità. Ferrara realizza uno dei suoi film più ispirati, pregno di una furia allucinatoria attanagliante. Dopo Pasolini (2014) inscrive ancora nel titolo un nome proprio Padre Pio. E nella figura del frate illumina la medesima pulsione del poeta, lo stesso furor che spingeva Pasolini a corporizzare il sacro fino al martirio, fino alla immolazione cristica.

Rinserrato nella notte oscura della sua cella Pio (che ha il volto duro e febbricitante di un attore americano come Shia LaBeouf) ingaggia una lotta corpo a corpo con il diavolo, suddivisa in tre apparizioni, quasi tre “tentazioni” (e qui il dialogo filmico ricorrente in Ferrara con Scorsese, cui l’accomuna il tema della colpa e della redenzione, sembra riverberarsi con un ricordo di L’ultima tentazione di Cristo, 1988). La prima apparizione è quella del demonio stesso, seduto nell’ombra di fronte al letto del frate, la cui voce nel buio lo accusa di vigliaccheria, di diserzione, di essere fuggito, di essersi sottratto al suo dovere di soldato, finché Pio si avventa contro il maligno in una lotta fisica violentissima. L’immagine allora quasi si frantuma, le fiamme delle candele diventano schegge di fuoco, mentre il rombo lento e ossessivo delle musiche di Joe Delia si mescola alle urla forsennate della lotta. La seconda apparizione ha il volto smunto e livido di un androgino (una raggelante Asia Argento) che chiede di confessarsi e parla del proprio odio verso la madre e del pensiero ossessivo di violentare la figlia. Il frate lo incalza e lo scaccia urlando in malo modo, rifiutando l’assoluzione. Infine il demonio si incarna nel corpo nudo di una ragazza posseduta. Padre Pio ogni volta scaglia la formula esorcistica intimando al demonio di pronunciarla: “Cristo è il mio Signore!”.

Ferrara sembra enucleare ed estroflettere queste apparizioni dal corpo ardente delle immagini che empatizzano con una capacità unica di filmare il corpo del Santo assimilandolo alle immagini del crocefisso, facendo scorrere il tremolio della macchina da presa sulle forme statuarie della Vergine Maria, filmando la celebrazione dell’eucarestia quasi come un atto sciamanico. Ma a poco a poco si apre il risvolto esterno di questa lotta mistica, trasferendosi nella lotta politica e in altri martirii, quelli delle vittime della tracotanza spietata con cui i possidenti piegano i lavoratori delle loro terre a una fatica insostenibile. I giovani socialisti del paese spingono la popolazione alla ribellione. Anche qui si divaricano le due fedi: quella della redenzione attraverso l’intercessione sacra e quella della fede riposta nella volontà del riscatto politico. Il paese sarà teatro di una strage dimenticata dalla Storia. Il 14 ottobre 1920 i socialisti riportano la vittoria alle elezioni comunali, ma i proprietari terrieri scatenano il fuoco dei carabinieri contro il corteo che va verso il palazzo comunale per insediarsi, provocando 13 morti.

Il contrappunto visionario tra questi due piani paralleli di racconto si intesse con gli intarsi di una scrittura filmica infuocata e forsennata che procede con accelerazioni improvvise, scomponendosi e ricomponendosi in un tessuto drammaturgico (frutto di una perfetta collaborazione con Maurizio Braucci) che assume una concretezza rosselliniana (viene da pensare al rapporto con la terra che c’è in Francesco giullare di Dio, 1950), ma anche una icasticità che, nella scena dell’eccidio, può rimandare al Rosi di Salvatore Giuliano (1962). Il sentire di Ferrara questa volta pare intriso del retaggio del cinema italiano, come  se volesse andare alle radici psichiche del suo cinema, legate anzitutto alle ossessioni religiose e al senso demoniaco del peccato, così come alle sue origini familiari legate al paesaggio del Sud Italia (il nonno con cui il bambino Abel cresce proveniva dalle terre tra Campania e Puglia).

Non a caso Ferrara aveva girato una sorta di “sinopia” di questo film: Searching for Padre Pio (2015), tutto giocato su riflessi antropologici ma anche su una lettura politica e psichiatrica del fenomeno mistico-religioso. Ma con il film di finzione Ferrara ha modellato il suo Padre Pio dentro una epifania plastica in cui l’anima e la carne si accendono di una doppia fiammata: fisica e spirituale. A un certo punto, nel geniale tessuto sonoro del film, oltre a un martellante e distorto blues, si inserisce il brano anni ’30 Midnight, The Stars And You di Al Bowly: canzone che Kubrick fa risuonare in Shining (1980). La luccicanza di quelle fiammelle, di quei ceri, di quei fuochi che ardono nel buio, su cui Ferrara tanto insiste, ci permettono di pensare allora che quel convento sperduto fra i monti del Gargano possa essere per il frate Santo un Overlook Hotel, dove incontrare i suoi demoni, per esorcizzarli come in un sacrario di immagini ardenti.

Padre Pio. Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Maurizio Braucci, Abel Ferrara; interpreti: Shia LaBeouf, Marco Leonardi, Salvatore Ruocco, Luca Lionello, Francesco D’Angelo, produzione: Maurizio Antonini, Philipp Kreuzer, Diana Phillips; origine: Italia, Germania; durata: 104′; anno: 2022.

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