Può essere utile, per cogliere alcune fondamentali implicazioni del ciclo di Outrage (2010-2017) – e in particolare di questa “coda” –, tentare una sommaria periodizzazione dell’opera del suo autore, ormai giunto alla soglia dei settant’anni d’età.
Ci sembra di poter distinguere tre fasi principali in questa filmografia. Com’è noto, Kitano comincia con due film – Violent Cop (1989) e Boiling Point (1990) – che si collocano entro le coordinate di un genere popolare come lo Yakuza eiga (i film sulla mafia giapponese), da cui mutuano tòpoi e convenzioni per rielaborarli, appunto, dall’interno. Lo scarto, in verità, è da subito clamoroso, e visibile a tutti (molti se ne accorgono, soprattutto in Europa, mentre in Giappone si tende a non fare troppa distinzione fra questa nuova veste di cineasta ed il ruolo di intrattenitore che Kitano interpreta già da molti anni, come ideatore e conduttore di strampalati varietà televisivi). La radicalità dell’invenzione formale si dà come quell’allontanamento dalla norma che definisce il profilo di un autore.
Ha inizio così una stagione aurea, in cui il legame con le strutture di genere tende progressivamente a indebolirsi e a farsi più problematico: la vena poetica degli esordi si approfondisce in Sonatine (1993), con cui acquista nuove risonanze, e culmina in Hana-bi (1997), per far sentire i propri effetti sino a quello che forse a tutt’oggi resta il momento più avanzato di questa sperimentazione, Dolls (2002, dove la yakuza, che compare soltanto in una delle tre storie che si intrecciano, assume le sembianze melanconiche di un anziano boss che rievoca un amore giovanile).
Quest’ultimo film segna un punto d’arrivo, dopo il quale Kitano (che ormai è un autore celebrato nei festival di tutto il mondo) attua un lungo ripensamento della propria attività di cineasta, che conduce alla straordinaria trilogia – così poco compresa –composta da Takeshis’ (2005), Glory to the Filmmaker! (2007) e Achille e la tartaruga (2008). È un’elaborazione ulteriore, che dà vita a un rinnovamento profondo, con cui Kitano rimette in questione se stesso e il proprio essere autore e artista. Dai più questa fase “autoriflessiva” è stata vista come una digressione o un capriccio, mentre si tratta di un momento a tutti gli effetti centrale all’interno di quest’opera, poiché è il luogo di un rovesciamento decisivo: non è più il genere a offrire una cornice di intelligibilità agli oggetti, ma la nozione stessa di autore (cui tende a sovrapporsi, in uno sdoppiamento significativo che in Kitano si dà fin dall’inizio, una maschera di attore, quella di “Beat” Takeshi) diviene lo specchio cui affidare il proprio sguardo sulle cose.
In uno degli episodi più pregnanti del ciclo (contenuto in Glory to the Filmmaker!), un Kitano in crisi d’identità porta in giro per le strade di Tokyo il proprio simulacro, un fantoccio che è come la sua spoglia di autore, ridotta ad una specie di morto rifiuto. E nello stesso film si assiste alla passeggiata attraverso i generi cinematografici (horror, commedia romantica, yakuza, fantascienza), in cui le istanze dell’autore e appunto del genere – che solo un fraintendimento della sostanza più autentica della politique des auteurs ha potuto intendere come contrapposte – si trovano non solo figurativizzate, ma messe effettivamente l’una di fronte all’altra, come due entità reificate.
Che cosa fare dopo tutto questo? Se Kitano sceglie di rivolgersi ancora una volta alla materia che più gli è familiare, l’intento non può certo esser quello di rivisitare i suoi cliché per restituirne un’elaborazione originale. Solo una critica miope ha potuto scorgere in Outrage (2010) – che inaugura una terza ed ultima fase – un semplice ritorno al genere yakuza degli esordi. Per Kitano si tratta semmai di compiere un’operazione speculare a quella di allora: non abitare creativamente il genere, ma esporlo come dispositivo, macchina retorica abbandonata all’impersonalità del suo funzionamento, che ora ci si propone di scrutare dall’esterno.
Al termine di un lungo pranzo nella sua villa, dopo aver congedato gli invitati (tutti capimafia) che sono venuti a rendergli omaggio, il Presidente della famiglia Sanno, che detta legge su tutte le altre, critica il boss Ikemoto per via dei suoi rapporti con la famiglia Murase, che gli sono sgraditi. Ikemoto dovrà dargli una concreta dimostrazione della sua fedeltà ponendo fine alla sua amicizia con Murase (il che ha un significato ben preciso: dovrà ucciderlo). Un antico patto d’onore lega però Ikemoto e Murase, che hanno condiviso l’esperienza del carcere. Ikemoto non verrà meno al suo compito nei confronti del Presidente, ma bisognerà che la cosa appaia come un incidente: basterà fare in modo, con l’inganno, che uno degli uomini di Murase si renda colpevole di un oltraggio nei confronti di uno qualsiasi degli esponenti della famiglia Ikemoto, così da chiedere un legittimo risarcimento… Da cui un susseguirsi di faide, vendette, rappresaglie, che assume ben presto le proporzioni di una sanguinosa guerra tra clan.
Nei primi dieci minuti assistiamo a ciò che occuperà, pressoché ininterrottamente, lo spazio di questo e di altri due film, Outrage Beyond (2012) e quest’ultimo Outrage Coda (2017). La molla drammaturgica si trova quasi sempre in una banale inadempienza alle norme di comportamento imposte dal codice d’onore della yakuza. È come se Kitano, una volta fatto scattare il meccanismo, volesse limitarsi ad assistere da fuori, senza intervenire, alla sua escalation automatica. Quel che mostra è il funzionamento quasi automatico di un ordine simbolico che non è uno strumento nelle mani dei personaggi, bensì una dimensione impersonale che preesiste loro e li agisce. La pura vigenza di un codice – la sua potenza – è il grande tema del ciclo di Outrage.
Il trittico nel suo insieme si presenta come un plesso molto coeso, che tuttavia mostra un’evoluzione significativa al suo interno. È noto che Kitano non aveva pensato inizialmente ad una trilogia, ragione per cui il film del 2010 presenta una materia più varia e ricca degli altri due, oltre che una concezione in sé conclusa. Ma se il primo Outrage è ancora un film d’azione, Outrage Beyond istituisce il primato del linguaggio e della mediazione. È il primato della conversazione, ed il film è costituito pressoché per intero da una sequenza di pranzi e riunioni in cui, oltre a bere e a mangiare, si parla molto. Può accadere che un personaggio si inserisca in modo imprevisto in questo flusso discorsivo, e allora tutti gli altri daranno vita a una decifrazione o, meglio, a un’inesausta rimuginazione intorno alla veridicità dell’enunciato prodotto. In questo senso possono ricordare la caratterizzazione dell’innamorato geloso data da Roland Barthes, sono dei semiologi selvaggi allo stato puro.
Anche un cineasta come Nagisa Oshima ha saputo conferire una consistenza estetica a questa singolare attività “semiologica” dei suoi personaggi, costantemente impegnati in una valutazione febbrile del grado di simulazione o dissimulazione del discorso dell’altro (l’amante, per lo più). Ma, diversamente da Oshima, che presenta un istituto (il matrimonio, come in Ecco l’impero dei sensi, 1976) o delle istituzioni corporative (una milizia di samurai, come in Tabù – Gohatto, 2000), sottomessi ad un rigido codice di condotta, per introdurvi un principio erotico esorbitante che li fa deflagrare (è il lato “europeo”, batailliano e klossowskiano, dell’autore), Kitano si limita a mostrare la perfetta consequenzialità del codice che si dispiega.
Con il secondo capitolo, la trilogia di Outrage si trasforma pertanto in un anomalo saggio di “diplomazia criminale”. Non che l’azione propriamente detta sia scomparsa, tutt’altro. Ma se in particolare l’azione violenta ancora sussiste, è in quanto si effettua come un puro effetto di codice, una ricaduta automatica dell’ordine simbolico sul visibile che ne è ricoperto (una specie di sintesi letterale di quest’idea è offerta nella sequenza in cui il cadavere di un teppistello viene colpito ripetutamente dalle palle da baseball che un pallottoliere meccanico spara a ritmo regolare). Tale fluidità nella relazione tra la dimensione materiale dei corpi e quella impalpabile dei discorsi si traduce per Kitano nella consueta libertà di associazione tra inquadratura visiva e inquadratura sonora, in cui il discorso diventa il centro stesso della composizione.
Si direbbe che la materia di Outrage Coda sia più o meno la stessa. Ma la prima impressione è che, tra un episodio e l’altro, tutto abbia preso a sgretolarsi e a franare lentamente. Il codice continua a mostrare i suoi effetti, ma ogni tanto il meccanismo s’inceppa (con esiti comici), e al di là di una tessitura discorsiva che tende a disfarsi, sono forse proprio i corpi a risorgere nella loro materialità – ma soltanto per far risaltare crudamente la loro pesantezza e vecchiezza (a partire dal corpo attoriale dello stesso Kitano). Anche le tinte si opacizzano, la forma stessa del film perde il proprio nitore.
Si vira infine verso modi e toni violentemente parodistici. Alcuni episodi recuperano certamente l’antica ironia che già tramava negli interstizi ad esempio di un film come Sonatine, in cui una scena di tortura si concludeva con la morte accidentale della vittima, per distrazione dei suoi stessi aguzzini. Ma ciò che in quel caso valeva come anticlimax è divenuto, qui, la norma della rappresentazione. Quando, vent’anni or sono, Hana-bi fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia (dove vinse il Leone d’Oro), a molti venne fatto di pensare a Jean-Pierre Melville. Indipendentemente dall’effettività di certe influenze (che Kitano ha perlopiù sconfessato nelle sue dichiarazioni), si può dire che dell’alone romantico e del registro genuinamente tragico che nutriva i film di quel periodo è rimasto ben poco.
E forse è proprio l’abbassamento di registro che lo contraddistingue – e che ne fa davvero una coda, una chiusa in tono minore – a costituire l’autentica novità di questo terzo capitolo (il primo episodio, in particolare, conservava alcuni momenti grandiosi, di fosca bellezza nella rappresentazione delle efferatezze della yakuza, che potevano far pensare ancora ad una concezione tragica). È un passaggio dal pathos al bathos. Anche il suicidio – che è il momento verso cui corre tutto il cinema di Kitano – non si inquadra più in un orizzonte esistenziale che include la scelta (conservando così ancora qualcosa del suicidio filosofico), ma si riduce alla mera esecuzione di un codice di comportamento. La differenza nell’elaborazione formale del tema è evidente soprattutto rispetto ancora a Sonatine, in cui lo stop-frame sul gesto dello sparo (con il fiotto di sangue che sgorga dalla testa del protagonista) magnifica la composizione, in un pittorialismo che anticipa le grandi composizioni di Hana-bi, mentre la chiusa repentina di Outrage Coda sostituisce a questa estetizzazione la rapidità di un gesto brusco, che occupa lo spazio di pochi fotogrammi.
Che cos’è dunque la trilogia di Outrage? Non un ritorno alle origini, ma neppure un requiem alla Dürrenmatt per un genere (o sottogenere) cinematografico: piuttosto un denudamento del genere stesso, l’esposizione quasi pornografica del meccanismo che lo sostiene. È forse la sola opera che Kitano poteva realizzare dopo essersi sbarazzato dei generi in quanto cornici di senso e di se stesso in quanto autore. Con essa giunge, simultaneamente e in un unico movimento, a distillare la quintessenza automatica del genere e a disvelare l’autore come istanza che pertiene a un “fuori” del dispositivo: produce entrambi come pure condizioni di possibilità.
Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 2005.
M. Foucault, Che cos’è un autore?, in Id., Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Feltrinelli, Milano 1996.