Il gesto di un grande autore eccede sempre la sua opera. Il destino delle opere incompiute non è nelle difficoltà oggettive che tali le hanno rese, ma per il loro essere impronte di un atto che resiste al compimento. Questa resistenza è sempre traccia di una pratica che non si fa opera. Traccia di una performatività che abita il set e le riprese, e che dovrebbe compiersi nel montaggio. Che al cinema è l’atto definitivo, quello che per la vita è la morte (come pensava Pasolini). Questo ha sempre significato che tutti i film su un film da farsi riguardano il problema del compimento di quell’opera: da 8½ a Il disprezzo a Lo stato delle cose.
The Other Side of The Wind, opera postuma di Orson Welles, il cui inizio riprese data 1970, portata a compimento da chi allora ha collaborato al film (a partire da Oja Kodar, sua compagna e qui anche attrice) testimonia con grande forza tutto questo. C’è il film da farsi, i cui spezzoni sparsi ancora da reinventare e comporre sono mostrati durante la festa per il compleanno del settantenne Jake Hannaford (John Huston), regista che torna in America dopo un periodo europeo. Party in cui si moltiplicano e si accavallano sguardi, macchine da presa, suoni e una molteplicità di personaggi, vecchi e giovani, uomini e donne, fan, in una instabilità e frenesia di sguardo e in una accelerazione di montaggio inediti in Welles.
Ma non è in gioco solo il raddoppiamento speculare, per cui il film nel film racconta le stesse difficoltà del film-madre, in una duplicazione barocca di cornice e contenuto (da dove anche l’identità dei titoli: The Other Side of The Wind), ma per una questione più cruciale, che tutta la seconda modernità cinematografica, che il film stesso ampiamente cita (da Antonioni a Godard e Bertolucci), aveva ben presente, e cioè che il tratto performativo che genera il film porta a mettere in questione la compiutezza del film stesso. E questo non al di fuori dell’opera ma all’interno dell’opera stessa. Se il film non si compie non è solo dunque perché i soldi mancano o le condizioni oggettive saltano, ma perché il gesto che traccia l’opera tende costantemente a risucchiarla, vedendo in quella compiutezza il contrassegno della fine.
Non si tratta banalmente – come spesso è capitato di leggere in questi anni – di opporre perfomance ad opera, identificando nell’apertura della prima un tratto di vita che alla chiusura della seconda mancherebbe, ma neanche solo di dire, riprendendo una battuta del film, che “ciò che crea distrugge”.
Si tratta di mettere in rapporto il lavoro della forma con il caos che l’alimenta e lo genera, con quel mondo di forze che sono la vita, il tempo, la giovinezza, la vecchiaia, l’amore, e l’amicizia (come dice Hannaford: “Amicizia e film sono veri misteri”). Caos che riguarda anche contaminazione e indecidibilità nei personaggi del film da farsi: tra maschile e femminile nel ragazzo Dale, e tra bianco e pellerossa nella “Meticcia” (Oja Kodar). Nulla è definito e delimitato una volta per tutte.
Senza la pressione da fuori di tale forze, che rendono la forma instabile, dinamica, aperta, tesa ad una reinvenzione continua e dunque ad una costitutiva incompiutezza, il film semplicemente non avrebbe vita, la forma si sterilizzerebbe.
La storia del cinema non è accidentalmente ma costitutivamente anche la storia dei film incompiuti e dei progetti non realizzati e interminabili (ai quali Alessio Scarlato ha dedicato un libro originale).
È la forza vitale di The Other Side of The Wind, che potrebbe non finire mai o finire in qualsiasi momento, ma è anche il tratto, che è un destino, di un altro film impossibile di Welles, il progetto trentennale del Don Chisciotte, i cui cinque minuti mitici che restano ci mostrano un gesto performativo per eccellenza, la lacerazione della tela, della superficie bidimensionale dello schermo, sede di ogni illusione, che il cavaliere taglia con la spada. “Il mio bambino”, così Welles chiamava il suo progetto impossibile sul Don Chisciotte, e come bambini i film si compiono – ma mai definitivamente – alla morte dei padri, in un continuo processo di ridefinizione.
The Other Side of The Wind mostra, capovolgendone la funzione, nel montaggio stesso l’elemento che disfa, che non opera alcuna totalizzazione del senso, che ricolloca il film in una dimensione segnata da una pratica dai tratti caotici. Comporre non significa dare forma al caos, ma captarlo e in questa captazione in parte affondarvi. Continui passaggi dal bianco e nero al colore, scelta di punti vista anomali, e macchina da presa in costante movimento: questo caratterizza la composizione senza centro di The Other Side of The Wind. E un montaggio che non tiene insieme nulla, semmai disarticola, fa smarrire la centratura delle immagini e della storia, negando ogni causalità. È reinvenzione dell’istante e “abiura” di quelli precedenti, in un processo che rende irrilevante il concatenamento logico, fino al punto che l’inversione delle bobine nel finale, durante la visione del girato, viene riscontrata come irrilevante: “Bobina sbagliata? Che importa”.
Se è vero che “ognuno racchiude in se stesso l’intera condizione umana”, come dice l’amica del regista Zarah Valeska (Lilli Palmer), è anche vero che ogni film racchiude in sé il cinema, ma solo i film più grandi sono capaci di esprimerlo, di farlo vedere. E The Other Side of the Wind rientra tra questi, tra i più sorprendenti e meravigliosi.
Riferimenti bibliografici
A. Scarlato, La tela strappata. Storie di film non fatti, Pellegrini, Cosenza 2016.