Può capitare, talvolta, di domandarsi che cosa avrebbe detto un personaggio storico del passato a proposito di un fatto di attualità, di un evento o di un cambiamento che interessa il presente. È più o meno questo l’effetto prodotto dalla lettura delle pagine di Badiou, ultimo erede di una stagione gloriosa della filosofia francese che, fortunatamente, è qui tra noi e giudica ciò che il nostro tempo travagliato ci propone a partire da un impianto teorico di una solidità novecentesca, oggi sempre più inattuale ma proprio per questo capace di gettare luce su ciò che stiamo attraversando.

Badiou rinnega l’abbandono post-moderno delle grandi narrazioni e registra in maniera lucida i «sintomi delle malattie contemporanee» (cap. 1) insistendo sulla «percezione di un certo disordine generale, una perturbazione delle coscienze, una incertezza generale per ciò che riguarda il futuro» (Badiou 2023, p. 24). Il disorientamento che caratterizza il mondo attuale deriva dalla «sconfitta, o assenza mal motivata, di una procedura veritativa» (ibidem): in altre parole, nei quattro campi da lui individuati già a partire dagli anni ottanta – scienza, arte, amore e politica –, si assiste oggi a una crisi che, in ultima analisi, dipende secondo Badiou dal tramonto di ogni pretesa di una validità universale del Vero. Il più recente fallimento storico della verità coincide con la crisi del comunismo, che il filosofo recupera come unico orizzonte possibile per condurre una critica efficace al «parlamentarismo inetto, liberalismo economico cinico, estremismo razzista e fascisteggiante, gauchismo crepuscolare votato a un’eterna e vana negazione» (ivi, p. 27). Il comunismo, beninteso, «non è né un’ideologia né un vago obiettivo finale, bensì un processo politico assolutamente singolare da pensare e animare come tale, qui e ora» (ivi, p. 45).

Il disorientamento contemporaneo, secondo Badiou, diviene riconoscibile nel fenomeno per cui, in assenza di un chiaro riferimento a un’«affermazione politica di valore universale» (ivi, p. 33), si assiste alla convergenza e infine all’unione di gruppi ideologicamente distanti se non addirittura opposti, spesso tenuti insieme soltanto dalla rabbia e dalla rivendicazione. L’azione politica diventa confusa e asfittica, quando non si rovescia addirittura nel contrario di ciò per cui inizialmente lottava. Nel primo caso abbiamo a che fare con forme di «negazione debole», che risultano interne al quadro politico che pure vorrebbero avversare e al quale, infine, rimangono legate da una forma di dipendenza, demandando le decisioni alle istituzioni contro cui dovrebbero combattere, e in primo luogo allo Stato borghese.

Non è tenero il filosofo con i movimenti più in vista nel mondo contemporaneo: femminismo ed ecologia finiscono sotto i colpi della sua critica, svolta con chiarezza – elemento non banale per un pensatore talvolta molto tecnico se non oscuro – e con la franchezza di chi ormai non si sente più giudicato dai suoi contemporanei ma, semmai, intende rendere il suo estremo servizio a quel Vero di cui denuncia la scomparsa nel dibattito contemporaneo.

Rispetto a un certo femminismo, Badiou osserva con Rimbaud che «l’amore è da reinventare». La promozione della delazione e lo scatenarsi incontrollato delle opinioni sui social network generano secondo il filosofo un permanente clima di sospetto che sfocia in una sorta di guerra tra i sessi in cui l’amore, l’incontro con l’altro, diventa sempre più difficile. Rivendicazioni più che giuste si capovolgono così in un regalo fatto allo Stato repressivo. Questa dinamica è facilmente osservabile anche nel nostro Paese, in cui la condanna della violenza sulle donne può diventare – con cinismo e disinvoltura – proposta reazionaria, come nel caso della castrazione chimica evocata da politici in cerca di consenso. Ancora una volta, per Badiou, il disorientamento proviene dalla mancanza di un ancoraggio veritativo che, in questo caso, propizi l’incontro e l’avvento di un nuovo modo di concepire le relazioni umane: «L’amore è il divenire differenziato di ciò che è comune. È il comunismo minimale» (ivi, p. 67).

Reazionaria è anche, per il filosofo, la “religione” ecologista che dà giustamente l’allarme sulle condizioni del pianeta ma non va a toccare le ragioni profonde e gli squilibri che hanno generato l’emergenza attuale. «La piccola santa dell’ecologia, Greta Thunberg» (ivi, p. 73), per esempio, si guarda bene dal nominare il capitalismo, in quanto la sua condanna risulterebbe un tema divisivo ma, in questo modo, le giuste invettive del movimento ecologista finiscono per costituire semplicemente «una variante del fervore religioso» (ibidem). In alcuni casi il disorientamento legato ai temi ecologici va ancora più in là, riportando in auge riflessioni sull’opportunità di un ritorno all’energia nucleare – meno inquinante (?) – che sembravano ormai consegnate al passato e che in ogni caso ottengono risultati lontani da quelli cui l’ecologismo, in partenza, aspirava.

Ancora, il disorientamento investe l’insegnamento, sempre più concentrato sulle informazioni e meno attento ai suoi veri scopi, legati al modo in cui apprendiamo a pensare, conoscere e argomentare. Orfano di una «cultura dell’universale» (ivi, p. 83), l’insegnamento perde terreno rispetto ad altri mezzi che forniscono informazioni più rapidamente ma, ricorda Badiou, «il cellulare sa tutto, e quindi non conosce niente» (ivi, p. 81).

Altro ambito in cui gli effetti del disorientamento generano problemi particolarmente urgenti e odiosi è quello del rapporto tra migrazioni e laicità. In un contesto in cui «i candidati allo sfruttamento nelle fabbriche, nati il più delle volte in Africa, [sono] quasi sempre di religione musulmana» la laicità, da valore fondante della Repubblica francese, diviene «un’arma da combattimento contro le famiglie proletarie» (ivi, p. 90), una sorta di «vessillo di guerra dell’Occidente “democratico” e della “civiltà cristiana” contro il supposto terrore musulmano» (ivi, p. 92). Rispetto al modo in cui si incarna la “civiltà cristiana”, l’Italia rappresenta un laboratorio sui generis di questa tendenza, venata di brutalità e totale assenza di pietas: basti pensare alla contraddizione stridente tra l’ipotesi di un rinnovato obbligo di affissione del crocifisso negli spazi pubblici e la condanna, profondamente anti-cristiana, a una sostanziale carcerazione per chi cerca di raggiungere le sponde europee del Mediterraneo. È questo il vero “mondo al contrario”, che raccoglie intorno a determinate rivendicazioni, ormai prive di ancoraggio veritativo, gruppi ideologicamente disparati e opposti; che rovescia, con un classico esempio di eterogenesi dei fini, le battaglie più impellenti in un mantenimento dello status quo, fino a spegnerne le potenzialità trasformative; che proclama impunemente alcuni ideali mettendone in pratica una sistematica violazione.

Le pagine di Badiou sono ispide, acute anche se non necessariamente condivisibili punto per punto, ma le diagnosi – come quella riguardante la convergenza attuale tra l’individualismo borghese e un rinnovato nazionalismo – e le previsioni sul breve periodo («concentrazione del capitale» come effetto della pandemia, «rischio di un’inflazione importante», «formazione di un blocco economico sino-russo in aperta opposizione all’egemonia americana», ritorno di «una sorta di fascismo reinventato», pp. 108-109) suonano, a un anno dalla pubblicazione dell’edizione francese, ragionevoli e sinistre.

Alain Badiou, Osservazioni sul disorientamento del mondo, Neri Pozza, Vicenza 2023.

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