Premessa minima, a proposito dell’accostamento di un film i cui motivi si rendano difficilmente afferrabili e assimilabili ai propri codici culturali, e pur parlando lingua “globale”, cinema: raccontava Fellini che l’emozione da lui provata alla prima di Rashomon (Kurosawa, 1950) risultava amplificata proprio dall’incomprensione di idioma e prossemica di un universo culturale altro dal proprio. La difficoltà di farsi aspettative precise in base agli atteggiamenti dei personaggi — chissà se più prossimi ad abbracciarsi o a passarsi a filo di katana — cagionava tensione, vigilanza, sorpresa costanti.
Ora, nel racconto del narcotraffico colombiano tra il ’68 e l’80 di scena in Oro verde (allusione evidente alla marjuana, mentre l’originale è il più evocativo Pajaros de verano, “uccelli di passaggio”), nascita ed effetti dello smercio di droga si vedono tutti dall’interno di una comunità di nativi Wayùu, protagonista, coi suoi costumi, le sue credenze, riti, pratiche, valori (in special modo quello del sogno divinatorio e quello della parola). Il film, di Cristina Gallego e Ciro Guerra, esibisce un intenzionale distanziarsi da riferimenti a oggetti di culto cinefilo a dispetto del sottotitolo italiano leoniano C’era una volta in Colombia, all’apparenza in odore di citazionismo/omaggio obliquo postmodernista. E, più profondamente, il racconto si vuole calato completamente nelle tradizioni di una comunità etnica della regione settentrionale della Guajira colombiana, facendo mostra di un immaginario e un universo simbolico assolutamente altri da quelli definibili a largo raggio “occidentali”.
Il giovane Rapayet avvia infatti il commercio di marjuana (inizialmente con i “gringos” statunitensi, provenienti dalle fila dei Peace Corps kennedyani, ma evidentemente più inclini allo stile di vita hippy post-summer of love) solo perché inizialmente costituisce il mezzo per procurarsi poi la dote necessaria alle nozze (capre, asini, collane). Tutto, nelle vite dei gruppi umani per dodici anni coinvolti nel narcotraffico, continua a svolgersi, paradossalmente e malgrado la conquista di un potere “all’occidentale”, secondo l’assoluta fedeltà a forme di vita sociale e riti propri del gruppo etnico di appartenenza. Persino gli assassinii si consumano non perché — come è nella consuetudine del mafia movie — si debba eliminare il gruppo rivale negli interessi, o in generale le figure che ostacolano la corsa al potere. Le regole, la cui violazione esige la punizione con la morte, non sono tanto quelle proprie del clan criminale e del cartello, ma quelle del clan puramente etnico e familiare.
L’offesa più grave, per i Wayùu, è quella che si consuma ai danni della parola. Come Rapayet si scontra col suo primo socio in affari Moises colpevole di aver usato la pistola contro gringos (sospettati di averli traditi con altri fornitori) anziché quell’altra tecnologia sacra che è il linguaggio, così la carneficina senza ritorno tra gruppi sarà innescata proprio dall’assassinio di un messaggero. Perché “la parola è sacra”, e chi simbolicamente l’uccide nell’ucciderne il portatore, deve pagare. Gallego e Guerra mostrano quindi la realtà di una comunità dove sembra vigere un’identità pressoché assoluta tra il simbolo e ciò che esso designa (un paradossale aliquid pro ipso, volendo) quasi che nell’uso del linguaggio in seno a queste comunità mancasse l’astrazione e la possibilità di un solo simbolo di riferirsi a cose differenti. Proprietà, queste, che invece in ambito occidentale attribuiamo loro (e in fondo, secondo l’intuizione pasoliniana, è già il cinema a poter dire le cose con le cose stesse, con la loro apparenza fenomenica).
Di fatto, per i Wayùu nel film, l’ingresso nel narcotraffico non determina una radicale cancellazione dei loro codici culturali — ai quali del resto si mantengono comunque tenacemente attaccati — magari aderendo a uno stile di vita consumistico. Ha luogo invece una più subdola perversione, perché sotterranea, il cui effetto è un radicale autoannientamento della comunità nelle persone che la compongono, più che dei suoi sistemi simbolici. La sciagura del gruppo è tanto più profonda, letale, quanto meno è palese, benché ben presto agli asini si sostituiscano le jeep come mezzo di locomozione, e un’auto sia il primo dono di Moises a Rapayet.
Il narcotraffico non è qui cioè automaticamente foriero dell’assunzione di uno stile di vita improntato evidentemente a modelli consumistici, non quindi funzionale alla crescita di un impero criminale, all’ascesa nella conquista di eccessi. Coerentemente con un restare quindi del tutto all’interno della propria monade etnica, contrariamente alle ville kitsch e barocche di qualsiasi affiliato del cartello o gangster wasp, l’abitazione di Rapayet e famiglia avrà dall’esterno uno stile minimal-razionalista, vertice di modernismo avanzato senza che coscienza moderna davvero sia nella comunità arcaica. E, per giunta, sempre circondata dal deserto, come un corpo alieno innestato a bella posta nello stesso secolare habitat della sua etnia, segno di un benessere posticcio che mostra la faccia più autentica: pura maschera vuota, puro involucro indossato e non aderito nel sentire, che è invece rimasto “tribale”.
Tutto quanto ci si aspetterebbe in osservanza a schemi, stilemi, codici canonici di generi, storie, temi affini (appunto: narcotraffico, gangster movie) fortemente frequentati da cinematografie “occidentali”, è dunque lasciato in un fuori campo assoluto, come anche le sparatorie, di cui più spesso si vedono, significativamente, i soli effetti: i cadaveri. Ma come si respinge in un fuori campo assoluto quell’immaginario, così Oro verde segna la sua distanza anche da un film apparentemente affine — mafia movie innestato nello scenario di in un cosmo in certo modo “arcaico” — come ad esempio Anime nere (2014) di Francesco Munzi, dove la faida familiare poteva riferirsi ancora a generi (western, crime), a grandi modelli (tragedia greca in calabra area grecanica: figli che ereditano colpe paterne o ne perpetuano costumi solo aggiornandoli alla società dei consumi, con conflitti tutti interni alla dimensione familiare e locale affiliata a criminalità organizzata invece globale).
Piuttosto, la struttura del film ha più in comune con l’epos, del resto la forma forse più “primeva” delle culture a oralità primaria come potrebbe essere quella protagonista del film. Lo attesta in maniera palese il già ricordato peso dato alla parola, anche nella sua funzione testimoniale e narrativa se un cantastorie apre e chiude il film, ma anche la stessa dinamica temporale e drammaturgica interna alle scene o alla loro successione. Si alternano dialoghi (per lo più tra il capo Rapayet e gli anziani, in particolare la suocera Ursula, vera custode di leggi e tradizioni in una società fortemente matriarcale) a ritmi lenti e lotte in brutali accensioni dove il suono di tamburi si sostituisce o fa da prolessi a quello del revolver (che del resto, come detto, raramente vediamo in azione), e tensioni la cui risoluzione è spesso procrastinata, per scene che sembrano terminare prima della risoluzione definitiva. Nella scansione degli eventi il senso di sospensione, dilatazione, ripetizione, attesa, contribuisce a fornire l’affresco di una monade in balia delle proprie leggi come del proprio annientamento.
Ciascuno dei capitoli in cui il film è suddiviso è denominato “Canto”, ciascuno aperto da un rito di passaggio, marcatore del tempo della vita sociale, che viene restituito con scrupolo antropologico, e per di più descritto dai personaggi che lo officiano, come a illustrarne le funzioni. Ne emerge il tentativo di accostare la comunità a una cultura eminentemente orale e a un’economia rurale e pastorizia non solo però come oggetto di studio dell’occhio antropologico all’occidentale, ma quasi come soggetto in grado di pensarsi autonomamente (che è un po’ quello che auspica Cassano a proposito del meridione italiano nel suo Pensiero meridiano). Pensarsi autonomamente, ma appena prima della propria sparizione. Quando cioè la violenza, dapprima solo minacciata (per parole) per mantenere l’ordine in seno alla comunità, si è col narcotraffico interamente riversata nella prassi (per armi), quando le ultime fiamme della faida si estinguono in una nube di locuste (piaga biblica in territorio ancora “pagano”): aura all’ultimo lamento che un aedo, cieco come Omero, dedica alla scomparsa della comunità, e che somiglia al cinema.
Riferimenti bibliografici
F. Cassano, Pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 2003.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972.