Il 31 ottobre, serenamente, nel sonno, è morto Sir Sean Connery, attore scozzese. Aveva 90 anni, e doveva la sua fama soprattutto all’interpretazione di un personaggio: l’agente segreto James Bond, inventato dallo scrittore Ian Fleming. Attore e sex-symbol, uno degli uomini più belli del mondo, oggetto del desiderio per un pubblico sterminato e adorante, maschile e femminile. Pare che Fleming non fosse contento della scelta operata da Albert Broccoli e sua moglie, produttori della saga. Pare che gli avrebbe preferito un attore del tipo di Cary Grant; ma presto dovette ricredersi: la scelta di Connery come Bond era stata la scelta ideale, protrattasi per sette film, dal 1962 con Agente 007 – Licenza di uccidere (Doctor No, diretto da Terence Young), al 1971 anno di Agente 007 – Una cascata di diamanti (Diamonds Are Forever, regia di Guy Hamilton). Senza contare i videogiochi che ne sono derivati, cui Connery ha volentieri prestato la sua voce. Notiamo anche un fatto poco noto, e paradossale: la scelta di Connery come James Bond avvenne in seguito alla sua performance in un film di maghi e folletti prodotto da Walt Disney (Darby O’Gill e il re dei folletti di Robert Stevenson, 1959).
Il corpo di Sean, come James Bond, diventa un mitologema, ossia un elemento mitologico minimo, al tempo stesso particolare e universale. In che modo? Di famiglia modesta, figlio di un muratore irlandese, emigrato in Scozia, e di una donna delle pulizie, aveva dovuto lasciare gli studi e dedicarsi ai lavori più modesti e faticosi per aiutare finanziariamente la famiglia. Si arruola anche nella Royal Navy, dove rimane tre anni. Malgrado ciò, cura il suo fisico perfetto, frequenta gli ambienti teatrali e prende lezioni di danza e recitazione da un ex-ballerino svedese, di nome Yat Malmgren.
Da Malmgren, Connery apprende l’arte di muoversi con leggerezza ed eleganza, un’economia di movimenti essenziali, da belva in apparente riposo, che all’improvviso si scatena nella zampata decisiva e mortale. Affina il suo fascino naturale. Come Bond, fiore (rosso) all’occhiello, non indossa che abiti eleganti e costosi, ama le donne e ne è amato, lancia continuamente battute spiritose, si intende di vini, ma sempre senza ostentazione. Il parrucchino, poi, serve a nascondere la calvizie precoce. È un esponente della working class promosso a simbolo di invidiata eleganza, senza perdere il suo piglio proletario. Mai si riduce a modello, al tipo tradizionale dell’amante latino, In questo, resta inglese, più che scozzese.
Come è stato possibile? Dobbiamo pensare che, negli anni settanta, Hollywood è entrata nel suo periodo più nero e Londra diventa il centro mondiale del cinema, del teatro e della moda. Non a caso, Connery si fa notare in una particina secondaria nel film Hell Drivers (1957), del black-listed Cy Endfield, esule in Europa dall’isteria maccartista. È il periodo d’oro del new cinema inglese, dei registi arrabbiati, dei nuovi attori, delle produzioni indipendenti. Parallelamente, gli studios londinesi si dotano di attrezzature tecniche sofisticate, in grado di supportare produzioni spettacolari. Non a caso, Bond, oltre alla sua agilità felina, si avvale, per il suo lavoro di agente segreto, di un ricco bagaglio di gadget tecnologici d’avanguardia. Rivedendolo oggi usare, in questi film, simili marchingegni, non si può fare a meno di pensare che si tratti anche del canto del cigno dell’impero britannico, destinato inesorabilmente a essere sostituito, a breve scadenza, da un imperialismo di tipo diverso (quello fondato sul dollaro).
Erano pellicole da guerra fredda? From Russia with Love (1963). Infidi russi, infidi asiatici. Un cappello lanciato in aria, a decapitare una statua, poteva diventare un’arma mortale; ma i folli piani della Spectre sono al servizio delle ambizioni di singoli megalomani, da Gert Frobe (Goldfinger) ad Adolfo Celi. Pare comunque che Sean ostentasse di odiare 007, che avesse “voglia di ucciderlo”. Non sappiamo se fosse del tutto sincero, ma la cosa è comprensibile: Connery non voleva assolutamente rimanere ingabbiato nel ruolo che gli aveva dato la popolarità.
Invecchiando, matura, affina la sua recitazione, assume altri ruoli, lavorando con registi prestigiosi. Nel 1964, in Marnie di Alfred Hitchcock, è Mark Rutland, alle prese con i traumi infantili della moglie (Tippi Hedren). Lavora con Sidney Lumet nel 1965 (La collina del disonore – The Hill), nel 1971 (Rapina record a New York – The Anderson Tapes), nel 1972 (Riflessi in uno specchio scuro – The Offence), nel 1974 (Assassinio sull’Orient Express), nel 1989 (Sono affari di famiglia – Family Business). È Zed nel fantascientifico Zardoz di John Borman (1974), dove recita in perizoma. Recita per John Milius (Il vento e il leone, 1975), per John Huston (L’uomo che volle farsi re, ancora 1975), per Richard Lester (re Artù in Robin e Marian, 1976). Interpreta il ruolo di frate Guglielmo da Baskerville, una sorta di Sherlock Holmes medievale, ne Il Nome della rosa di Jean-Jacques Annaud (1986), dal romanzo di Umberto Eco. Nel 1987, ottiene l’Oscar come migliore attore per Gli intoccabili di Brian De Palma. Nel 1989, è chiamato da Steven Spielberg a interpretare il ruolo del padre di Indiana Jones (Harrison Ford) in Indiana Jones e l’ultima crociata. Nel 2000, è attore e produttore di Scoprendo Forrester, diretto da Gus Van Sant. Ma la sua carriera è lunghissima, l’elenco potrebbe continuare.
Non aveva voglia di perdere tempo a scrivere un’autobiografia, ma non poté impedire che altri ne scrivessero al suo posto. Non si è mai occupato di politica, ma si è sempre battuto per l’indipendenza della Scozia e per l’ambientalismo. Tra i pochi rimpianti: non essere riuscito a girare un film sulla vera figura di Macbeth, secondo lui re calunniato dalla Storia e da Shakespeare. Nel 1967 diresse in proprio The Bowler and the Bunnet (La bombetta e il berretto), un documentario in bianco e nero sulla crisi dei cantieri navali in Scozia. Non l’ho mai visto, ma so che c’era dietro un’idea: un’alleanza per uscire dalla crisi tra le bombette dei dirigenti e i berretti degli operai. Ancora una volta, niente ruoli fissi. Si è quel che si è, ma nessuno è condannato a esserlo.
Sean Connery (Edimburgo, 1930 – Nassau, 2020).