Ci sono scrittori che tracciando la loro costellazione immaginaria, disegnando la propria rete di metafore ossessive, descrivono al contempo quelle della generazione a cui appartengono, della propria epoca, di una città. I dettagli della loro vita, rimanendo se stessi, acquistano uno scintillamento archetipico, rivelano i segni dei movimenti profondi dell’inconscio del collettivo, i caratteri di un luogo, le sue costanti remote, le svolte decisive e i traumi che ne scandiscono la storia. Così è, ad esempio, in Joyce per Dublino, Roth per Vienna, Proust per Combray, Pavese per le Langhe, Hardy per il Dorset. Solo nella più profonda intimità di una metafora personale si scopre, come nell’immagine rovesciata di uno specchio, il riflesso dell’inconscio del collettivo.

La Capria ha dato voce attraverso il suo mito individuale alla costellazione immaginaria che ruota intorno al nome “Napoli”. Costantemente ha praticato un doppio movimento, che è l’arte più difficile dello «stile dell’anatra» (Cfr. La Capria 2014, II, p. 1539): trasformare in immagini di sogno tutto ciò che gli proveniva dalla sua esperienza della città, e poi in controtempo resistere al fascino avvolgente delle figure favolose e illuminarle criticamente. Così il mito e la storia si contendono il campo della sua opera, senza che l’uno o l’altra riportino una vittoria definitiva: e il suo contenuto di verità è in questa oscillazione incessante.

Che anche la storia sia agitata da desideri e da sogni che comunicano con quelli del singolo è del resto una convinzione radicata in La Capria. Ne parla in un Post-scriptum all’Armonia perduta, citando Georges Duby, Vico, e la necessità di ricorrere a una mitografia conoscitiva. È importante, dice Duby, il ruolo del sogno nella storia, il modo in cui i desideri vengono destati, formati e deformati: «Che cosa è la storia, egli si domanda. Una realtà vissuta o una realtà desiderata, immaginata? Probabilmente è un intreccio di tutt’e due»; « […] La traccia di un sogno non è meno reale di una traccia materiale (e anche i sogni producono delle conseguenze) […]. “L’immaginario non è concreto, ma è reale”» (La Capria 2014, I, pp. 483-484).

Il mito della “bella giornata”, della natura che possiede una bellezza quasi terribile e insostenibile, si accompagna in La Capria a una percezione oscura di dèi sotterranei, i “fiori giapponesi” possono essere incubi o conchiglie incantate che si schiudono a consolarci sopra la vertigine della «Cosa non Rimuovibile che spetta solo a te» (La Capria 2014, II, p. 1986) – e questa frase è certo scritta in uno degli ultimi libri, quando la meditazione sulla morte diventa costante, ma la Cosa non è solo questo e non compare solo così tardi, perché l’Oscuro già è presente in Fiori giapponesi: «Cosa incontenibile, esorbitante, che lo espelleva fuori di sé, nella voragine, grumo di buio nel buio, mentre un grido gli sopravviveva, irriconoscibile, bestiale, il suo grido» (ivi, p. 1167), ed è allora la follia, il sesso, il vincolo atavico del sangue, e questo Reale così intimo così personale, non ha forse un legame ombelicale con la mito-storia dell’armonia perduta alla fine del ‘700, con l’orrore pubblico del 1799, nel trauma storico in cui il disumano si iscrive come un segno di condanna nel corpo sociale di Napoli (oggetto del libro L’armonia perduta, 1990)? Di contro all’oscuro sorgono i fiori giapponesi, inquietanti immagini di sogno, forse destinate a essere perdute, ma preziose nella storia individuale come in quella collettiva, che possono schiudersi o forse mai aprirsi, ma restano come un insopprimibile figura del desiderio.

L’Oscuro è l’estraneità, anzi la stranierità di Camus, «giorni di vuoto assoluto, carichi di una potenza distruttiva che mi metteva paura» (La Capria 2014, II, p. 1887), forse addirittura l’incubo di una tara ereditaria proveniente dal padre – una presunta malattia venerea, quasi sicuramente inesistente: «Il veleno di quel serpente era un veleno che agiva in maniera subdola, disastrosa, distruttiva. E non avrebbe potuto nel tempo arrivare fino a me, a colpire la mente, a definire il carattere, a determinare le mie azioni?» (ivi, p. 1904), tara tutta immaginaria di una sessualità degenerata; mentre la “bella giornata” è un dono degli dèi, i quali però hanno un fondo abissale, e in questa incrinatura personale La Capria coglie qualcosa di ciò che sente ogni abitante di Napoli: la presenza di una bellezza acuta fino a ferire, minacciata ad ogni istante di frana,  la fragilità del tufo poroso, lo sgretolante sottosuolo della città di superficie, su cui anche Benjamin aveva attirato l’attenzione.

Da questa scissione si può voler fuggire nella pura superficie della “napoletanità” consolante, fuga che è il risvolto tragico-malinconico, il non detto dei Leoni al sole (il film di Vittorio Caprioli, del 1961, alla cui sceneggiatura La Capria ha dato un’importante contributo, riprendendo temi e situazioni di Ferito a morte); si può desiderare una «condizione di sospesa distrazione» (ivi, p. 1855), oppure rifugiarsi nella “mancanza di iniziativa” che è una specie di impotenza e di amorosa acoedia, in cui naufragano le passioni e le azioni. La trasparenza oltremarina delle immagini che talvolta La Capria raggiunge, i rari e «nottilucenti» (ivi, p. 1801) cristalli della felicità, si addensano lenti nel buio che minaccia dissoluzione, perché quella «sospesa distrazione» è poi anche una gabbia in cui «sbadigliavano tutti, disperati e col desiderio di morire» (ivi, p. 1869), come gli animali dello zoo strappati alla libertà feroce della foresta.

Volendo fuggire a tutti i costi da questa condizione si può peccare di “Impazienza”, che è la frenesia di di scampare a «un’arida, irresistibile forza irrazionale». È un ossimoro: una forza arida che però è anche irrazionale e irresistibile. È così che i grandi scrittori del 900 descrivono il demonico, che compare in un sogno di A cuore aperto: «Strisciando sul pavimento una forma nera veniva verso di me» (ivi, p. 1920), prima di svegliarsi su un «orlo franante». Le immagini di lucente bellezza non sono pura natura spontanea in La Capria, sono frammenti di luce strappati all’informe o addirittura al mostruoso, e per esempio le splendenti epifanie di Capri, la terra dell’anima di La Capria, non escludono il fatto che «quando il maltempo imperversa Capri mi appare come una prigione, come l’isola dei morti di Böcklin» (ivi, p. 1922), una frizione tra estremi che in fondo attraversa tutto il libro ad essa dedicato.

Tra le figure archetipiche di La Capria, oltre a quelle più note (la bella giornata, l’armonia perduta, il palazzo Donn’Anna, la mosca nella bottiglia) occorre ricordarne una meno ovvia, la “distrazione”, che compare in una molteplicità di forme. Abbiamo già detto della sospesa distrazione della napoletanità; o di quella storica, per cui prima dell’otto settembre 1943 a La Capria sembra di vivere con la stessa inconsapevolezza con cui «Fabrizio del Dongo attraversa il campo di battaglia di Waterloo»(ivi, p. 1709); c’è una “distrazione percipiente”, che registra la chiacchiera continua, lo “sproloquiante” lo «straparlante silenzio» (ivi, p. 1762) della borghesia napoletana, che finirà in tante pagine di Ferito a morte; ma c’è anche una più nobile “distrazione metafisica”, un abbandono in cui si avverte il ronzio molecolare dell’esistenza trascorrente, che è l’opposto della dimenticanza di sé, che è una sorta di Vuoto zen, e sospende il corso inconscio che ci lega alle passioni e alle azioni della volontà; è l’ “assoluta distrazione” in cui si percepisce l’esistere in sé e per sé.

Questo stato può essere paragonato all’ Il y a di Levinas, o all’in sé di Sartre, ma La Capria ne rovescia il senso angoscioso e lo paragona piuttosto all’abbandono estatico di Rousseau, nella sua rêverie sul lago di Bienne: «Nella Mosca nella bottiglia parlo di Rousseau che se ne sta sdraiato sul fondo della barca, guarda un albero, e non pensa a niente. Ecco, solo in questo vuoto percettivo e intellettuale si sente il ronzio dell’esistenza che passa. Solo negli attimi di assoluta distrazione ci accorgiamo che siamo esseri viventi, consumati dal tempo» (Intervista a P. Virno, La vita non passa per la cruna dell’ego, “Il manifesto”, 16 maggio 2001). C’è poi la “distrazione vigilante”, che significa il contemporaneo esserci presente nelle cose attuali, ma sullo sfondo di una mente ormai rivolta alle cose ultime, «esserci e non esserci nello stesso momento» (La Capria 2014, II, p. 1937), nella consapevolezza della propria morte.  Perché a La Capria è stato concesso di ri-narrare la sua vita due volte, la prima fronteggiando l’inquietudine di Eros e una seconda quella di Thanatos, sempre consapevole dell’intreccio delle due forze.

Le ultime opere raccontano dalla prospettiva della distrazione vigilante e cioè della conoscenza della morte: nel tempo della ri-narrazione le figure che appaiono (il padre, la madre, il fratello, gli amici) sono morti mentre erano vivi al momento della prima scrittura. Apparentemente le situazioni sono simili, ma in realtà il mondo simbolico è ora tragicamente barrato dall’irruzione della Cosa Reale, e quindi completamente diverso. E infine la barra riguarda anche la propria scrittura: «Non c’è niente, nessuno scritto, nessuna rappresentazione, nessun filmato, nessuna immagine e nessun documento che possa restituire un po’ di vita a chi non è più» (ivi, p. 1706).

La distrazione vigilante non valuta più l’accadere in base alla volontà o all’utilità, ma per la sua maggiore o minore vicinanza alle cose ultime; una graduatoria in cui l’attualità politica contingente diventa meno importante della questione se il pianeta, o almeno la nostra cultura, sia destinata a sopravvivere o a essere distrutta dalle nostre stesse mani; degne di attenzione divengono le situazioni, a seconda che rallentino o accelerino la distruzione della vita, il male radicale. E infine anche palazzo Donn’Anna favorisce una “curiosa distrazione” rispetto agli eventi della storia, una sorta di fascinazione magica e smemorante, «un velame di nebbia luminosa» (ivi, pp. 1699,1700), da cui La Capria si sente invadere e da cui però anche non vuole lasciarsi dominare; le belle giornate sono come «l’erba che silenziosa rinasce sopra la terra sconvolta» (ivi, p. 1988), l’immagine di Napoli si cristallizza in Palazzo Donn’Anna, nella sua interminabile ambiguità nottilucente, nella “sterminata giornata”, «con le sue ombre spettrali e la sua luce folgorante» (ivi, p. 1698), giacché l’ordine simbolico nasce sul fondo del Reale, e mai senza di esso ed «esserci vuol dire aver vinto le forze del nulla, il male radicale, sempre in agguato… il disordine distruttore» (ivi, p. 1939).

Così le immagini lucenti coesistono col «deposito torbido nel fondo…scuro e immobile», o se vogliamo sorgono necessariamente da esso o lo proiettano all’esterno: «La mia bella giornata fu sempre attraversata da un’ombra…ma questo non mi impedì di aspettarla la bella giornata e di abbandonarmi ad essa…Ho sempre difeso dall’ombra la mia parte luminosa, quella cui tendevo, non ho permesso all’ombra di invadere ogni cosa». La Capria descrive il suo stile con una metafora nautica, «risalire il vento», una manovra che ogni velista conosce bene: «La parte di me che mi si rivoltò contro fu impetuosa come un forte vento contrario; ma l’altra, con l’obliqua sua vela seppe sfruttarlo al meglio, inclinando pericolosamente la barca…» (ivi, pp. 1715, 1716). Scrive S. Perrella di La Capria: «E tutto sarà attraversato da un’incrinatura, anche quando in apparenza sembra intatto e armonioso…Scrivere vorrà dire perciò produrre una luminosità che non rimuova la presenza dell’ombra» (Perrella in La Capria 2014, I, p. XVI).

La Capria ha un atteggiamento ambivalente verso la “plebe” di Napoli, di cui conosce il sapere magico, il contatto con forze profonde e telluriche, le stratificazioni di una cultura premoderna, che risale fino al paganesimo, e che sopravvive in forme sfigurate e rifiutate: da questo magma antropologico talora si ritrae, e questa ambivalenza è il corrispettivo di un’altra duplicità, quella che riguarda la modernità capitalista, sentita come il necessario accesso dalla natura alla storia e però anche – e sempre più negli ultimi scritti – come il processo che distrugge la bella giornata e infrange ogni armonia possibile. Perché la “mezza modernità” napoletana non è poi in fondo la stessa del capitale in genere, una modernità che tradisce le sue promesse di emancipazione?

Talora affiora in La Capria un’ideologia del progresso storico, che può parere ingenua: ma lui è anche capace di scatti di radicalità improvvisa, e forse nessuno come lui ha compreso il dissesto ecologico e stilato un atto d’accusa così fermo contro la distruzione del paesaggio e dei luoghi. Che è pure una distruzione dell’anima: ha scritto una volta che ognuno ha o aveva un suo luogo, «un paesaggio che si porta dentro come un’immagine impressa in una memoria più profonda dei ricordi» (La Capria 1992, p. 176), a cui non cessa di ritornare, che costituisce come un faro o un cippo di orientamento della sua vita psichica, che in fondo cerca di cogliere in somiglianze e affinità anche nei luoghi nuovi che conosce. Ognuno ha il suo “campanile di Marcellinara” interiore, come il contadino protagonista di una celebre pagina di De Martino, che avendolo perso di vista si trova spaesato e in preda a una crisi della presenza. Ma se quei luoghi della memoria e dell’immaginazione sono «sovvertiti, sconquassati o addirittura cancellati dalla faccia della terra», allora non è solo un pezzo di paesaggio che viene distrutto ma una pietra angolare dell’anima: e procedendo in questo modo, sempre di più, resterà solo l’ologramma della terra e di noi stessi.

Riferimenti bibliografici
R. La Capria, Capri e non più Capri, Mondadori, Milano 1992.
Id., Opere, I, Meridiani Mondadori, Milano 2014.
Id., Opere, II, Meridiani Mondadori, Milano 2014.

Raffaele La Capria, Napoli 1922 – Roma 2022.

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