Un disco di Mina la dice più lunga
sul senso dei nostri anni
che non certi libri… certi film… certi saggi…
Alberto Arbasino
Mina è una cantante metamorfica: da un lato, come tutte le grandissime interpreti, è inconfondibile, certo imitabile e imitatissima ma mai replicabile; dall’altro ha una flessibilità (non solo vocale) assolutamente fuori dal comune, che le permette di fare e cantare qualsiasi cosa (notoriamente anche la formazione della nazionale di calcio), e di renderla propria. Lucio Speziante (2016) l’ha definita perciò «un’icona mutante», eclettica, che si è costruita affrontando svariati repertori e coltivando un’immagine in continua evoluzione. È il suo «carattere vorace, anzi onnivoro» di cui parla Edoardo Sanguineti.
Sono molti i livelli in cui si esplica questa natura metamorfica. Innanzitutto quello vocale, data l’estensione veramente eccezionale della sua voce, che ha colpito a suo tempo persino il più rigoroso specialista di voci liriche, Rodolfo Celletti. Un’agilità esaltata nel suo ironico autoelogio, la celeberrima Brava. Esiste poi il livello dei generi musicali: Mina ha affrontato pop, blues, jazz, rock, canzone napoletana, musica brasiliana, musica sacra, opera lirica, accostandosi di recente anche al rap grazie a Mondo Marcio; ha duettato con innumerevoli artisti, ha prodotto cover delle provenienze più disparate, ed ha avuto, prima del ritiro, anche un’attività di star transnazionale, con tour leggendari, come quello in Giappone.
Un terzo livello in cui si esplica il metamorfismo di Mina è la performance: le sue interpretazioni fanno interagire gesto, sguardo, movimenti, abiti, trucco, grazie a una vocalità profondamente corporea e teatrale; quel «recitarcantando» che un musicologo come Luigi Pestalozza metteva a confronto con due altre fulgide voci del Novecento, appartenenti ad ambiti diversi: Maria Callas e Cathy Barberian; e su questo intreccio fra corpo, voce e teatro non si può non ricordare una delle tante grandi figure del Novecento che hanno provato interesse per Mina: Carmelo Bene. In fondo potremmo spingere il concetto di metamorfismo fino a farci entrare anche la potenzialità, che affascina da sempre la storia dello spettacolo (il Re Lear tanto sognato e mai realizzato da Verdi e poi da Orson Welles), e chiederci cosa sarebbe successo se Mina non avesse detto no a Sinatra, a Coppola, a Fellini.
C’è infine un ultimo livello di polimorfismo, ed è l’ampia gamma di campi culturali in cui ha giocato un ruolo: la televisione, di cui è stata una star innovativa, pur restando nel mainstream; la pubblicità, con la serie di Caroselli per la Barilla ricchi di belle soluzioni visive, talvolta ardite (famoso lo spot con Se telefonando, in cui indossa un vestito di fili del telefono); il cinema, non tanto per i vari Musicarelli, quanto per l’uso di sue canzoni da parte di registi importanti (da Visconti ad Almodóvar); il costume, se si ricordano gli scandali per la relazione con l’attore Corrado Pani e i conflitti con il moralismo dell’Italia di allora; e infine il gender, se si pensa alla libertà con cui ha gestito la sua identità femminile.
Nelle celebrazioni di questi giorni si è letto fin troppo sul “femminismo” di Mina, ma mi piace citare l’intervento di una studiosa di arte contemporanea, Carolyn Christov-Bakargiev: «La sua esistenza di donna potente, emancipata, è stato uno degli attacchi più forti al patriarcato nel mondo italiano degli ultimi sessant’anni». Bisogna anche ricordare che Mina è la più importante icona gay italiana, come Judy Garland negli Stati Uniti; ha costituito un legame identitario fortissimo, che solo chi ha vissuto dall’interno può capire appieno. Oggi si parla di lei anche come icona queer (quindi rivolta non solo alla comunità gay maschile, ma a tutte le forme non normative), per la sua capacità di smontare le identità (sessuali), come nelle geniali copertine dei suoi dischi, soprattutto dopo il ritiro.
Veniamo così al momento cruciale della sua carriera: il ritiro dalla scena e dall’immagine pubblica nel 1978. Nella storia delle arti ci sono vari casi di scelte più o meno simili, affascinanti per la loro aura enigmatica: l’esempio più radicale è il silenzio improvviso di Rimbaud a 19 anni, dopo aver sconvolto in due anni la storia della poesia, a cui si può accostare la sparizione totale di Greta Garbo dagli schermi a 36 anni; il ritiro a Parigi di Rossini, più o meno alla stessa età, fu quasi totale, ma lasciò spazio ai divertissement pianistici e alla musica sacra; da citare infine la scelta di Glenn Gould di non esibirsi più dal vivo e di concentrarsi su incisioni in studio.
Si possono fare molte ipotesi sul motivo che ha spinto Mina a questa scelta radicale: l’eccessiva pressione mediatica senz’altro, o il rifiuto dello sguardo maschile, come suggerisce Christov-Bakargiev, per gestire in proprio la sua immagine, diventando manager di se stessa; è meno convincente pensare a una strategia per potenziare il suo statuto di icona. Direi invece che in tutta l’opera di Mina c’è una tensione fra la performatività del corpo, potenziata dall’interazione con il pubblico, e la tendenza a diventare un’icona fantasmatica, concentrata su «tradurre la vita in stile», come ha scritto Walter Siti.
La critica ha trascurato un po’ la produzione dopo il ritiro; e in generale non mi sembra che ci sia una bibliografia adeguata sulla sua opera (sarà il suo metamorfismo a scoraggiare gli studi), a parte varie pubblicazioni di taglio giornalistico, il bel libro curato da Fabbri e Pestalozza (1998), e qualche altro contributo. C’è molto da sperare dalla grossa monografia (456 pp.) di Luca Cerchiari che uscirà ad aprile, recensita in termini positivi da Quirino Principe sul Domenicale del Sole 24 Ore; mentre per il Convegno organizzato dalla Consulta per il Cinema e dall’Università di Torino, in occasione dei suoi 80 anni, bisognerà aspettare, si spera, l’autunno a causa dell’emergenza Coronavirus.
Uno dei punti che andrebbero approfonditi è la compresenza non tanto di generi musicali, quanto di modi, cioè di quegli insiemi di costanti formali e tematiche che si irradiano attraverso generi, epoche, arti. Uno di questi è il melodramma, come lo ha messo a fuoco Peter Brooks. È un modo presente in Mina non tanto nella sua rielaborazione del repertorio operistico (Sulla tua bocca lo dirò, 2009), quanto nella vocalità, nelle forme espressive, e nelle tematiche. Si può parlare di un modello di canzone melodrammatica, che si affianca ad altri registri, come il grottesco, il surreale, il comico, il patetico, il camp, il nonsense.
Sono canzoni spesso più lunghe del consueto, veri e propri microdrammi, con un inizio intimistico, seguito da uno slancio passionale nel ritornello, sottolineato da una vocalità espressionistica, talvolta persino sguaiata (è la caratteristica dei più grandi saper essere volgari al momento opportuno: Shakespeare, Verdi…). I temi dominanti sono la solitudine femminile e l’abbandono, fra angoscia, malinconia, e struggimento, spesso rivolgendosi a un tu elusivo e sfuggente. Roberto Favaro parla di «una microfisica del dolore femminile colto nelle sue contraddizioni e tensioni interiori».
Farei iniziare questa tipologia con Città vuota del 1963: una cover rielaborata in chiave melodrammatica, di cui esistono varie versioni anche dal vivo e in spagnolo. Le sue punte famose sono La voce del silenzio (1968) e Bugiardo e incosciente (1970), lungo monologo interiore in presenza dell’amato che dorme, ricco di ambivalenza. Troviamo altri esempi dopo il ritiro, quando questa componente cresce di spessore: la versione crepuscolare di Non tornerò (in Attila 1, 1979); e poi Sono sola sempre, di Bruno Lauzi e Beppe Cantarelli (Salomé, 1, 1980), La vita vuota (in Italiana 2, 1982); e la variante surreale de Il corvo (in Caterpillar 2, 1991), o quella più esagitata di Anima nera (in Sorelle lumière 2, 1992); fino alla più recente collaborazione con Giuliano Sangiorgi (Brucio di te, in Piccolino, 2011). L’esempio più paradigmatico resta comunque Ahi, mi’ amor (Romance de Curro “El Palmo”), canzone lunga e articolata (6’15”) di Paolo Limiti e Manuel Serrat (Mina 25, 2, 1983).
La canzone melodrammatica di Mina compare anche in due mélo diversi fra di loro per epoca e stile. Il primo appartiene all’Almodóvar camp ed estremo degli anni ottanta: è il finale di Matador (1986), in cui la scena di amore e morte fra il torero e l’avvocata è scandita da un bolero spagnolo, Esperame en el cielo (in Salomè 1, 1983). Il secondo viene dai giorni nostri: ne La dea fortuna di Ozpetek (2019) compare una canzone struggente, Luna diamante (da Mina Fossati, 2019), pienamente contestualizzata nel melodramma gay (pare che Mina abbia letto in anteprima la sceneggiatura, e abbia pensato quindi la canzone per la scena).
Due esempi opposti: sovversivo e sfacciato il primo, mainstream e sentimentale il secondo; se il primo ci ricorda, con il suo omicidio-suicidio al momento dell’orgasmo, le forme più folli e inverosimili del melodramma (Il Trovatore di Verdi, tratto da un dramma spagnolo), il secondo richiama invece le sue declinazioni naturalistiche. Sono comunque due scene che esemplificano il carattere metamorfico dell’universo Mina: la sua creatività inesauribile.
Riferimenti bibliografici
P. Brooks, The Melodramatic Imagination. Balzac, Henry James, Melodrama and the Mode of Excess, trad. it. Pratiche, Parma 1985.
L. Cerchiari, Mina. Una voce universale, Mondadori, Milano 2020.
C. Christov-Bakargiev, Una voce e un corpo contro il patriarcato, «Robinson», 21 Marzo 2020.
F. Fabbri, e L. Pestalozza, a cura di, Mina. Una Forza Incantatrice, Euresis, Milano 1998 (contiene i saggi di E. Sanguineti, R. Favaro, L. Pestalozza).
W. Siti, Mina mi ha insegnato a scrivere, «Vogue Italia», 9 Ottobre 2018.
L. Spaziante, Mina, l’icona mutante, in Icone pop: identità e apparenze tra semiotica e musica, Mondadori, Milano 2016.