Potrei partire dalla casa-museo di Torino, una monumentale architettura vagamente dannunziana, nella quale si trovano un’auto-galleria, una biblioteca con prime edizioni di volumi delle avanguardie, una sala con macchine da presa rare, un cinema con poltroncine in legno “sopravvissuto” al Novecento, un archivio personale, stanze di lavoro ispirate al Bauhaus. Oppure, potrei ritornare a un mio testo giovanile dedicato a un ciclo ispirato a Sorrento: ho avuto sempre pudore a rileggerlo e a condividerlo con l’autore di quella serie. Voglio muovere, invece, da Ragoo. Attenzione, il riferimento al sugo napoletano è solo una vaga assonanza. Si chiama così il cane che incontriamo in un cartone animato trasmesso qualche anno fa dal canale per bambini Rai Yoyo. Ne sono protagonisti due gemelli, YO e YO. Hanno temperamenti diversi: YO (lui) è timido, prudente e riflette prima di agire; YO (lei) è espansiva, impulsiva e agisce prima di riflettere. Nella loro vita quotidiana e nei loro viaggi, accompagnati da Ragoo, i due personaggi hanno comportamenti antitetici. E, tuttavia, nei momenti più critici, le loro menti ritrovano una misteriosa sintonia: ogni volta, con sorpresa, YO e YO riscoprono che due teste ragionano meglio di una.

Molti hanno considerato Yo e Yo come un cartoon da accostare ai soliti Masha e Orso o Peppa Pig. Si tratta, invece, di una piccola opera d’arte a bassa intensità per la tv, realizzata da Ugo Nespolo. Il quale ha collaborato con l’autore della serie (Robin Lyons), con i registi (Stefania Gallo e Ernesto Paganoni) e con un team di sceneggiatori italiani e irlandesi: ha curato il design di Yo e Yo e ha inventato i vari mondi fantastici all’interno dei quali i due piccoli eroi si muovono. Non solo un divertissement. Ma una sperimentazione, che ha un preciso valore pedagogico: vuole abituare i bambini a porsi in dialogo con un complesso sistema di immagini. E anche un’implicita risposta a tante esperienze concettuali della nostra epoca, che si rivolgono solo a chi già ne conosce il significato.

Pur se per vie laterali, Yo e Yo ci conduce nel cuore della filosofia dell’arte profondamente ancorata allo sperimentalismo novecentesco elaborata da Nespolo ed enunciata in diversi scritti e, soprattutto, in volumi come, tra gli altri, Maledette belle arti, Vizi d’arte (e Per non morire d’arte. Esercizi critici, che rilanciano la tradizione novecentesca degli artisti-critici-teorici. Siamo dinanzi ad agili e brillanti flâneries scandite in passaggi non sempre contigui. Un viaggio attraverso i dissonanti territori dell’arte contemporanea, che procede per snodi: dall’avvento in Europa della Pop Art al situazionismo, dalla Patafisica al cinema underground, dal concettualismo al postmodernismo, dal neo-monumentalismo epico ai neo-dadaismi.

Nespolo rilegge questi transiti non da storico dell’arte, ma da artista sorretto dalla volontà di coniugare l’esperienza del fare con la pratica della scrittura (secondo una consuetudine cara a tanti pittori del secolo scorso), impegnato a saldare questioni teoriche con riferimenti autobiografici. Eventi e situazioni sono sempre messi “in soggettiva”: ogni capitolo si apre con un racconto privato, dal quale muove una riflessione critica spesso segnata da irritazioni, densa di consonanze con le requisitorie anti-moderniste di Jean Clair e di Robert Hughes. Ma il cuore del discorso di Nespolo è altrove: nel nesso avanguardia-melanconia. Ecco: YO e YO. All’apparenza, due figure diverse, lontane, addirittura opposte. Eppure, tante le corrispondenze segrete.

L’avanguardia, allora. Una stagione di cerimonie scandalose: cubismo e futurismo, dadaismo e surrealismo, espressionismo e razionalismo. Un tempo bruciante, abitato da teorici di un avanti destinato a essere riconosciuto solo a posteriori, intenti a precorrere il corso della storia, cercando di costruire il futuro nel presente. Erede di quelle utopie, Nespolo condivide l’idea dell’arte come rottura, tabula rasa, rinnovamento, superamento a oltranza. Dai profeti delle avanguardie egli trae tanti stimoli. Innanzitutto, lo slancio per portarsi oltre una visione elitaria della creazione, intrecciando cultura alta e bassa, nella prospettiva di un’arte diffusa, popolare, da utilizzare anche per scopi non di pura fruizione estetica. E, poi: il rifiuto per un certo tono «aulico, esclusivo e sacerdotale». E, insieme, il gusto per gli eclettismi e le divagazioni. E ancora: la seduzione per le immagini e le forme «apparentemente banali e marginali» della vita quotidiana. Ma anche la predilezione per «il sentimento dell’intimo, il meditativo»; l’amore per il «portatile», per le sculture minimali, controllabili in ogni fase del processo (come la Boîte di Duchamp). Infine, la fascinazione per il cinema anti-hollywoodiano, libero, ludico, capace di piegarsi a esigenze diverse.

Eppure, è lontana l’ebbrezza delle avanguardie. Agli occhi di Nespolo, il mondo dell’arte di oggi si offre come un paesaggio desolante. «Un brodo […] svuotato di certezze e convinzioni», che ci rende «orfani di pensieri guida». Un teatro dell’assurdo pieno di vizi e di egoismi. Una wasteland, nella quale si demonizza il talento manuale e si tratta la bellezza come un fossile. Siamo nell’era «del tutto è arte e tutti sono artisti». Vi trionfano «un concettualismo d’accatto, privo di qualsiasi profondità e appeal»; uno sperimentalismo vittima di una «sterile tradizione della negazione» e di una sorta di superstizione del nuovo; un postmodernismo debole, esornativo e superficiale, fatto di uno «sconfinato esercito di oggetti surrogati e drogati»; un neo-barocco sensazionalistico, spettacolare e citazionista, del quale sarebbero testimoni Hirst, Koons, ma anche Kiefer e Iñárritu. Il vero capolavoro dell’arte contemporanea, secondo Nespolo, è il «crudele e vorace» artworld, che si fonda su regole e obblighi cui si attengono artisti, critici, curatori e collezionisti in un «tacito e interessato gesto d’osservanza e di rispetto indotto»: un sistema governato dal «profitto arbitrario e insensato» e da un’«ingordigia speculativa» che tende a ridurre quadri e sculture a merci. 

L’arte è stata ferita a morte. Come reagire a questo degrado? Occorre non accettare la «vorace tirannia» delle distorsioni. Ma tentare di cambiare lo stato delle cose. Ispirarsi agli stessi gesti irrequieti del protagonista di A colpi d’ascia di Thomas Bernhard. Affidarsi alle gioie dell’insofferenza e dell’irritazione nei confronti di tante inconsistenze artistiche attuali. Avere il coraggio di affrontare la battaglia della marginalità e della solitudine. E compiere scorribande in geografie inesplorate. Tra gli antidoti e i rimedi, per Nespolo, la forza delle illusioni e, soprattutto, il potere della melanconia. Ecco, la melanconia. Piuttosto che stare dentro le sabbie mobili della cronaca, meglio guardarsi indietro, tornando alle visionarie prefigurazioni delle avanguardie primonovecentesche.

È l’unica strada possibile? Nei suoi testi critico-teorico, Nespolo sembra consegnarci una sottile aporia. Per interpretare l’arte del nostro tempo, si richiama a modelli forse piuttosto anacronistici. Contraddice così la filosofia stessa dell’avanguardia, che non ammette ripiegamenti né ritorni, ma è proiettata sempre in avanti. E se una via di fuga dalle nebbie che ci avvolgono fosse rappresentata proprio dalle opere di Kiefer e di Iñárritu, che Nespolo sembra liquidare troppo frettolosamente? Questioni aperte.

In Nespolo, il dialogo con l’avanguardia assume intonazioni diverse, oscillando tra rimandi alla Metafisica ed echi dal Futurismo. Di nuovo: YO e YO. Il Pictor Optimus, dunque. Artista tra i più rappresentativi per cogliere la condizione del XX secolo, de Chirico è il portiere di notte di uno splendido palazzo, i cui inquilini si sono ritirati a dormire, lasciando sparse nella hall le loro borse stracolme. Il Grande Metafisico ha frugato in quei bagagli, complice la notte che porta con sé incubi e sogni. Siamo dinanzi a un artista che, quasi suo malgrado, è diventato un riferimento necessario per le tendenze figurative del Novecento, le cui parole d’ordine sono: riscatto del mestiere, della disciplina, dell’armonia compositiva, del fare artigianale. Si tratta di gruppi che hanno riarticolato il discorso dell’arte come territorio popolato di brandelli di linguaggio da citare, da attraversare, da usare non senza disinvoltura e disincanto.

Sulle orme di Ebdomero, il protagonista dell’omonimo romanzo surrealista di de Chirico, Nespolo non crede alle mitologie dell’originalità. Fare arte, per lui, significa sperimentare la ripetizione differente, riscoprire luoghi, temi e stili del passato, ponendoli in risonanza con le inquietudini del presente. Ri-guardare. Offrire un retroterra culturale alle più sfrenate scorribande della storia dell’arte. Fare in modo che il vettore della storia non corra avanti, ma inverta la propria traiettoria. Frequentare le stanze del museo, riconducendo dentro quelle mura, insieme con le memorie del passato, i prodotti della civiltà industriale.

Ispirandosi alle drammaturgie assurde dechirichiane, nelle quali i reperti archeologici convivono con i manichini degli atelier di moda e con le scatole di cerini, Nespolo mira a istituire un difficile equilibrio tra l’ondata del consumismo e l’antica sensualità dell’arte italiana ed europea. Interroga le seduzioni della società di massa con divertita severità. Si lascia sedurre dai nuovi riti, che non assimila, ma filtra attraverso una dissacrante malizia e una ritornante felicità.

Consapevole della tradizione della modernità da cui proviene, Nespolo sperimenta una presentazione dei «frutti del nostro tempo industriale» (avrebbe detto Boccioni), senza ma indulgere nelle rappresentazioni fredde, meccaniche e senz’anima dei pop artisti. Preferisce, invece, assumere figure, architetture e oggetti, sottoponendo questo archivio eterogeneo a giochi di scomposizioni per tessere e per viste parziali, debitrici del divisionismo francese e delle soluzioni adottate da Severini. Cosa avrebbero fatto Marinetti, Balla e Depero se fossero vissuti nel tempo della comunicazione di massa, del web, dei social? Ne siamo certi: si sarebbero divertiti a sperimentare con i “nostri” media. Un po’ come continua a fare da anni Nespolo, tra gli eretici animatori dell’Arte Povera, tra i protagonisti della Pop Art italiana. Pittore, cineasta, teorico, autore di frequenti scorribande nella televisione, nella grafica, nel design.

Siamo dinanzi a uno tra gli ultimi e ostinati eredi di quella che Maurizio Calvesi, con una formula efficace, chiamò «avanguardia di massa». Si tratta di un’esperienza poetica diffusa, che dimostra la forza “postuma” delle avanguardie primonovecentesche. Si pensi al Futurismo. Che ha sempre voluto essere in avanti e oltre, provando a disegnare possibili scenari futuri. Ma ha potuto affermarsi compiutamente solo dopo aver concluso la propria parabola storica. Accade così che principi estetici intuiti con slancio visionario, tra gli altri, da Marinetti, Boccioni, Balla, Depero, Sant’Elia e Russolo siano stati assunti e rilanciati tanti anni dopo da eredi più o meno indiretti: in ambito architettonico (Gehry, Zaha Hadid), musicale (Cage, Luigi Nono, Pink Floyd), stilistico (Biagiotti), oggettuale (Sottsass, Pesce).

In questa cartografia post-futurista un posto di rilievo è occupato proprio da Nespolo. Il quale, sorretto da un talento intermediale, richiamandosi alla lezione dei “marinettiani”, ama misurarsi con pratiche diverse, che mescola, ibrida e confonde. Per farlo, assegna una decisiva centralità alla dimensione ludica. In particolare, si riferisce a Balla e Depero che, nella Ricostruzione futurista dell’universo (1915), avevano elogiato «complessi plastici» capaci di abituare il bambino «a ridere apertissimamente; all’elasticità massima […]; a tendere infinitamente e ad agilizzare la sensibilità». Balla e Depero scrivevano: «Il giocattolo futurista sarà utilissimo anche all’adulto, poiché lo manterrà giovane, agile, festante, disinvolto, pronto a tutto, instancabile, istintivo e intuitivo».

Questa matrice futurista convive con una profonda attitudine pop. Nespolo predilige una natura inautentica e artificiale: quello che Barthes ha chiamato il “sociale assoluto”. Non solo le immagini cartellonistico-popolari e i prodotti industriali (come nell’opera di Warhol o di Oldenburg), ma soprattutto i capolavori della storia dell’arte. Che, in sintonia con le filosofie della postmodernità, vengono trattati come merci da profanare con impeto grottesco: icone piatte e omogenee; figurine estratte da un museo infinito. A differenza della maggior parte degli animatori della Pop Art, Nespolo, però, non si è limitato al piano della rappresentazione: ha scelto di entrare dentro il sistema dei media. Ne ha accettato le regole processuali, fuori da ogni intellettualismo. Da questa esigenza sono nati i suoi film underground. E le collaborazioni con la televisione: spot pubblicitari, sigle (come quella per Indietro tutta di Arbore), cartoni animati (Yo e Yo, appunto).

Per concretizzare il sogno di Marinetti, di Balla e di Depero, Nespolo si muove su diversi registri, realizzando lavori accomunati da alcuni elementi ricorrenti. Rispetto della riconoscibilità. Una notevole maestria compositiva. Una certa sapienza grafica. Ma anche: un’esuberanza decorativa e neo-barocca; l’inclinazione all’iperbolico e al delirante; il gusto per le ambientazioni sgargianti e per i colori prepotenti, luminosi. E ancora: l’amore per i giochi liberatori; la passione per le sequenze veloci. E, infine: il bisogno di dar vita a universo allegro, senza inquietudini, dove ogni motivo è risolto in una chiave popolare, infantile, innocente. Per «attirare subito, come ricordava Gillo Dorfles, l’attenzione del pubblico, senza eccessive sublimazioni […] o complicazioni».

Servendosi di diversi linguaggi, Nespolo si mostra incline a camuffare un ampio paesaggio di concetti in narrazioni visive. Sembra comportarsi sempre come un pittore figurativo, intento a elaborare, con istintiva grazia, un festoso e ingannevole realismo, sapiente nel modulare, con ostinato perfezionismo, affabulazioni dense di rinvii alle costruzioni letterarie di Calvino e alle iconografie futuriste. Marinetti aveva scritto: «L’arte è un bisogno di distruggersi e di sparpagliarsi. […] Vitalità dell’arte, questo prolungamento della foresta nelle nostre vene, che si effonde, fuori dal corpo, nell’infinito dello spazio e del tempo». In queste parole è il senso dell’avventura di chi – come Nespolo – ha provato a far rivivere quelle lontane utopie avanguardistiche, svelandone (ancora) la bruciante attualità.

Questa filosofia la ritroviamo nell’installazione ideata per l’Università IULM di Milano, prima tappa del TAM TAM (Teatro delle Arti Mediali), il museo della comunicazione voluto dal Rettore Gianni Canova. Un piccolo luna park colto. Un monumentale gioco di carte, pronto a subire continue trasformazioni. E, insieme, un piccolo museo immaginario, aperto a possibili modifiche. Una pinacoteca iper-pop, in cui si trovano a convivere figure e icone che hanno segnato le arti, i media, le letterature del XX secolo. È una galleria che non ha niente di solenne. Ma va letta come un altare innalzato al controdolore caro ai futuristi fiorentini. Forse, un implicito omaggio ad Aldo Palazzeschi che, in una celebre poesia, aveva esclamato: «E lasciatemi divertire!»

Riferimenti bibliografici
U. Nespolo, Maledette belle arti, Skira, Milano 2019.
Id., Pe non morire d’arte, Einaudi, Torino 2021.
Id., Vizi d’arte, Skira editore, Milano 2022.

*In una versione diversa, questo testo è stato pronunciato come laudatio per il conferimento a Ugo Nespolo del diploma ad honorem del Master in Management delle Risorse Artistiche e Culturali dell’Università IULM di Milano (23 ottobre 2023).

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