Quelli della mia generazione hanno a casa almeno un’opera di Robert Frank: la copertina del doppio album dei Rolling Stones Exile on Main St (1972). Invece nessuno ha visto il film coevo girato da Frank sulla tournée americana della band, con un oscenissimo titolo (Cocksucker Blues) che è lo stesso di una canzone scritta da Mick Jagger per fare arrabbiare la casa discografica Decca: le uscite del film, autocensurato dagli stessi Stones, sono state autorizzate solo in presenza del regista, roba da privilegiati.
La cosa curiosa, però, è che la filmografia di Robert Frank comincia già nel 1959 con Pull My Daisy (all’epoca lanciato come “un film di Jack Kerouac”), presente nella Storia del cinema sperimentale di Jean Mitry, e si estende fino al 2004 (con il fatidico titolo True Story) quando l’artista ha ormai ottant’anni. Come chiudere gli occhi sul carattere bifronte di questo Giano svizzero (come il Godard di Sympathy for the devil) americano?
La prima svolta nella vita di Robert Frank, classe 1924, è quando a 23 anni si trasferisce a New York avendo come portfolio un libro di 40 foto senza didascalie. Il suo primo mentore è Brodovič, l’influente direttore artistico della rivista “Harper’s Bazaar”, che gli assegna lavori ben pagati; ma il mondo della moda non è fatto per il taciturno ragazzo, che se ne scappa sulle Ande alla ricerca di realtà visiva non filtrata dalla mediazione linguistica (ma l’impaginato di Peru risente di quello pensato da Brodovič per Day of Paris di Kertész).
Il secondo mentore è Walker Evans, l’uomo che su committenza della Farm Security Administration ha inventato lo “stile documentario” e prodotto l’epocale libro Sia lode ora a uomini di fama (in collaborazione con lo sceneggiatore cinematografico James Agee); è Evans che fa ottenere a Frank una borsa di studio della Fondazione Guggenheim per un progetto fotografico sugli USA, segnando il secondo punto di svolta.
9 mesi, 10.000 miglia, 80 stati, 767 rullini, 27.000 scatti fra cui scegliere 300 provini da cui estrarre 83 foto: questi sono i numeri del viaggio lungo gli USA che, intrapreso nell’autunno del 1955 assieme alla moglie Mary e ai figli piccoli caricati su una Ford, conduce Robert Frank a un lavoro che viene editato proprio mentre esce il capolavoro di Jack Kerouac On The Road. Le foto vengono rifiutate sia da “Life” che dal “New York Times”: finisce che Les Américains vede la luce a Parigi nel 1958, anno in cui l’editore talent scout Robert Delpire compie il trentesimo compleanno. Altro incontro del destino è quello con Kerouac, che decide di scrivere l’introduzione che mancava: nel 1959 The Americans esce per la giovane Grove Press; Frank ha 35 anni, Kerouac 37.
L’immagine d’apertura, scattata durante una parata nel New Jersey, inquadra due spettatori a due finestre di una casa di mattoni: lo sguardo della casalinga sciatta è coperto da uno scuro, ma la testa dell’uomo col cappotto è tagliata dalle strisce della bandiera americana appesa all’esterno; il simbolo della patria copre l’identità (il volto) dell’individuo, che rientra così nell’anonima maggioranza silenziosa voluta dal maccartismo. L’immagine di chiusura è il muso della Ford ferma sul ciglio di una strada del Texas, fari accesi per il tramonto, col vetro del parabrezza che incornicia Mary Frank col figlio; un’altra concezione di casa e di famiglia on the road, che aggiorna la fuga in Egitto (non scordiamo le origini ebraiche del fotografo) all’epoca dell’automobile “sposa meccanica” (il libro d’esordio di McLuhan è datato 1951).
In mezzo, un vertiginoso avvicendarsi di classi alte e classi basse, bianchi e negri (gli anni cinquanta erano ancora segregazionisti, come ci ha ricordato Green Book), feste e funerali, uffici pubblici e negozi, sale cinematografiche e studi televisivi, e sempre e dappertutto bandiere a stelle e strisce e mezzi di locomozione (lo scatto di copertina, il tram di New Orleans, è poi stato battuto da Christie’s per 550.000 dollari). Ma ciò che colpisce è questo bianco e nero da notiziario della Movietone, con inquadrature che all’epoca apparvero sbagliate, gente vista di spalle, sguardi in macchina, sgranature, sfocature in primo piano, il “mosso” come conseguenza della velocità (la catena di montaggio di Detroit). Peggio di così s’era visto solo con New York di William Klein (1956), non a caso un altro outsider che ha un’epifania della Grande Mela dopo un ritorno da otto anni parigini; non a caso un altro libro sull’America pubblicato prima in Europa, a Parigi da Seuil e a Milano da Feltrinelli.
L’introduzione di Jack Kerouac mette in risalto le doti d’improvvisazione dello street photographer: la foto di alcuni pensionati della Florida che siedono su due panchine dandosi le spalle, e in cui spicca una vecchia seminole che fuma corrucciata, gli sembra «un’immagine pura come il più bell’assolo jazz di sax tenore»; e per capire appieno il complimento si tenga conto che nel 1959 esce anche il 33 giri Blues and Haikus, dove Kerouac fa un reading accompagnato dai sassofonisti Al Cohn e Zoot Sims.
Ma il carattere di flagranza di queste istantanee (per Frank la foto è una reazione istantanea a sé stessi) emerge nella frase finale dell’introduzione, in cui Kerouac chiede: «Quella ragazzina ascensorista tutta sola che guarda in su e sospira in un ascensore pieno di demoni confusi, come si chiama? Dove abita?». Robert Frank risponde molti anni dopo, nel documentario di Laura Israel Don’t Blink (2015): Eva Cunningham. Davvero?, chiede l’intervistatrice sorpresa della rivelazione. E l’intervistato sornione: «Me lo sono inventato in questo istante».
La folle strada solitaria di Kerouac, che spinge gli uomini ad andare avanti e li fa uscire di testa, è una metafora dell’arte che si confonde con la vita. La filosofia di Frank è il continuo imbocco di strade nuove: Gli Americani potrebbe aprire un’epoca e invece la chiude, gli anni sessanta saranno quelli del cinema. Il punto di giunzione dei due mestieri è la direzione di fotografia: Robert Frank si aggiudica quella per lo psichedelico Chappaqua di Conrad Rooks, film sperimentale famoso per le musiche di Ravi Shankar e la presenza attoriale di Burroughs e Ginsberg, e che nel 1966 vince il Leone d’argento al festival di Venezia.
I film successivi, diretti e prodotti autarchicamente a budget zero, sembrano rispondere da un lato all’imperativo categorico di tenersi occupati (il titolo del 1975 Keep Busy è uno slogan per la vita degli artisti) e dall’altro a una pulsione diaristica che curiosamente ha poi investito il mondo della fotografia d’arte (Nan Goldin, per intenderci): Conversations in Vermont (1969) mette in gioco la relazione padre/figli; alla memoria della figlia Andrea è dedicato Life Dances On (1980), alla memoria del figlio Pablo è dedicato The Present (1996).
Se la morte circonda l’artista da tutti i lati, l’artista sa che l’opera può essere ricordo privato o monumento pubblico: per Frank il limite della foto è di essere un ricordo che si mette da parte (“Laissez tomber les mémoires”), mentre il film può restituire la vita proprio in quanto “morte al lavoro”. E dunque non si filma ciò che è importante, ma si fa diventare importante ciò che si filma, cioè tutta l’umanità che si ha sottomano, dall’amico artista diventato famoso dopo morto (Sanyu, 2000) al tipo che fa il giro della Nova Scotia per portare i giornali (Paper Route, 2002).
C’è insomma una sorta di bulimia delle immagini che è un tutt’uno con la mobilità perpetua di questo vagabondo del Dharma che, senza essere parte di alcun movimento (e tanto meno di un establishment), è stato beat nel senso religioso che Kerouac dava al termine. Famoso, sì, ma come un perfetto sconosciuto – like a rolling stone.