Al tavolo della Uncle Bob’s Pancake House, Mr. Blonde è solo uno degli uomini vestiti di nero seduti a un tavolo, ed è sicuramente tra i meno loquaci. In virtù di questa posizione defilata, la sua ricomparsa dopo circa mezz’ora di film ha il valore di una prima apparizione in scena. Siamo nel capannone dove una parte del gruppo di rapinatori ha trovato riparo dopo il sanguinoso fallimento del colpo. Mr. Pink e Mr. White si puntano le rispettive pistole l’uno contro l’altro, in un’inquadratura che è stata spesso utilizzata a fini promozionali. Da questa composizione perfetta, bilanciata, scultorea, la macchina da presa arretra carrellando fino a includere a destra la figura di spalle di un uomo in abito scuro, con una bibita in mano: è Mr. Blonde. Così più di trent’anni fa Michael Madsen rientra, di nuca, nel film d’esordio di Quentin Tarantino, e proprio quel movimento di macchina enfatizza il suo carisma.

In Kill Bill: Volume 2 (Quentin Tarantino, 2004) invece lo vediamo dopo il flashback del massacro di Two Pines: seduto sulla porta di un camper nel bel mezzo del deserto, parla con Bill e ha di nuovo qualcosa in mano, prima una grossa latta metallica e poi una bottiglia di whisky. Porta un cappello da cowboy e mentre dialoga con Bill vediamo tutto il repertorio di Michael Madsen: un tocco al cappello, uno sguardo alla bottiglia, tutto in una serie di inquadrature dall’alto verso il basso che sottolineano la differenza di ranking rispetto all’interlocutore, ma anche l’umanissima indolenza del suo personaggio, la sua vulnerabilità.

Madsen mette dunque la fragilità al servizio di ogni personaggio, attingendo a questa risorsa preziosa per scalfire la scorza del villain e mettere in discussione le ragioni dell’azione. Per effettuare questa deviazione, l’attore parte dai gesti più convenzionali: quando svela il suo volto durante The Hateful Eight (Quentin Tarantino, 2015), prima tende i guanti di pelle e poi occhieggia da sotto il cappello, come un vero duro in un western classico, ma poi ci sorprende dichiarando di essere diretto a casa della madre, per trascorrere il Natale.

C’è, nel suo stile di recitazione, la capacità di farsi carico del malessere, come facevano i grandi attori nei film della New Hollywood su cui si era formato il gusto del giovanissimo Quentin Tarantino. A volte è il malessere del proprio personaggio, altre volte è quello altrui, come quando Madsen nei panni di Tom Baker accompagna Jim Morrison nella discesa agli inferi dell’autodistruzione in The Doors (Oliver Stone, 1991); pur incarnando facilmente l’archetipo del loner, l’attore è versato anche nel gioco di squadra, come mostra in Wyatt Earp (Lawrence Kasdan, 1994), il film che (stando alle interviste) gli preclude il ruolo di Vincent Vega in Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994) a causa dei piani di lavorazione concomitanti. Ogni performance, per quanto laterale o circoscritta, mostra sempre un controllo del repertorio gestuale, una sbrigliata ma non sovreccitata microdrammatica del volto, l’assetto di un attore educato (corsi e spettacoli allo Steppenwolf Theatre di Chicago) pronto a gettarsi nella mischia.

Le notevoli doti di Michael Madsen emergono ulteriormente in una delle serie più importanti degli anni zero, 24 (2001-2009); chiamato da Kiefer Sutherland in un piccolo ruolo da quattro episodi nell’ottava stagione, l’attore risponde con una solida interpretazione. Il ruolo è sì circoscritto ma decisivo, perché si tratta di un adiuvante a cui il protagonista Jack Bauer (ex-agente antiterrorismo in fuga) ricorre ripescando dal passato un favore da riscuotere; Madsen deve dunque attingere a una memoria finzionale, a un vissuto inesistente, a una backstory da indossare come un abito consumato dal tempo. Il passato è tutto sulle spalle dell’attore, perché il concept di 24 (fondato sull’azione in tempo reale) non consente l’uso di flashback.

Con un’ampia cicatrice da ustione che gli si spande dal collo, il personaggio di Madsen è un risolvitore di problemi spinosi, come rintracciare persone che non si vogliono far trovare oppure disporre illegalmente di armi. Bauer si rivolge a lui senza preamboli, come a un vecchio amico riluttante ma leale. È molto interessante vedere come Madsen si barcamena in un ambiente ipertopico, circondato da schermi che grondano sequenze binarie in caratteri verdi. In questo contesto l’attore non deve sembrare fuori posto ma allo stesso tempo deve portare quel contributo di empatia, di comprensione della sofferenza, che lo differenzia dalle macchine intorno a sé: è come se Madsen dovesse superare un test di Voight-Kampff, come si vede nel dialogo in cui si fa convincere a rivelare la posizione dell’amico fuggitivo, in una sorta di complicato tradimento-aiuto che solo un attore come lui poteva essere in grado di gestire.

In quattro episodi c’è spazio per una sola scena insieme a Kiefer Sutherland, ma è un gran pezzo di cinematic TV, pieno di sottogesti e sguardi da attori di un’altra epoca. È stato un attore defilato e indimenticabile, marginale e indispensabile, Michael Madsen; forse il più grande non-protagonista del cinema contemporaneo.

Micheal Madsen, Chicago 25 settembre 1957 – Malibù 3 luglio 2025.

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