È morta a Roma Lorenza Mazzetti, che dicono avesse novantatré anni. In realtà, era rimasta sempre una ragazzina, la ragazzina Penny, legata alla gemella Baby da un’affinità biologica profonda, rinsaldata dalla comune esperienza di tragedia. Era stata regista di film, autrice di romanzi che erano in realtà autobiografie neppure un po’ mascherate, pittrice, creatrice di pupazzi e marionette per un teatro rivolto alla messa in scena dei sogni di bambini.

Aveva anticipato le teorie del futuro Free Cinema inglese, assieme a Lindsay Anderson, Tony Richardson, Karel Reisz e altri, a partire dalla posizione di profuga italiana senza una lira, emigrata avventurosamente a Londra per sfuggire al ricordo traumatico della strage di Rignano, dove aveva dovuto assistere, assieme alla sorella, alla strage della famiglia dello zio Robert Einstein (cugino di Albert e loro padre adottivo, dopo la morte dei genitori), perpetrata nel 1944 dai tedeschi in fuga, decisi a colpire almeno nei suoi affetti lo scienziato ebreo odiato da Hitler. Assente Robert, nascosto nei boschi vicini, uccisero la moglie e le tre figlie, con le quali le gemelle Mazzetti avevano diviso giochi e avventure infantili.

Famiglia di “traditori e giudei”: c’erano state, ovviamente, denunce, spiate e complicità, mai accertate, da parte di fascisti italiani, forse di qualche prete scandalizzato dal libero pensiero professato dallo zio Robert (che a sua volta, devastato dal senso di colpa, si suiciderà qualche anno dopo). Nella notte dell’eccidio, di fronte alle gemelle terrorizzate, il cielo era caduto, né cesserà mai di cadere, benché Penny/Lorenza cercasse in ogni modo di elaborare il lutto, addirittura espatriando. Lorenza si ritrova a Londra senza un soldo, visto che anche il tutore delle gemelle, rimaste sole e senza parenti, ha provveduto ad appropriarsi dei loro beni.

Letteralmente alla fame, Lorenza non si scoraggia. Riesce a farsi ammettere ai corsi della Slade School of Fine Art. Lì, secondo quanto lei stessa racconta nel Diario londinese, rubando una macchina da presa e un po’ di pellicola dalle attrezzature della scuola, gira nel 1954 il suo primo film, K, un mediometraggio tratto dalla “Metamorfosi” di Kafka. Riesce a evitare d’essere arrestata, solo perché il film, interpretato da un giovane pittore inglese (Michael Andrews) piace ai dirigenti della scuola, che decidono di perdonarla. L’elemento di novità del film consiste nell’intuizione che il vero mostro, l’essere emarginato e ributtante, la cui esistenza va tenuta il più possibile nascosta, non è K – le vere creature mostruose, o almeno odiose, sono i suoi familiari, parenti, colleghi e amici, ossia coloro che lo circondano.

Possiamo immaginare in molti modi un luogo deputato alle metamorfosi. Per Ovidio, e in genere per gli antichi, era di solito uno scenario agreste, fatto di boschi, alberi, acque, fiumi, abitati da ninfe, dei e semidei, dove i prodigi avvenivano in una maniera così naturale da stemperare comunque anche gli eventuali esiti tragici. Per Kafka, era la camera da letto d’una casa modesta nel quartiere ebraico di Praga, dove una mattina Gregor Samsa si svegliava, trovandosi mutato in un gigantesco scarafaggio.

Nel racconto La metamorfosi, Kafka in realtà accenna appena alle caratteristiche mostruose che il corpo di Gregor ha inopinatamente assunto. Analogamente, nel film d’esordio della Mazzetti, i veri mostri sono gli altri, rispetto ai quali Gregor, senza che sul suo corpo appaiano trasformazioni fisiche, prende coscienza della propria diversità. C’è dunque una metamorfosi che non mette in gioco la continuità dell’aspetto esteriore, una metamorfosi, si potrebbe dire, più kafkiana di Kafka. A causa di essa si diventa larve interiori e si perde perfino (cinematograficamente) la capacità di parlare: va ricordato infatti che, non riuscendo a sincronizzare visivo e parlato per la mancanza di adatte attrezzature, Mazzetti dovette far ampio ricorso al fuori-sincrono: scelta obbligata, ma comunque ulteriormente spiazzante.

Alla visione di K cui seguì “l’assoluzione” della Mazzetti si trovò ad assistere per caso Denis Forman, allora direttore del British Film Institute. Fu lui a proporle se aveva voglia di fare un film regolarmente finanziato, senza paura di essere arrestata: nacque così Together (1956), girato in collaborazione con Denis Horne. Era una storia cui la Mazzetti pensava da tempo: l’amicizia  e il sodalizio tra due disabili, due giovani sordomuti, che lavorano insieme e dividono una camera all’ultimo piano d’uno stabile fatiscente in un quartiere povero di Londra. Uno è grasso (Edoardo Paolozzi), l’altro magro (ancora Michael Andrews) e una frotta di ragazzini li segue, li prende in giro, li perseguita, fa loro degli sberleffi, quando camminano per le strade del quartiere, dopo il lavoro, senza rendersi conto di quello che gli succede attorno.

In fondo i veri protagonisti sono proprio i bambini, la loro vivacità scatenata e la loro inconscia crudeltà. Sul muro ai cui piedi giocano, che sembra quello d’una prigione, tra buche e marciapiedi sconnessi, disegnano col gesso caricature dei due sordomuti, quasi fossero Stanlio e Ollio. Tutto è investito dal vento freddo della crudeltà, e culmina nella morte del magro, che scivola giù dal parapetto d’un ponte nel tentativo di recuperare il cappello che i bambini gli hanno fatto volare. Non sa nuotare, non può chiedere aiuto e annega, in una sequenza agghiacciante; l’amico grasso lo aspetterà invano, appoggiato al parapetto dello stesso ponte.

Agghiacciante è il finale, ma anche la solitudine dei due amici nel deserto della vita quotidiana. Alcuni gli parlano, senza rendersi conto del fatto che non sentono. Le ragazze non vogliono saperne di loro, salvo qualche volenterosa prostituta. Al tempo stesso, la macchina da presa perlustra le strade del quartiere, il mercato, la fiera, i pub, filma personaggi umili e quotidiani, un’umanità di tipo realistico di cui il cinema inglese aveva da tempo dimenticato l’esistenza: è, appunto, l’annuncio del Free Cinema.

Tornata in Italia, Lorenza riesce a pubblicare il suo capolavoro, Il cielo cade, il libro-ossessione, il libro della tragedia il cui ricordo non l’abbandonerà mai. Eppure libro vitale, pieno di un’inesausta gioia di esistere. Aveva girato un breve episodio nel film collettivo Le italiane e l’amore (1961), organizzato da Cesare Zavattini. Anche qui, storie e confidenze di bambini, alle prese con i misteri della sessualità. Qualche altro tentativo, poi la Mazzetti lascia il cinema, si dedica alla narrativa, alla pittura, al teatro di marionette.

Perché? Soprattutto per insofferenza delle regole commerciali che soffocano il cinema, per la necessità di piegarsi ad esse o comunque di doverne tener conto ogni momento. Da Il cielo cade, nel 2000, i fratelli Andrea e Antonio Frazzi gireranno il film omonimo (ancora qualcosa nel segno dei gemelli!), poi più niente, almeno fino al documentario-omaggio Perché sono un genio! Lorenza Mazzetti (2016) di Steve Della Casa e Francesco Frisari.

Sembra una vecchia regola: il cinema tende a espellere da sé, come corpi estranei, tutti coloro che gli si avvicinano con intenzioni innovative. C’è chi insiste, affascinato comunque dalla magia delle immagini in movimento, incapace di allontanarsene, e c’è chi, come Lorenza Mazzetti, preferisce lasciare, in nome dell’indipendenza e della coerenza. Addio cinema, in fondo non mi meriti! – sarebbe potuto essere il suo motto.

Riferimenti bibliografici
L. Mazzetti, Il cielo cade, Sellerio, Palermo 2002. 
Id., Diario londinese, Sellerio, Palermo 2014.

Lorenza Mazzetti, Firenze 1927 – Roma 2020.

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