Vilnius, l’attuale capitale della Lituania, a distanza di più di un ventennio dall’indipendenza conta ben sette teatri. Il sentimento antisovietico è vivissimo in questa nazione giovane di 3.600.000 abitanti, di cui 200.000 sono morti nelle guerriglie di resistenza all’occupazione sovietica fra il 1943 e il 1950, impegnata con energia a fondare e sostenere le strutture culturali pubbliche di cui in poco tempo si è dotata. A Vilnius, il minuscolo teatro privato di Eimuntas Nekrošius (che se n’è andato improvvisamente il 20 novembre, per cui usare il tempo passato, a così breve distanza dalla sua morte, non viene naturale), che si è formato nel solco della tradizione teatrale sovietica, al Gitis di Mosca, prende lo stesso nome della sua compagnia, Meno Fortas, La Fortezza dell’Arte e si trova nel cuore della città vecchia. Artisticamente Vilnius è una città molto viva, anche se il leitmotiv dei critici lituani è che durante il regime sovietico c’era un teatro radicale, scomparso con l’acquisita indipendenza che ha acuito il divario fra teatro e società. Lo studioso di teatro russo Vladislav Ivanov, uno dei primi a riconoscere il valore del teatro di Nekrošius, tanto da organizzare a Mosca nel 1987 una tavola rotonda con i più autorevoli critici sovietici, conferma questa tesi:

La liberazione dal partito comunista non ha portato la libertà, perché oggi la dipendenza più forte è quella economica. Nel sistema sovietico, sia il teatro come luogo fisico che le compagnie appartenevano allo Stato (veniva definito “feudalesimo di velluto”), ogni regista tendeva a creare la sua compagnia e ad avere un suo teatro, con una sua identità, anche se aveva degli obblighi nei confronti dello Stato. Costruire una famiglia per fare ricerca, è stata la tendenza dei registi cresciuti in epoca sovietica, dove il teatro è stato il luogo della dissidenza. La libertà politica conquistata con l’indipendenza nazionale ha prodotto crisi negli intellettuali e negli artisti lituani perché durante il regime sovietico l’arte lottava contro un nemico (che non poteva però fucilare gli artisti come aveva fatto con Mejerchol’d). Il teatro dei registi dissidenti, fra cui lituani e georgiani, era un teatro che il regime considerava “antisovietico”, perché ciascuna di queste nazionalità rivendicava l’autonomia, ma il teatro, all’epoca, non ha sofferto di nazionalismi perché in quegli anni ‘70-‘80 c’era un fondamento comune, il teatro era una sorta di culto religioso.

 

Eimuntas Nekrošius a Vilnius rappresenta un caso a sé rispetto ai registi più giovani, come Oskaras Korsunovas, perché non allineato sulle nuove parole d’ordine. Infatti mentre le giovani generazioni di registi lituani sono alla ricerca di una identità, il teatro di Nekrošius si rivolge alla letteratura e alle idee universali di cui è portatrice: «Oggi è difficile – considera il regista – trovare qualcuno, fra gli studenti, che legga Guerra e pace o I miserabili. Io detesto questa tendenza. Non vi è più spazio per i sentimenti, ma solo per lo scambio di informazioni. L’anima si è persa, valori di grande importanza sono andati perduti». Se scorriamo la sua teatrografia, l’universo di riferimento sono i classici della letteratura, da Shakespeare a Dostoevskij, Gogol’, Kafka, Čechov.

I suoi spettacoli però non pongono in prima istanza il problema dell’interpretazione del testo, e questo è un dato che lo pone al di fuori del teatro convenzionale della messa in scena del testo, ma anche fuori dalle storiche battaglie del teatro europeo occidentale del secondo Novecento, contro il testo e per la scena. L’organicità fra parola e azione, fra personaggio e attore che si riscontra negli spettacoli di Nekrošius scaturisce da un processo di lavoro in cui il testo non è interpretato autonomamente dal regista secondo chiavi di lettura ideologiche, storiche o filosofiche (secondo la prassi della regia critica in Italia, ad esempio), ma passa attraverso il lavoro degli attori e con gli attori, attraverso una ricerca che si svolge su più livelli: fisico, psicologico, spirituale, guidata dal regista ma non approntata già confezionata, di cui all’attore resta l’esecuzione. E il testo viene recepito né come antico né come attuale, capace di parlare al presente e con urgenza.

Questa capacità di Nekrosius di saper raccontare una storia attraverso l’attore e lo spazio scenico, per cui il testo passa senza sovraccarichi attualizzanti, senza forzature acustico-fonetiche, produce attrazione nello spettatore, che si trova coinvolto in un racconto scenico che assorbe la sua attenzione con un plot da telenovela, un ritmo da vaudeville, le gag di un film comico. I drammi di Čechov, ad esempio, assumono un tono tragicomico piuttosto che elegiaco, non “la melodia di una vita spenta e mediocre”, quanto la cacofonoia del crollo di un’intera epoca culturale e storica. Secondo la studiosa Jurgita Staniškyté, Nekrošius rappresenta un tratto peculiare del teatro lituano, la vocazione verso una narrazione visiva e autoriflessiva attraverso cui esprimerebbe la sua dimensione critica che è rivolta anche all’interno del suo teatro-mondo.

Ne Il naso (1991) di Gogol’ il regista smantella il suo ruolo e quello dell’artista nella società: in Bado Meistras (2016) di Franz Kafka, Nekrošius trasferisce la paradossale situazione del digiunatore (A Hunger Artist è il titolo in inglese) nel territorio dell’arte: il digiunatore è un eroe, un artista (interpretato dalla favolosa attrice Viktorija Kuodytė) disperato, incompreso, sfruttato dal suo agente e, come nei freak show, maltrattato. Trofei, medaglie, targhe coronano il suo successo e costruiscono la sua leggenda, ciononostante si trova a condividere lo spazio destinato agli animali.

Questi spettacoli innescano conflitti che collidono con i valori della società lituana post-sovietica. In Zinc, uno spettacolo visto al festival Showcase di Vilnius nel 2018, il racconto riguarda fatti vissuti di recente, che disegnano la storia degli ultimi decenni del ‘900, la guerra che l’URSS ha combattuto in Afganhistan e l’esplosione dei reattori a Černobyl’. Coerentemente con il racconto della scrittrice Svetlana Aleksievič nei due romanzi Preghiera per Černobyl’ (2002) e Ragazzi di zinco (2003), il cui metodo si basa sulla raccolta di testimonianze dirette di persone testimoni dei fatti, le quali raccontano le loro storie, emozioni, sentimenti che i mass media ignorano e che il potere politico ha interesse a nascondere, anche lo spettacolo ha un andamento di esposizione diretta.

I due romanzi sono racconti corali collettivi, intessuti di più voci. Nello spettacolo le figure di madri e soldati fuoriescono dal coro che osserva, ascolta e reagisce, si posizionano in ribalta frontalmente e spalancano degli squarci sui traumi e le sofferenze vissute. In questo spettacolo Nekrošius ricorre a una scrittrice vivente e a un racconto-reportage, non alla poesia dei classici, eppure non adotta il format da cronaca televisiva. La tradizione poetica, fantastica, metaforica che al teatro di Nekrošius arriva dalle avanguardie russe è viva e lavora per riconfigurare la composizione drammaturgica.

Nekrošius ripristina così un rapporto fra teatro e società che è vitale, esaltando la dimensione teatrale che non va contro il presente modellizzato dai media, ma è una forma a suo modo di resistenza al presente, nel senso che lo mina, lo mette a rischio. Per Meno Fortas opporsi ai poteri dominanti vuol dire affermare attraverso la letteratura valori universali, opporsi alla superficie mass-mediatica del neocapitalismo multinazionale, all’omologazione ai valori estetici della produzione teatrale euro-americana.

Richiamando l’autorità di Brecht, il teatro è politico quando contribuisce al cambiamento di regole vigenti e adottate da una comunità, quando combatte la doxa e favorisce la trasformazione. Il teatro di Nekrošius persegue la sua funzione di opposizione che aveva negli anni del regime sovietico e la rivolge nei confronti della società lituana post-sovietica, critica le forze politiche antidemocratiche e nel contempo autocritica il ruolo dell’artista mediante potenti composizioni plastiche, perché attraverso le metafore percepiamo più intensamente la realtà.

Riferimenti bibliografici
V. Valentini, Eimuntas Nekrošius, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000.
Conversazione di Valentina Valentini con Vladislav Ivanov, in “Ora locale”, n. 24 marzo 2001.
J. Staniškyté, Il territorio del cambiamento: il teatro nella Lituania postsovietica, in E. Faccioli, a cura di, I teatri post-sovietici. Ucraina, Bielorussia, Estonia, Lettonia, Lituania, UniversItalia, Roma 2016.

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