Bertolucci

All’interno della ricca proposta di documentari sul cinema visti all’ultima edizione della Mostra di Venezia, Evviva Giuseppe di Stefano Consiglio costituisce un raffinato esempio di scrittura filmica. Il regista utilizza sia footage che materiali originali, girati ex novo, per il film: interviste, letture, recite, monologhi. Ma l’impasto risulta talmente coeso che un pregio del lavoro sta proprio nella fluidità con cui sequenze di diversa provenienza risultano percepite quali componenti di un unico flusso, estetico e narrativo. Inoltre, Consiglio limita qualsiasi intervento manipolatorio sulle immagini d’archivio, per lasciare spazio alla loro viva forza testimoniale. Dunque più compilation che found footage film: ma il debole processo di risemantizzazione non costituisce un limite quanto, piuttosto, il porsi al servizio del racconto su un regista poliedrico come Giuseppe Bertolucci.

Il titolo esprime da subito il rapporto amicale, e di stima, fra Consiglio e Bertolucci, per un progetto “doloroso e entusiasmante al tempo stesso”. Un lavoro che sin dagli originali titoli di testa – in animazione, con foto, disegni, piccoli oggetti inseriti sulle pagine di un diario intimo – privilegia il percorso emotivo, più che biografico o critico. Dunque un film sulla vita e sui tanti talenti di un regista capace di affrontare originalmente il proprio tempo, attraverso una ricerca espressiva in grado di investire arti diverse, a cavallo fra poesia e pittura, cinema e teatro, televisione e promozione culturale.

Giuseppe viene raccontato in primis dagli artisti di famiglia: il padre Attilio, che evoca il “doloroso privilegio” di essere fratello minore, e il fratello Bernardo, attraverso episodi legati alla sua nascita (emozionante il racconto delle grida di gioia con loro padre, in una Parma innevata, alla nascita del fratellino Giuseppe), ai giochi dell’adolescenza, al contagio della “malattia del cinema”. Dalle parole di Bernardo emerge una fratellanza che è profonda amicizia, collaborazione sul set, stima per le loro differenze. Lontani dalle paure e dalle gelosie di familiari che attraversano gli stessi ambiti artistico-professionali (come fu, ad esempio, il timore, poi il distacco, di Federico Fellini per il fratello minore Riccardo, quando questi intraprese la carriera di cineasta). Ai primi ricordi familiari si associa quindi il coro di amici (Mimmo Rafele, Lidia Ravera), testimonianze di colleghi (Marco Tullio Giordana, Nanni Moretti), riflessioni delle sue attrici (Stefania Sandrelli, Laura Morante, Sonia Bergamasco), interventi originali di Fabrizio Gifuni, Aldo Nove, Gian Luca Farinelli.

Giuseppe entra subito in scena, per commentare una foto di famiglia scattata dall’amico fotografo Carlo Bavagnoli, fra il 1957 e il 1959. Ecco il ritratto di una famiglia borghese italiana, con il padre e la madre seduti sul divano di casa, e i due figli in piedi, alle loro spalle. Mentre riecheggia un celebre verso del padre, “assenza, più acuta presenza”, osserviamo la foto dilatarsi e, con il divano, entrare letteralmente in scena, su un palco dove irrompe a sua volta Giuseppe, accolto dagli applausi del pubblico. Si tratta dello spettacolo A mio padre. Una vita in versi, realizzato in occasione del centesimo anniversario dalla nascita di Attilio: un gioco delle parti pirandelliano, una dedica intima e personale al suo universo poetico, fra i componimenti che Attilio scrisse per Giuseppe e i pensieri di Giuseppe tratti dal volume Cose da dire.

Nell’incipit del film, Consiglio pone l’accento su questa famiglia speciale, ricca di stimoli ma anche impegnativa, con un padre e un fratello maggiore protagonisti della cultura italiana. La forza e la capacità di uscirne indenne, senza copiare nessuno, senza misurarsi, è un merito di Giuseppe ricordato da Lidia Ravera. L’acquisizione di quello sguardo che è dei fratelli minori, un punto di vista laterale, al bordo della cornice, irrompe come caratteristica intima: ma, pure, come suggestione ereditata dai primi incontri con Cesare Zavattini, nel ricordo, questa volta è Fabrizio Gifuni a raccontarlo, dei tanti piccoli dipinti di casa Za che indussero Giuseppe a riflettere su un pudore sconfinato; quel relegarsi in spazi di minima espressione pittorica, mentre il celebre sceneggiatore esplodeva pubblicamente negli schermi cinematografici di tutta Italia. Confinarsi in quel ruolo di “minore”, indicava un formato, un genere che minore non era affatto. O, come ricorda Marco Tullio Giordana, rappresentava piuttosto un minore da intendersi in senso musicale, una tonalità meno gradassa, forse meno squillante ma più riflessiva, capace di ascolti e modulazioni dell’inquieto.

Il footage utilizzato da Consiglio ci accompagna in una splendida lezione di cinema. Sul cinema. Quando vediamo Giuseppe, non ancora trentenne, in primo piano, osservare che «il cinema è l’infanzia e la memoria del Novecento» siamo in una sequenza di ABCinema (1975, montato con Kim Arcalli), il making girato durante le riprese di Novecento (1976, di Giuseppe Bertolucci); in realtà, un viaggio filmico in piena autonomia, attraverso paesaggi prettamente cinematografici, fisico-territoriali – le campagne emiliane, il grande set del fratello – e considerazioni antropologiche – l’ambiente contadino in cui si muovono i due film. In generale, un’attenzione ai personaggi marginali che lo accompagnerà in opere documentarie a venire, come Panni sporchi (1985, sull’umanità che abita la stazione centrale di Milano) o Il perché e il percome (1987, con gli ospiti di Villa Maraini a Roma, una comunità per il recupero di tossicodipendenti).

Continuiamo ad osservare interviste a Giuseppe, sequenze dei suoi film, brani tratti da spettacoli teatrali. Siamo a metà anni Settanta e la riflessione sull’ambiente contadino attraverso personaggi marginali è ciò che deflagra nel rapporto con Roberto Benigni, in monologhi stranianti e fortemente innovativi. Frecce estetiche in partenza dal teatro off ma capaci di incistarsi nella televisione pubblica italiana attraverso il personaggio di Cioni Mario. Inventato per un monologo teatrale, esploso in Onda libera (1976, conosciuto anche come Tele Vacca) e Vita da Cioni (1976-77), Cioni Mario rappresenta il soggetto marginale per eccellenza, erede di profonde faglie culturali, per uscire dalle quali non sono sufficienti il neo italiano televisivo, l’etica unificante dei consumi o la razionalizzazione dei processi produttivi e della burocrazia dello Stato nazionale.

La lucidità di porre in termini bio-politici l’oscura minaccia al sistema costituita dal vitalismo primigenio e irrazionale di Cioni è uno dei meriti, ancora non sufficientemente riconosciuti, di Giuseppe Bertolucci. Ecco il persistere dell’arcaico: non solo un passato da abbandonare, non solo un “ritardo italiano” sulla via del moderno, ma la consapevolezza del valore delle diverse origini del nostro paese. Sino ad accogliere il vitalismo e la forza magmatica di Benigni nel suo lungometraggio d’esordio, Berlinguer ti voglio bene (1977), prima del consolidato successo espresso dalla tournée teatrale dell’attore in Tuttobenigni (girato nel 1983 e distribuito nel 1986).

Quando ricorda il rapporto con Benigni, Giuseppe evoca l’ultima stagione che ritiene davvero libera:

Credo che i 30 anni successivi, che sono stati poi gli anni della grande invasione mediatica televisiva, non siano passati, ahimè, invano, che quei grandi margini di libertà siano stati fagocitati da quella che Pasolini definiva l’omologazione televisiva.

Una sofferenza particolare perché Giuseppe è stato un geniale sperimentatore, un artista capace di raccontare l’esperienza intellettuale di fare cinema, nell’esigenza di una costante riflessione teorica. Come se filmare non fosse solo atto cinematografico ma, soprattutto, esperienza pratica del pensiero, messa in forma di una libertà mentale che significava anche lateralità sociale.

Essere fuori campo: sul volto di Fabrizio Gifuni in treno, ascoltiamo alcune parole off di Giuseppe:

Sperimentazione. Nel cinema moderno ha sempre significato marginalità. Ma, anche, libertà di espressione. Sono le coordinate del mio lavoro. L’altra faccia, in positivo, della precarietà. I miei valori di riferimento, mai smentiti, in una pratica creativa che ha spaziato a 360 gradi in tutte le direzioni. Dal documentario alla finzione, dal cinema alla televisione, dal comico al tragico, dal ricorso alle star come ai non attori, dal reportage culturale al film antropologico, dalla video-poesia al film di montaggio. Dunque, di fatto, sono figlio di una sorta di plurilinguismo estremo, sedimentato negli anni.

Plurilinguismo che lo porta, negli ultimi anni della sua vita, a presiedere la Cineteca di Bologna, aprendo le braccia a tutto il cinema che gli veniva offerto dagli archivi.

Nel momento in cui Giuseppe non crede più alla tradizionale macchina cinema, e ne riconosce un ruolo limitato dalla crescita di altri media, l’impegno assunto dal 1997 gli consente un’ulteriore esperienza culturale. E non è un caso se in questi anni arriva a confrontarsi pienamente con la vitale scia del ri-montaggio. Le potenzialità nel riuso delle immagini rientra pienamente negli aspetti contaminatori della poetica di Bertolucci: nel 1997 In cerca del Sessantotto, tracce e indizi (prodotto da “L’Unità”, con materiali dell’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico); due anni dopo, In cerca della poesia: tracce e indizi, un affresco sulla poesia italiana del Novecento con materiali degli archivi Rai, realizzato per Alfabeto italiano, una serie televisiva in 21 puntate. Interessante, nei titoli dei due film, il comune utilizzo dei termini “tracce” e “indizi”, sintomi di una poetica del frammento in cui la tradizionale drammaturgia del film narrativo collassa a favore di un randagismo iconico, più in sintonia con le cavità della memoria individuale, le dimenticanze della Storia, le difficoltà filosofiche del “vederci chiaro”.

Una vicinanza estrema all’archivio, che porta Bertolucci a comporre uno dei suoi film più significativi, Pasolini prossimo nostro (2006, realizzato con foto di scena e interviste sul set di Salò a Pasolini); nonché a risarcire, nel 2008, l’episodio di Pasolini nel film La rabbia, inserendo 16 minuti originali, tagliati nell’edizione del 1963.  La vicenda del film è nota, ma qui acquista un valore particolare, gettando un ponte ulteriore fra Pasolini e Bertolucci: una liaison inerente pratiche, spesso sottovalutate, di riattivazione del filmico all’interno di un cinema della sperimentazione, saggistico, di poesia. Composizioni in cui il poetico e il politico paiono molto vicini: intrecci fluttuanti che rimandano al legame morfologico fra forme vitali ed espressioni artistiche, nella loro umana contraddittorietà. Per Giuseppe “un grande desiderio di non finire, di non definire, di non blindare l’oggetto estetico”.

Siamo al termine, e il lungo viaggio di Evviva Giuseppe ci consegna una perla finale. Un nuovo monologo, à la manière di Cioni Mario, in cui Roberto Benigni quasi immobile, mani in tasca, illuminato solo da una lampadina, esprime il suo commovente ringraziamento a Giuseppe:

quando ci si incontrava era tutto un folgorare di bellezze… perché io facevo tante domande a Giuseppe e lui sapeva rispondere a tutte… perché Giuseppe amava la vita, Freud, Proust, i pranzi da solo al ristorante con il giornale, il burro fritto, Caproni, la Juventus, le camminate, Lenin, Robinson Crusoe, la politica, il bollito, Mizoguchi, John Ford, perché io lo copiavo e imparai anch’io ad amare tutte queste cose. Escluso il burro fritto e la Juventus.

Era da tempo che non si vedeva un Benigni così intenso e appassionato. Alla sentita performance dell’attore seguono alcuni home movies, ora le parole tacciono, osserviamo Giuseppe, la sua famiglia, i suoi amici attraversare la materia porosa dell’8mm. Una nostalgia senza retorica, la memoria ritrovata nell’elegante film di Stefano Consiglio.

Riferimenti bibliografici
G. Bertolucci, Cose da dire, Bompiani, Milano 2011. 

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